LA LUCE FRA I RAMI
di Maria Pia Quintavalla
Massimo Silvotti
Il nuovo libro di Massimo
Silvotti.
Sempre si devono
cercare in apertura di un libro di poesia, i testi di poetica, che illuminano a
fondo il senso di quell’umana avventura, cosa il poeta intenda, ad esempio, per
inoltrarsi ne “il nebbiaio della raminga memoria”. Un incipit dantesco, oppure
è forse la tradizione della poesia in quanto tale, che diventa manchevole, intangibile, oggetto rimosso. Cercare nelle assonanze,
o nelle rime della catena ritmica dei significanti il significato, naturalmente
sì. Forse perché l’enfasi della ricerca dei contenuti andò terribilmente in
crisi, ma anche quella del puro significante, ecco che al termine del
Novecento, a caccia della luce, abita una poesia in cerca di matericità piena,
che dalle “parole terrazza” chiuse della poesia cerchi, anche per paradosso, “una
felicità verticale”. Poche cose offrono riparo, tra queste è la poesia. “Quella
danza di passi vuoti e pieni” è del verso, e di una umanità che è definita
silenziosa, e di un mistero che è laico. Continuamente si ribadisce il binomio
corporeità, e assenza di Dio, che rispondono a segnare il passo dell’esperienza
umana. Ci sono poesie vicine a una tradizione della linea lombarda, e ci sono
posizioni vicino a una certa grecità e brevità, quasi saffica: la vita di ieri
ci attrae perché è memoria, storia. C’è “una bambina che guarda”, e c’è anche
il ricordo di “bambini colorati” e di una vita a colori, che è il
tridimensionale della vita come esperienza diretta, quella della fanciullezza-giovinezza
che non può tornare; i segni di un ri realismo nuovo che superi i
dettami di un realismo terminale. Sta nella ricerca di tangibilità della poesia
che, con le sue parole, cerca un amoroso scontro-incontro con la sua materia,
come il grido che, secondo la leggenda Michelangelo avrebbe rivolto al Mose dopo aver finito di scolpirlo: “Perché non parli?”.
Che tuttavia non porterà al rischioso esporsi, ad annunciazioni dell’io-
autore, neppure ad una rinuncia alle cose stesse, vedendole come inanimate. Sul
tema dell’opera e della felicità creativa torneremo, alla fine. La poesia è
scritta col corpo, e altro non è che una voce della natura, un continuo
riandare per evitare nostalgiche pulsioni, ma nello stesso tempo cocenti
delusioni da definire con parole minimali; la vita, l’io e il gioco serio delle
relazioni, la stessa depressione è materia della memoria che, in sede di
analisi viene nominata “sputacchiera senza salivazione”. La narratività è
continua e si abbatte per evitare una tensione lirica sugli oggetti, sulle
cose: la nominazione è fatta per evitare la paura che la vita nel frattempo sia
finita, e ci trovi morti “con le spalle al muro”. La natura morta dei vocativi di
violenza e di Eros minaccia, ogni tanto, questa apparente stasi, che non è per
nulla addomesticata, né con “l’atroce tenerezza dell’acqua” né con i “baci come
dinamite” per questi corpi sospesi. “Nel limbo tra un di dentro e un di fuori”,
chiusi, “l’oscillare di sbarre nella cella”, compaiono i nomi della Storia: “Al
signor Erdogan” - “la proteina del tuo genio, il noncurante vetriolo”. E si
prega affinché le nostre anime non vengano contagiate. Un debito di gratitudine
viene restituito nell’amore per la scrittura di Giampiero Neri, dove il
pessimismo giocato è esibito, non è però leopardiano, è qualcosa che non
ascende, perché vuole rimanere in orizzontale con “tutto questo girare e girare
e girare”. Poi ci sono delle fortissime poesie erotiche, che sono perfetti
ritratti e bozzetti di diario minimo, che regge verso un poematico continuo e
nascosto, ed esibisce il suo pathos (poematico) semplicemente. La poesia sono
piccole parole, ad una sola condizione, che “gli uccelli” - siano - “come gli
aeroplani” - “fuori dal vento”. Al lockdown sono dedicate poesie dove si
preferisce l’acqua di mare, che è come dire l’elemento del grande giacimento
dell’inconscio, che ha l’aria di essere esplorata, “con le mani” - “così ci
sedemmo”. Sì per dire - ammettere - che l’infinito è leggero e “abbracciammo” -
“l’infinito leggero” e in questi misteriose definizioni e ossimori si cela la
poetica di Massimo Silvotti, la cui pietra filosofale è personificata dalla
luce; per la ricerca della felicità il poeta cercherà di azzerare l’io, e di
farsi eco della presenza altrui. Personaggi reali o letterari, circolano, e si
è parlato di una forma a clessidra già nella scelta grafica e si può pensare ad
Apollinaire, a un bisogno sperimentale anche nel segno visivo, già nei segni
del corpo testuale. Ma perché c’è una grande sete di materia, di corpo e di
raggiungere il corpo dell’altro, che salva dal dovere essere - soltanto - sé.
Se fosse nato nel secolo scorso forse avrebbe attraversato la poetica di
Antonin Artaud e quella di Carmelo Bene, ma il primo è in un tempo lontano, il
secondo persegue una poetica che nasce da una scelta rivolta alla dizione pura.
Neppure ci parla della consolazione, dalla “terrazza dell’amore”, ma coltiva la
sua utopia segreta, che è parte costitutiva dell’essere. La lezione di
Michelangelo sembrò colpirlo molto, così nel saggio de L’ulivo e il suo
respiro. Ricerca sulla [della] felicità, che raccoglie
la parte saggistica, pubblicata prima del libro, si dice, a un certo punto, di
Michelangelo: “Cercò dunque nel coraggio della fierezza, e per ardore e
coerenza, la inseguì in un enorme pezzo di pietra ferita. Lì, forse, la
felicità era visibile, ma non si lasciava toccare. L’energia calma, andava
altrove. Provò a quel punto a scavare con violenza, nella forza dirompente del
dolore, ma dovette arrendersi e lasciò più volte il lavoro a metà. Per un po’
si confuse, la ricerca si faceva asfissiante. Sentiva intimamente di dover
tornare indietro. Qualcosa di quella madre gli era sfuggito, e anche il figlio
non era convincente in quella Sua calma apparente. Ormai era vecchio, e stanco.
Fu allora che pensò a un nuovo modo di indagare la pietra, più umano, dolce,
quasi etereo. La ricerca da fuori non appariva coerente, eppure procedeva,
incalzava… ma lentamente… confuso credette che fosse giusto fermarsi, ma ormai
la forma avanzava, avanzava, autonomamente, verso una configurazione grezza di
felicità” (pag. 48). In altre pagine, quelle del saggio citato, si parla
dell’agire virtuoso e della ricerca di sé stessi, ma dotati di una necessaria
umiltà, che la ricerca sia di per sé fragile, e cioè conseguente alla natura
umana. Tale libro di poesia occorre leggerlo come libro sapienziale allora,
biforcato, affinché questa luce penetri, “tra i rami”. Questa del qui ed ora, è
luce come segno dell’infinito holderliniano, e faccia dell’assoluto. Potremmo
concordare allora con Sabrina De Canio che la ricerca di Silvotti; “Ha il
coraggio di un bambino e la grazia di una libellula” come lei dice nella
prefazione al libro L’ulivo il suo respiro, ma non può che restare
opera aperta, impermanente verso un poema, oppure un canzoniere, in progress.
Massimo Silvotti |