ERASMO E LA CRITICA DELLA GUERRA
di
Franco Toscani
1.
Erasmo, “europeo consapevole”
Il
più famoso umanista del suo tempo e grande interprete dell'umanesimo cristiano,
il filologo, teologo, scrittore e filosofo Desiderius Erasmus Roterodamus (Geer
Gerttsz, Rotterdam,1466-Basilea,1536), figlio illegittimo di un sacerdote, fu
il primo bewuβte Europäer ("europeo consapevole", come lo definì
ottimamente Stefan Zweig nel 1934),[1]
non solo perché girò mezza Europa, soggiornando a lungo nei Paesi Bassi, in
Germania, in Inghilterra, in Italia, in Svizzera, in Francia. Ancor più lo fu
come un uomo libero che non aderì mai acriticamente alle posizioni dei
cattolici e dei protestanti; come un intellettuale cosmopolita, un
"funzionario dell'umanità" (secondo la definizione che nel XX secolo
diede Edmund Husserl del filosofo), al servizio non di una corte, di un
partito, di uno stato, di una chiesa, di un re, di un qualsivoglia potente, ma
esclusivamente interessato alle sorti dell' "uomo planetario" (come
direbbe oggi Ernesto Balducci). Va aggiunto che per noi il filosofo non può più
essere nel nostro tempo "funzionario dell'umanità" senza essere, nel
contempo, anche funzionario della Terra saccheggiata, sconvolta e minacciata,
senza quella "cura del Tutto" che rende nobile e fruttuosa la nostra
esistenza. Sino
all'ultimo Erasmo confermò il suo anticonformismo, rifiutando nel 1535 il
cappello cardinalizio offertogli dal papa e morendo nel 1536 a Basilea, in
piena coscienza, senza chiedere la presenza di un confessore. Festina lente ("Affrettati
lentamente", proverbio 1001 degli Adagia)
fu sempre il suo motto (come pure del suo amico Aldo Manuzio e della sua
stamperia a Venezia), all'insegna del delfino che si attorciglia all'àncora,
dove il delfino è il simbolo della celerità/intensità dell'impegno lavorativo e
l'àncora è il simbolo della stabilità e della lentezza caratterizzanti ogni
lavoro accurato.
2. Sulle tracce di Erasmo. Lo sguardo
filosofico e la critica della guerra Gli
Adagia sono una raccolta di motti e
proverbi (gemmulae, piccole pietre
preziose) della classicità greca e romana, raccolta che per decenni Erasmo
continuò a rielaborare e ad arricchire: la prima edizione del 1500 conteneva
818 proverbi e detti, saranno ben 4151 nell'ultima del 1536. Nell'edizione
degli Adagia pubblicata nel 1515 a
Basilea dall'editore Froben, il commento dell'autore ad alcuni importanti
proverbi dà vita alla formazione di saggi autonomi piuttosto lunghi dal
rilevante significato politico, etico-religioso, teologico e filosofico: tra
questi vi è Dulce bellum inexpertis,
su cui soffermeremo qui la nostra attenzione e a cui faremo riferimento
nell'ottima traduzione di Silvana Seidel Menchi. Su di esso, negli ultimi anni
della sua vita, Delio Cantimori tenne due seminari presso la Facoltà di Lettere
dell'Università di Firenze e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Noi qui
seguiremo passo dopo passo il discorso sulla guerra avviato in Dulce bellum inexpertis (e proseguito
nella Querela pacis, 1517), cercando
di fornire la nostra interpretazione, ma lasciando soprattutto spazio alle sue
lucide riflessioni. In
saggi come questo, esplicitamente rivolto contro la guerra, il ricorso alla
filologia e all'erudizione non è più sufficiente e si esplica pienamente la
vena e la forte vocazione di teologo critico delle deviazioni della società e
cultura cristiane del suo tempo. Nella lettera al suo antico allievo e mecenate
Lord Mountjoy che accompagna nel 1508 l'edizione aldina degli Adagia, Erasmo scrive infatti che la
teologia "non si limita a coltivare l'intelletto, ma riguarda anche la pietas della vita".[2]Dulce bellum inexpertis (traducibile, come fa
Seidel Menchi, con "Chi ama la guerra, non l'ha vista in faccia"
oppure con "La guerra è piacevole per quelli che non l'hanno
sperimentata") è tratto da un frammento di Pindaro (VI-V sec. a. C.):
"Γλυκὺς δὲ πόλεμος ἀπείροισιν, ἐμπείρων δέ τις ταρβεῖ προσιόντα νιν καρδίᾳ περισσῶς" ("La guerra è grata a chi non l'ha
sperimentata, ma chi l'ha sperimentata prova un grande orrore se essa si
avvicina al suo cuore", fragm. 110, ediz. B. Snell), poi ripreso da
Vegezio (IV-V sec. d. C.) nel capitolo quattordicesimo, libro terzo del De re militari (Arte della guerra): "Nec confidas satis, si tyro praelium
cupit, inexpertis enim dulcis est pugna" ("Non ti fidare se il
coscritto anela allo scontro: la battaglia attrae chi non l'ha provata"). Dulce bellum inexpertis è dunque un adagium giustamente celebratum, letterariamente assai divulgato, per la sua tesi
centrale secondo cui la guerra è fra quelle esperienze umane che non si possono
comprendere appieno finché non si sono personalmente sperimentate (cfr. AD,
196-197).Sono
in gioco qui i rapporti molto stretti fra guerra, violenza e potere. Subito
dopo aver citato Pindaro e Vegezio, infatti, assai significativamente Erasmo
allarga il suo discorso all'esperienza e all'inesperienza del potere, mettendo
in guardia circa l'amarezza, il disincanto e la delusione provati da coloro che
sono troppo prossimi ai potenti. A questo scopo egli cita due versi
lungimiranti tratti dalle Epistulae
(I, 18, 86-87) di Orazio: " Dulcis inexpertis cultura potentis amici:/
expertus metuit" ("Per l'inesperto è dolce corteggiare/ un amico
potente, ma l'esperto/ ne teme", trad. it. di Enzio Cetrangolo. Cfr. AD,
197-198).In
ogni caso, la guerra è per Erasmo ciò che bisogna modis omnibus fugere, deprecari, propellere ("in tutti i modi
evitare, scongiurare, tenere lontana"), perché non alia res vel magis impia vel calamitosior vel latius perniciosa vel
haerens tenacius vel tetrior et in totum hominem indignior, ut ne dicam
christiano ("non c'è iniziativa più empia e dannosa, più largamente
rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell'insieme più indegna di
un uomo, per non dire di un cristiano").
L'autore
degli Adagia constata invece che si
fa in generale un ricorso troppo frequente e leggero, per le ragioni più futili
e inconsistenti, alla guerra, da parte di tutti: pagani e cristiani, giovani e
vecchi, esperti e inesperti, principi e re, masse popolari, sacerdoti e
vescovi; persino giureconsulti e teologi aizzano a compiere queste nefandezze e
infamie (nefaria). La guerra è a tal
punto recepita e conformisticamente accettata che nel XVI secolo passa per
irreligioso, eretico e stravagante non colui che la pratica, ma colui che la
rifiuta, come se non si trattasse dell’ “iniziativa più scellerata e calamitosa”
(res sceleratissima ita miserrima)
fra tutte quelle possibili. Fa dunque meraviglia l'opposizione alla guerra e
non il fatto che l'uomo - preordinato alla civile e solidale convivenza, oltre
che predestinato alla salvezza - si trasformi in un essere beluino, si faccia
promotore o vittima di sterminio, di un tale flagello (pestis. Cfr.
AD, 198-199).Ciò
accade quando l'uomo, cedendo alle opinioni e alle ideologie dominanti, non
considera l'essenza e la natura delle cose, non vede più il mondo "con lo
sguardo del filosofo" (philosophicis
oculis), ossia con quell'ampiezza e lungimiranza di valutazione che
sarebbero necessarie (cfr. AD, 198-201). Lo sguardo del filosofo non si
abbandona a ciò che appare ovvio e scontato, ha una profonda tensione
veritativa, è panoramico, dall'alto, non nel senso di una inesistente o
inconsistente altezzosità, superiorità e arroganza dell'atteggiamento, ma nel
senso di un peculiare e attento rivolgimento alla totalità e alla comprensione
dell'interrelazione tra le parti, nel senso di una visione complessiva che
tenta di soppesare e valutare il senso e il valore delle cose. Come ha rilevato
ottimamente Pierre Hadot, lo "sguardo dall'alto" filosofico ci libera
dalle visioni unilaterali e meramente egoistiche o individuali e ci apre a una
prospettiva universale: "ciò che conta è liberarci dai paraocchi, (...)
che riducono la nostra visione al nostro esclusivo interesse. Si tratta di
mettersi al posto degli altri e di tentare di inserire la nostra azione
nell'ottica dell'umanità, non dell'umanità astratta, ma degli altri uomini, e
insieme anche nell'ottica del mondo, non tanto per dire che cosa noi possiamo
apportare al cosmo, quanto per porre gli eventi in questa prospettiva più
ampia. È un tema molto tradizionale ed essenziale che si può riassumere così:
la terra stessa non è che un punto, noi siamo qualcosa di microscopico
nell'immensità"[3].
Questo "sguardo dall'alto" esige uno sforzo dell'immaginazione e
dell'intelligenza "destinato soprattutto a ricollocare l'essere umano
nell'immensità dell'universo, a fargli prendere coscienza di quello che è. In
primo luogo coscienza della sua debolezza, poiché gli fa sentire quante cose
umane, che ci paiono di importanza capitale, siano, considerate in questa
prospettiva, di una piccolezza risibile. (...) Si tratta inoltre di far
prendere coscienza all'essere umano della grandezza dell'uomo, il cui spirito è
in grado di percorrere tutto l'universo. Questo esercizio induce infatti a un
ampliamento della coscienza, a una sorta di volo dell'anima verso l'infinito,
quello che Lucrezio descrive a proposito di Epicuro. Soprattutto, ha come
effetto di permettere all'individuo di vedere le cose in una prospettiva
universale e di liberarlo dal suo punto di vista egoista. Ecco perché questo
sguardo dall'alto conduce all'imparzialità".[4]
È uno sguardo di questo tipo che accompagna sempre il discorso dell'autore di Dulce bellum inexpertis nella sua
lucidissima fenomenologia della guerra, sulle cui tracce ci inoltriamo.
Note1. Cfr. S. Zweig, Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, 1934; trad. it. di L.
Mazzucchetti, Erasmo da Rotterdam,
Rusconi, Milano 1994, p. 7. 2. Cit. in S. Seidel Menchi, Introduzione, in Erasmo da Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di
proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1980, pp. XXV-XXVI.
Si tratta di una splendida edizione contenente i saggi Aut regem aut fatuum nasci oportere, A mortuo tributum exigere, Spartam
nactus es, hanc orna, Sileni
Alcibiadis, Scarabeus aquilam quaerit,
Dulce bellum inexpertis. D'ora in poi
l'opera sarà citata nel testo con la sigla AD. 3. Cfr. P. Hadot, La
philosophie comme manière de vivre. Entretiens avec Jeannie Carlier et Arnold
I. Davidson, 2001; trad. it. di A. C. Peduzzi e L. Cremonesi, La filosofia come modo di vivere.
Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino
2008, pp. 183-184.
Il
più famoso umanista del suo tempo e grande interprete dell'umanesimo cristiano,
il filologo, teologo, scrittore e filosofo Desiderius Erasmus Roterodamus (Geer
Gerttsz, Rotterdam,1466-Basilea,1536), figlio illegittimo di un sacerdote, fu
il primo bewuβte Europäer ("europeo consapevole", come lo definì
ottimamente Stefan Zweig nel 1934),[1]
non solo perché girò mezza Europa, soggiornando a lungo nei Paesi Bassi, in
Germania, in Inghilterra, in Italia, in Svizzera, in Francia. Ancor più lo fu
come un uomo libero che non aderì mai acriticamente alle posizioni dei
cattolici e dei protestanti; come un intellettuale cosmopolita, un
"funzionario dell'umanità" (secondo la definizione che nel XX secolo
diede Edmund Husserl del filosofo), al servizio non di una corte, di un
partito, di uno stato, di una chiesa, di un re, di un qualsivoglia potente, ma
esclusivamente interessato alle sorti dell' "uomo planetario" (come
direbbe oggi Ernesto Balducci). Va aggiunto che per noi il filosofo non può più
essere nel nostro tempo "funzionario dell'umanità" senza essere, nel
contempo, anche funzionario della Terra saccheggiata, sconvolta e minacciata,
senza quella "cura del Tutto" che rende nobile e fruttuosa la nostra
esistenza.
Festina lente ("Affrettati
lentamente", proverbio 1001 degli Adagia)
fu sempre il suo motto (come pure del suo amico Aldo Manuzio e della sua
stamperia a Venezia), all'insegna del delfino che si attorciglia all'àncora,
dove il delfino è il simbolo della celerità/intensità dell'impegno lavorativo e
l'àncora è il simbolo della stabilità e della lentezza caratterizzanti ogni
lavoro accurato.
2. Sulle tracce di Erasmo. Lo sguardo
filosofico e la critica della guerra
In
ogni caso, la guerra è per Erasmo ciò che bisogna modis omnibus fugere, deprecari, propellere ("in tutti i modi
evitare, scongiurare, tenere lontana"), perché non alia res vel magis impia vel calamitosior vel latius perniciosa vel
haerens tenacius vel tetrior et in totum hominem indignior, ut ne dicam
christiano ("non c'è iniziativa più empia e dannosa, più largamente
rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell'insieme più indegna di
un uomo, per non dire di un cristiano").
2. Cit. in S. Seidel Menchi, Introduzione, in Erasmo da Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di
proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1980, pp. XXV-XXVI.
Si tratta di una splendida edizione contenente i saggi Aut regem aut fatuum nasci oportere, A mortuo tributum exigere, Spartam
nactus es, hanc orna, Sileni
Alcibiadis, Scarabeus aquilam quaerit,
Dulce bellum inexpertis. D'ora in poi
l'opera sarà citata nel testo con la sigla AD.
3. Cfr. P. Hadot, La
philosophie comme manière de vivre. Entretiens avec Jeannie Carlier et Arnold
I. Davidson, 2001; trad. it. di A. C. Peduzzi e L. Cremonesi, La filosofia come modo di vivere.
Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino
2008, pp. 183-184.