DONNE E GUERRA
di
Maria Carla Baroni
Emma Goldman
Una
questione multiforme.
Ci
furono nell’antichità imperatrici e regine che a capo dei propri eserciti
combatterono gli invasori: le egizie Ahotep (1750 a. C.) vittoriosa contro gli
ittiti, e Cleopatra (69 - 30 a. C.); Teuta (III secolo a.C.) regina
dell’Illiria, Boudicca o Baodicea di Britannia (33-66 d.C.) e Zenobia di
Palmira (240-275 d.C.) che, nonostante il loro coraggio e le loro capacità,
dovettero alla fine soccombere alla potenza dell’impero romano; Kahina, figura
fondamentale nella resistenza berbera durante la conquista homayyade del Nord
Africa nel VII secolo; varie sultane cape di Stato nell’Islam. Ci furono
aristocratiche che difesero i loro territori armi in pugno, la più nota delle
quali, in Italia, fu Caterina Sforza (1463-1509). Ci furono regine e
imperatrici che ampliarono i loro domini ricorrendo alle armi per terra e per
mare (Elisabetta I d’Inghilterra e Caterina II di Russia). In tempi a noi assai
più vicini ricordo Mika Feldman Etchebéhère (1902-1992), che, succedendo di
propria iniziativa al marito ucciso
durante la guerra civile spagnola, comandò una milizia antifranchista del
Partido Obrero de Unification Marxista prendendosi particolarmente cura, per
quanto possibile, delle condizioni di vitto, alloggio e salute dei suoi uomini
e organizzando una scuola dietro le trincee (vederne l’autobiografia: “La
mia guerra di Spagna”, ripubblicata in Italia nel 2016 da Alegre). Anche
Teresa Noce (1900-1980), la grande rivoluzionaria e sindacalista della Cgil di
origine operaia, combatté con le Brigate Internazionali nella stessa guerra.
Segnalo inoltre i casi emblematici di altre donne efficacissime combattenti: le
giovani aviatrici sovietiche nella regione di Stalingrado nel 1941, durante la
Seconda guerra mondiale, le “streghe della notte”, terrore degli occupanti
nazisti (vedere Ritanna Armeni “Una donna può tutto”, Ponte alle
Grazie, 2018), e negli anni scorsi le donne curde del Rojava, che, organizzate
nel loro movimento autonomo combatterono contro l’ISIS e lo sconfissero; allora
tanto ammirate da conquistare le prime pagine dei giornali in tutto il mondo e
poi dimenticate, lasciate in balia del dittatore turco Erdogan.
Emma Goldman |
Rosa Luxenburg
Spuntano
qua e là, nel tempo e nello spazio, a mano a mano che studi recenti le
scoprono, donne che fecero parte strutturalmente di eserciti combattenti a
difesa della loro terra comunque intesa: ad esempio le donne longobarde in
Europa nel VI secolo e le donne samurai in Giappone dal secolo XVI al XIX.
Le
donne di ogni classe sociale, dunque, sanno combattere quando lo ritengono
importante, qualunque ne sia la motivazione. Negli eserciti contemporanei le
donne entrano per scelta e vi fanno carriera, così come alcune praticano sport
violenti tipicamente maschili come la boxe, probabilmente per dimostrare a sé
stesse e alla società che non esistono mestieri e incarichi preclusi alle
donne.
Le
donne sono soprattutto vittime in massa delle guerre, particolarmente a partire
dalla Seconda guerra mondiale, da quando le guerre hanno coinvolto via via
sempre più la popolazione civile: sono state bombardate, uccise, costrette alla
fuga, deportate, costrette all’emigrazione anche al di fuori del proprio
continente, come le africane e le mediorientali. Sono state usate come schiave
sessuali al servizio dei militari: i casi più noti sono state le ebree da parte
dei nazisti e le coreane da parte dei giapponesi durante la Seconda guerra
mondiale. Durante le guerre le donne dei popoli occupati sono state violentate
e stuprate. Probabilmente ciò è avvenuto fin dalla notte dei tempi (nell’Iliade
troviamo le aristocratiche troiane rese schiave dei condottieri greci...), ma
il fenomeno è diventato di dominio pubblico soprattutto a partire dalla Seconda
guerra mondiale: in Italia, nella ex Jugoslavia, in Cina e ora in Ucraina. Lo
stupro di massa è stato particolarmente feroce nella ex Jugoslavia, dove ha
assunto il carattere dello stupro etnico. Gli uomini di una etnia e di una
religione hanno voluto punire quelli avversari conquistando e distruggendo il
loro territorio, ma pure usando le donne non solo come oggetti di loro
proprietà, ma soprattutto come componente essenziale del territorio
conquistato, piantando il loro seme nel ventre delle donne per umiliare gli
avversari e per imbastardirne la discendenza, lasciando così il segno della
loro conquista e del loro dominio anche per il futuro.
Giulia Molino Colombini
Come
fanno le donne ad amare figli e figlie frutto di uno stupro, invece che
dell’amore o del piacere o del bisogno/scelta di perpetuare la vita? Figli e
figlie che con la loro stessa esistenza possono ricordar loro in ogni istante
la violenza subita. Le legislazioni di alcuni Paesi, pur contrarie all’aborto
generalizzato, lo riconoscono in caso di stupro. Ma la cattolicissima Polonia,
in pieno secolo XXI, lo nega adesso alle ucraine…
Paradossalmente
la tragedia delle due guerre mondiali ha favorito, almeno per la loro durata,
l’emancipazione femminile: le donne hanno sostituito gli uomini impegnati al
fronte nelle fabbriche e nei servizi pubblici. Appena gli uomini sono tornati
ne sono state cacciate, ma intanto avevano dimostrato di essere perfettamente
in grado di svolgere compiti ritenuti maschili. Un episodio va particolarmente
segnalato. Nel 1914 alcune chirurghe londinesi, che in patria potevano esercitare
solo in istituzioni di carità, impiantarono a Parigi un ospedale militare
interamente gestito da donne, con il corpo medico interamente costituito da
donne, contestate e rifiutate all’inizio dagli stessi soldati e ufficiali
gravemente feriti. L’esperienza si rivelò validissima e poco dopo fu replicata
con un analogo ospedale impiantato a Londra, dedicato alla cura e alla
riabilitazione fisica e psichica dei feriti di guerra più gravi, spesso
amputati.
Clara Zetkin
Vediamo
ora la voce delle donne contro la guerra, partendo da alcuni loro scritti. Si
espressero chiaramente contro la guerra sia Rosa Luxemburg (1871-1919), sia
Clara Zetkin (1857-1933), sia Virginia Woolf (1882-1941), note e apprezzate tra
le donne, non ancora abbastanza tra gli uomini.
Straordinaria
è stata la capacità di Rosa Luxemburg di cogliere l’importanza economica
dell’industria militare come modo privilegiato di accumulazione del capitale,
cui è dedicata l’ultima parte del suo capolavoro “L’accumulazione del
capitale”. Sia lei sia Clara Zetkin furono tra le prime ad avviare e poi a
percorrere il cammino secondo cui la lotta contro il militarismo è un elemento
essenziale della lotta contro il patriarcato. Virginia Woolf, cui era stato
chiesto che cosa possono fare le donne per prevenire la guerra rispose, nel suo
saggio “Le tre ghinee” del 1938, che occorreva mettere a disposizione
delle donne tre simboliche ghinee: una per costituire il fondo per l’istruzione
femminile, l’altra per garantire l’accesso delle donne alle libere professioni
e l’ultima per creare un’associazione femminile pacifista chiamata “la società
delle estranee”, le estranee al patriarcato, al militarismo e alla guerra,
abominio tipicamente maschile. È stata una donna a “inventare” l’obiezione di
coscienza al servizio militare: Emma Goldman (1869-1949), una delle figure
centrali del movimento anarchico e una delle pioniere del femminismo.
Poiché
però ho a disposizione solo un articolo e non una antologia, passo ad altre due
scrittrici.
Christa
Wolf (1929-2011), la più importante scrittrice tedesca contemporanea, nel suo
capolavoro “Cassandra”, attraverso le vicende della sacerdotessa di
Apollo figlia di Ecuba e di Priamo, che si unisce alle comunità femminili
dissidenti dello Scamandro, mette in luce la multiforme tragedia della guerra,
le mistificazioni intorno alle sue origini quando si tratta solo di una contesa
per il dominio dell’Ellesponto, e il sogno di una società femminile e
incruenta.
Svetlana
Aleksievic (nata nel 1948, Premio Nobel per la letteratura 2015) per scrivere
il suo “La guerra non ha un volto di donna” (Bompiani, 2015) ha condotto
centinaia di conversazioni e di interviste con donne che, quando avevano
diciotto o diciannove anni, erano accorse, in buona parte volontarie, al fronte
per difendere l’URSS, ovvero la patria e i propri ideali, contro uno spietato
aggressore. Alla fine furono un milione, non solo infermiere,
radiotelegrafiste, cuciniere e lavandaie e neppure solo aviatrici come le
“streghe della notte”, ma anche soldate di fanteria, carriste, addette alla
contraerea, tiratrici scelte, geniere sminatrici. Ne emerge che per creature
dispensatrici di vita dispensare morte non era stato affatto facile e che nella
percezione delle donne la guerra è ancor più carica di sofferenza di quanto sia
per gli uomini.
Moltissime
donne si espressero in poesia contro la guerra, da Saffo alle poete
dell’Ottocento e del Novecento, ignorate dalla generalità delle donne e
completamente dimenticate dalla cultura maschile dominante: un po’ per volta -
alcune - riportate alla luce da altre donne. Il Risorgimento italiano ebbe due
poete, assai note ai loro tempi: Giannina Milli (1825-1888) di Teramo e Giulia
Molino Colombini (1812-1879) di Torino. La composizione migliore della prima è
un sonetto del 1859 dedicato “Ai volontari toscani che partivano per la guerra
dell’Indipendenza”, in cui madri e sorelle, pur “con sembiante smorte” al
momento dell’addio, sono fiere del “disio di pugnar” che infiamma i cuori dei
loro cari. Del resto quale donna, dopo aver portato un figlio in grembo - nel
suo proprio corpo - per nove mesi, dopo averlo partorito con dolore e dopo
averlo allevato e accudito per circa diciotto anni, può essere spensierata nel
vederlo partire per la guerra destinato a essere carne da macello? Se lo
sostiene in tale sua scelta dimostra un coraggio civile e una coscienza
patriottica decisamente ammirevoli. Bruna Bianchi nel suo libro “Versi
sovversivi. Le poetesse pacifiste della Grande guerra” porta alla ribalta
quanto espressero suffragiste, pacifiste, infermiere di vari Paesi (europee,
russe, statunitensi), per dare voce a un dolore insieme personale e universale
che invece il potere voleva tener
nascosto, per denunciare - contro l’uso distorto delle parole a opera della
propaganda - il vero volto di una guerra che si accaniva sui deboli, per far
conoscere il senso di colpa delle donne per non aver contrastato la guerra ed
essere state acquiescenti alla visione patriarcale del mondo contro l’ordine
naturale delle cose; per far conoscere anche il disagio delle operaie che avevano sostituito nelle fabbriche di armi
gli uomini al fronte e perfino lo scoramento delle infermiere nel “rappezzare”
uomini che poi sarebbero stati restituiti all’esercito e rispediti in guerra.
Desidero
ricordare che anche nella seconda metà del Novecento ci furono poete e
cantautrici contro la guerra: tra i loro testi riporto come a mio parere
particolarmente significativa una poesia del 1964 di Buffy St. Marie,
cantautrice canadese, intitolata “Soldato universale”: “È alto un metro e 50 e più
di due metri / combatte con i missili e con i giavellotti / ha 31 anni e ne ha
solo diciassette / è stato un soldato per un centinaio di anni. / È un
cattolico, un indù, un ateo, un gianista / un buddista, un battista e un ebreo
/ e sa che non dovrebbe uccidere / e sa che lo farà comunque. / Combatte per il
Canada, combatte per la Francia / combatte per gli Stati Uniti d’America / per
la Russia e per il Giappone / ed è convinto che in questo modo noi porremo /
fine alla Guerra. / Combatte per la democrazia / dice che è per la pace di
tutti / è lui che deve decidere / chi può vivere e chi deve morire / e non vede
mai le scritte sui muri. / Ma senza di
lui come avrebbe potuto Hitler /
realizzare Dachau? / senza di lui Cesare sarebbe rimasto da solo. / (…)
È il soldato universale... i suoi ordini vengono da qui e da lì / e voi,
fratelli, non capite / questo non è il modo con il quale porremo fine alla
Guerra”.
Buffy St. Marie
In
una mia poesia degli anni ‘90 - “A un volontario alla guerra del Golfo” – metto
in evidenza come il desiderio di andare in guerra sia stato talmente immesso
nella cultura dominante da diventare quasi connaturato all’essere maschio, fino
a permeare adolescenti che si offrono volontari, senza alcun riferimento al
proprio Paese, in questo caso gli Stati Uniti, ma dall’altra parte del mondo
(forse proprio per questo?): “Un volto ancora tondo di bambino / sui nostri
giornali un diciassettenne / volontario alla guerra del Golfo. / Ti avranno
attirato / con l’onore la patria la gloria / l’avventura la virilità. /
Sbandierata una buona paga. / Bambino violentato e comprato / anche se non
ucciderai / anche se non sarai ucciso / una parte di te sarà la morte”.
Nel
Novecento le donne più coscienti e attive si sono organizzate contro la guerra,
cominciando dalla Federazione Democratica Internazionale delle Donne, fondata a
Parigi nel dicembre 1945, con lo scopo di portare avanti la “lotta contro il
fascismo e il militarismo, la sola che può permettere di assicurare le
condizioni di una pace durevole”. Della delegazione italiana, fra le più
nutrite, facevano parte, tra le altre, Camilla Ravera, Ada Marchesini Gobetti,
Lina Merlin, Marisa Rodano. Un caso interessante è quello delle Donne in Nero,
movimento fondato nel gennaio 1988, tre settimane dopo lo scoppio della prima
intifada, da nove donne di Gerusalemme per protestare contro l’occupazione
israeliana dei Territori palestinesi. Il movimento si diffuse in seguito
spontaneamente, prima in Canada e negli Stati Uniti e poi in Europa, a partire
dall’Italia, e in Australia.
Erella Shadmi
Come scrisse Erella Shadmi, l’uso del corpo delle
donne, con la sua presenza ammantata di nero, costante nel tempo e nello
spazio, stabilisce il legame tra l’esperienza delle donne e la politica
nazionale, tra l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e
l’occupazione maschile del corpo delle donne.
Nel
1999, nello stesso anno in cui maturava l’idea di contrapporre al Forum
Economico Mondiale di Davos un forum dei popoli, nasceva nella provincia
canadese del Québec un movimento femminista che poi sarebbe divenuto globale,
la Marcia Mondiale delle Donne, contro le violenze e contro la povertà: la
guerra è l’estrema delle violenze e una delle cause principali dell’aumento
della povertà nel mondo. Non a caso, nella imponente coloratissima manifestazione
dell’ottobre 2000 a Bruxelles, la delegazione italiana sbandierava uno
striscione di oltre sette metri con la scritta “Donne contro la guerra”.
La
Federazione Democratica Internazionale delle Donne, struttura organizzata,
continua la sua attività anche settantadue anni dopo la sua fondazione: ha
celebrato il suo XVII congresso nell’aprile 2022 a Caracas e fa parte dei
soggetti che hanno organizzato il Vertice per la Pace di fine giugno a Madrid
per opporsi alla guerra e alla NATO e per difendere la pace, vero e proprio
controvertice alla NATO. Nell’ambito di tale vertice la FDID ha coordinato il
panel “Unità delle donne nella lotta contro l’imperialismo” e ha partecipato
alla manifestazione finale “Unite per la pace e contro l’imperialismo, No alla
NATO”.
Giannina Milli
I
movimenti delle Donne in Nero e della Marcia Mondiale delle Donne, invece, non
sono più attivi: i movimenti nascono con slancio ed entusiasmo, si innalzano,
poi decrescono e infine finiscono. Questo andamento a meteora nulla toglie alla
loro importanza e alle loro idee e proposte, ma dovrebbe far capire a tutte e a
tutti, dentro e fuori dai movimenti, nei partiti anticapitalisti e nei
sindacati, che gli obiettivi dei movimenti possono essere raggiunti solo
costruendo una unità d’azione su obiettivi condivisi capace di durate nel
tempo, capace di far lottare insieme per lunghi periodi differenti forme della
politica, pur mantenendo ognuna la sua autonomia politica e organizzativa. È
quanto proponiamo noi donne del PCI, comuniste e femministe insieme: contro la
guerra, contro il capitalismo, contro il patriarcato.
Nel
2016 però è nato in Argentina un nuovo movimento femminista e trans-femminista:
Non Una Di Meno, con chiari connotati anticapitalisti, che in breve si è
diffuso in settanta Paesi di vari continenti.
Il
messaggio propagandato da Non Una Di Meno l’8 marzo 2022 non potrebbe essere
più chiaro: “rifiutiamo la guerra, tutte le guerre perché sappiamo che la
violenza che produce è la forma più estrema di un patriarcato strutturale che
da sempre combattiamo nelle case e nelle strade, nei luoghi di lavoro, negli
ospedali, nei tribunali e nelle carceri, nelle relazioni, sui confini”.
“La
guerra cerca di ristabilire con la sua violenza ruoli e gerarchie basate sul
genere. Gli uomini devono essere sacrificabili, combattenti che difendono le
“proprie” donne e i “propri” figli/e. Le donne tornano a essere solo madri che
scappano con i figli, mogli che piangono i mariti, vittime da salvare,
proteggere e controllare, ma mai protagoniste delle proprie scelte e delle
proprie lotte”. “L’opposizione alla guerra è parte di una lotta che pratichiamo
ogni giorno per la trasformazione radicale della società”.
Svetlana Aleksievic
Nello
specifico dell’attuale guerra in Ucraina Non Una Di Meno scrive “il militarismo
serve a definire nuove strategie di profitto, impoverimento, devastazione
ambientale. La corsa al riarmo e l’aumento delle spese militari pagate con i
fondi del PNRR si ripercuote sulle nostre vite. Il perdurare della guerra
significa anche la fine delle già parziali e insufficienti misure contro
l’inquinamento e il riscaldamento globale”. L’unica affermazione mancante,
implicita ma che occorre invece urlare chiaramente, è che la guerra è l’estrema
espressione della violenza capitalistica: non solo patriarcale, ma
capitalistico/patriarcale. Dobbiamo urlarlo soprattutto come donne, dato che il
sistema capitalistico è un sistema di dominio maschile, pensato e attuato da
menti, corpi e ormoni maschili.
Lo
stesso movimento femminista russo - Resistenza femminista contro la guerra - ha
lanciato un appello alle compagne attiviste di tutto il mondo per fermare la
guerra in Ucraina, ribadendo anch’esso che “la guerra intensifica la
disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i
diritti umani”. Nell’atrio della Casa delle Donne di Milano campeggia un
cartello che riporto: “Noi femministe vogliamo urlare la nostra rabbia contro
la virilità guerriera che porta la barbarie nella storia. Gridiamo contro
l’orrore degli stupri che sono l’orrore di tutte le guerre. Vogliamo disertare
la guerra e crediamo che deporre le armi sia l’unica soluzione al conflitto;
vogliamo che si avvii il negoziato di pace subito; condanniamo l’invio di armi
per impedire l’escalation della guerra e il baratro del rischio nucleare;
vogliamo che la parola torni all’ONU che deve riprendere l’ispirazione sulla
quale è nata;
vogliamo
che si blocchi la vendita e il traffico di armi che arricchiscono i soliti
poteri; siamo contro l’aumento delle spese militari e vogliamo risorse per
salute welfare e scuola; ci appelliamo a tutti gli esseri umani perché i
confini degli Stati non siano più soglia per la morte; sappiamo che costruire
ponti tra i popoli, e non muri e confini, è l’unica strada; vogliamo accogliere
con le sorelle ucraine tutte le donne migranti ferme ai confini dell’Europa;
rifiutiamo l’ondata di violenza patriarcale e bellicista che si sta diffondendo
in tutta Europa; gridiamo l’orrore per le donne stuprate rifugiate in Polonia a
cui viene impedito di abortire; crediamo che la guerra e tutte le guerre siano
evitabili e che un altro mondo è possibile”.
Virginia Wololf
La
guerra non è per le donne, salvo eccezioni. Non è neppure per moltissimi
uomini: oltre ai milioni di morti e di invalidi, non è stata per i proletari in
divisa che nella Prima guerra mondiale tentarono di sottrarvisi con
l’autolesionismo e furono fucilati; per i militari statunitensi che tornarono
dal Vietnam interi nel corpo, ma incapaci di reinserirsi nel mondo del lavoro e
nella vita di coppia, o che caddero in depressione o finirono preda di disturbi
psichiatrici. La guerra è solo per gli uomini ai vertici delle multinazionali
capitalistiche che la promuovono per lucrarvi enormi profitti, sia nella
produzione di armi sia nella ricostruzione, e per i governanti al loro
servizio.
Che
facciano parte dei cosiddetti vincitori o dei cosiddetti vinti, le donne
possono solo perdere in guerra, mai vincere.