I VEICOLI DELLA “RIVOLUZIONE PASSIVA”?
di
Franco Astengo
Attenzione:
la destra italiana sta preparando una operazione politico-culturale di grande
portata non limitata al piano istituzionale e alla rottura dell’involucro
politico dettato dalla Costituzione Repubblicana. Non sarà sufficiente una
risposta limitata al terreno del funzionamento degli organismi politici (e non
bisogna considerare, ancora una volta, l’obiettivo del cambiamento della
formula elettorale come salvifico). La trazione a destra, infatti, non è frutto
di formazioni improvvisate e misurate semplicisticamente sull’antipolitica ma
condotta da un soggetto dotato di un complessivo background capace di produrre
attrazione tra i ceti emergenti e aggregazione popolare. Si pone una domanda: la
destra italiana sta proponendo un enorme processo di “rivoluzione passiva”
propedeutico, proprio sul piano della tanto reclamata egemonia culturale, all’installazione
sul terreno istituzionale di una “democratura” capace di superare la democrazia
repubblicana delineata con la Costituzione del ’48? Un interrogativo che si può
ritenere pertinente e al quale non è facile fornire risposta. Così abbiamo
tratto alcune argomentazioni di merito dal numero 6 (novembre/dicembre 2023) di
“Critica Marxista” in cui due articoli affrontano temi gramsciani: Lelio La
Porta tratta di “Gramsci di destra; pericoloso ma senza fondamento”; Antonio Di
Meo scrive su “La Rivoluzione Passiva nell’universo concettuale gramsciano”.
Procediamo
per ordine, preventivando le scuse per qualche forzatura nei passaggi ma
ritenendo comunque tutto sommato di percorrere una via analitica
sufficientemente corretta. Nell’ultima parte del suo saggio Di Meo affronta il
tema delle diverse declinazioni di “rivoluzione passiva” attraverso cui Gramsci
affronta l’analisi di molti processi storici soprattutto a partire dalla
Restaurazione post-napoleonica con l’affermarsi delle forme di blocco delle
classi dominanti sia come modificazione al proprio interno, sia nei confronti
delle classi subalterne. Fenomeno di modifica nel rapporto tra classi dominanti
e ceti subalterni (cui oggi punta apertamente la destra) che si esplicitò nell’istituzione
delle forme costituzionali di monarchia e dell’allargamento lento ma
progressivo della platea degli elettori, della riforma dei codici giudiziari e
delle unità di misura oppure nel caso delle leggi eversive della feudalità e
della manomorta ecclesiastica e così via.
La
“rivoluzione passiva” era dunque intesa come modalità di ammodernamento degli
Stati Europei senza un’autentica rivoluzione popolare in un quadro che potrebbe
essere definito di “corrosività riformistica”.
Il
concetto di rivoluzione passiva dovrebbe essere quindi dedotto da due principi
fondamentali della scienza politica di cui è necessario prendere atto:
1)
che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che
si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento
progressivo;
2)
che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state
onorate le condizioni necessarie.
Nel
saggio di Lelio La Porta si affrontano i diversi passaggi relativi alle “prove”
che la destra, a partire da De Benoist, ha sviluppato per cercare di annettersi
almeno parti del pensiero gramsciano. In sostanza si tratta del discorso di
gran moda sull’egemonia che la destra recentemente arrivata al potere in Italia
sta sviluppando esaltando i valori nazionalistici e costruendo, in questo
senso, una sorta di Pantheon tenendo assieme Dante, Leopardi, Prezzolini,
Gramsci, Gentile e Croce (utilizzando anche la contaminazione che il pensiero
di Gramsci esprime al riguardo del lavoro di Croce e Gentile su Marx, svolto
contemporaneamente a Labriola) e dimenticando le aspre critiche di Gramsci nel
momento in cui individuava nella prassi la rimessa in circolazione proprio del
pensiero di Labriola.
Leggendo
i due testi sorge, a mio modesto giudizio, un ulteriore interrogativo: è
possibile che la battaglia per l’egemonia che la destra sta conducendo non
rappresenti una sorta di “veicolo” per un processo di “rivoluzione passiva”?
All’interno di questa fase di “rivoluzione passiva” si dovrebbe
sviluppare, dal punto di vista della destra, almeno un elemento di fondamentale
importanza: la ricostruzione, sul piano teorico, di un “senso comune” opposto a
quello che la sinistra ha sviluppato nel corso dei decenni della sua
affermazione storica a livello europeo, senza stroncarne la presenza ma con una
operazione di “soffocamento sostitutivo”, assumendone anche valori e principi
(i campi di “Patria” e “Nazione” appaiono almeno in apparenza i più indicati al
proposito, tanto più in un clima crescente di spirale pre-bellica).
La destra intende sviluppare gli elementi fondativi di questo
nuovo senso comune sul terreno culturale e sociale (verrebbe quasi da usare
l’antico termine di “controcultura” intendendo il termine cultura nel senso
della “kultur” nell’interezza del significato di questo termine che si trova
nella lingua di Hegel, Kant e Marx).
Il terreno del contendere rispetto a questa operazione, dovrebbe
indurre la sinistra ad una opera di vera e propria ricostruzione di un opposto “senso
comune” (ed è a questo proposito che i due saggi citati, probabilmente in
maniera involontaria finiscono con l’intrecciarsi).
Per ingaggiare questo scontro, necessario da condurre nel tempo
della “modernità” (tecnologia, velocità nella comunicazione di massa, AI e
quant’altro) abbiamo allora più che mai bisogno della messa in opera di un’adeguata
soggettività politica capace di porre al primo posto proprio la connessione tra
cultura e politica, svolgendo funzione pedagogica a costruendo “quadri”. Sarà
sulla base dei modelli che potranno essere scelti a condizione di realizzare un
forte dibattito di massa per decidere la forma da far assumere, nell’oggi, a
questa soggettività, che si potranno costruire nel tempo le condizioni
culturali e politiche adatte all’affermazione, a tutti i livelli, di una nuova,
adeguata, élite dirigente.
L'élite dirigente della quale è necessario, indispensabile ed
urgente procedere alla formazione partendo dalle tante avanguardie sparse in
una pluralità di situazioni e attualmente prive di riferimento
politico nelle fabbriche, nelle Università, nei nuovi movimenti
sociali e che deve essere unificata all’interno di una organica
visione dell’intreccio tra azione culturale e agire politico.
Élite dirigente dalla quale far ripartire quella lotta per l’egemonia
che deve rappresentare il vero obiettivo del nostro agire culturale, sociale,
politico.