di Fulvio Papi
Mario Scelba |
Scrivere storia dipende non poco dalla situazione
sociale e culturale con cui la figura dello storico si trova di fatto a entrare
in contatto più o meno diretto. Una qualsiasi bibliografia storica evidenzia
con chiarezza questa condizione che, a sua volta, quasi necessariamente, è bene
cercare di comprendere, senza farsi condizionare da alcun pregiudizio. Per
esempio temevo che a una situazione etico-politica come la nostra,
contemporaneamente pericolosa e volgare, potesse corrispondere un inaridirsi
della ricerca storica. Non è affatto vero che gli storici più anziani
conservano tutti la loro preziosa competenza e la misura del giudizio, i più
giovani, rappresentati soprattutto da professoresse di notevole valore, sanno
aprire la ricerca a spazi nuovi con domande eticamente elevate e con ricerche
puntigliose. La televisione apre loro lo spazio di una rubrica storia
quotidiana (“Rai Storia”) al cui appuntamento non manco mai con una aspettativa
fiduciosa. Proprio per questo la serata dedicata alla figura di Mario Scelba,
ministro degli Interni nel governo De Gasperi dopo la fine della collaborazione
con PSI e PCI, e poi oltre, pur nei limiti televisivi, non mi è parsa
esauriente. Il titolo della trasmissione era “Il ministro della Celere” e i
protagonisti parlando di Scelba lasciavano scorrere una certa leggerissima
ironia che andava oltre il messaggio centrale il quale diceva che il ministro,
dopo le venture del nostro paese del ’43-’45, voleva restaurare l’autorità
dello stato. Fino dai Greci sappiamo che c’è stato e stato, ma il problema è
come “restaurare”. Ed era qui che la riflessione meritava un approfondimento
che avrebbe portato qualche luce politica sull’Italia di allora. Nessuno può
negare che in quel periodo non furono poche le manifestazioni pubbliche della
sinistra e dei sindacati, talora turbolente ma mai eversive. Un politico di
governo non poteva ignorare che il partito comunista aveva fatto una scelta
costituzionale definitiva che veniva, non poco opportunisticamente,
rappresentata dal rapporto Gramsci-Bordiga. Inoltre non vi era alcuna
possibilità che la sinistra potesse alterare il rapporto di alleanze dello
stato italiano.
Un conto è il dire e
l’agitarsi e un altro quello che si può fare. In questa situazione
l’interpretazione che il ministro diede all’autorità dello stato fu quella del
dominio della piazza e della persecuzione possibile e anche violenta di ogni
iniziativa delle opposizioni. In quella trasmissione è stato detto che Scelba
cacciò dalla polizia gli ex partigiani come non affidabili ai suoi scopi. Ma
quanti furono i fascisti o filo-fascisti che integrò nei ruoli? È
incancellabile l’impressione che egli avesse una personale insofferenza nei
confronti del movimento operaio e una totale contrarietà a quel clima politico
che Nenni chiamò “vento del Nord”. La sua politica aggressiva e violenta fu
certamente usata dalla DC per tenere alto il livello di scontro con la
sinistra. E anche questo andrebbe osservato, ma il ministro vi aggiungeva la
sua avversione propria di un notabile siciliano di bassa cultura. Il contrario
del letterario principe di Salina ne Il
gattopardo. Ci vorrebbe
l’informazione di uno storico di professione per ricordare tutte le violenze
che caratterizzarono il suo ministero che andavano al di là della garanzia
dell’ordine pubblico. Qui ricorderò solo gli episodi di cui ho una informazione
diretta: le ho viste anch’io le camionette della polizia a forte velocità
contro i dimostranti, scena che è stata mostrata alla tivù; una disposizione
che è un capitolo del suo stile complessivo. Non credo vada dimenticato
l’atteggiamento assunto nel ’47 a Milano con l’allontanamento del prefetto
Troilo, valoroso comandante partigiano. Ci fu certamente l’occupazione della
prefettura e per qualche giorno in qualche zona un clima vagamente insurrezionale. Scelba diede ordine al comandante
militare della piazza di Milano di riportare l’ordine.
Per fortuna e
intelligenza il comandante militare non eseguì l’ordine che avrebbe anche
potuto provocare una catastrofe. In fondo bastava che il ministro frenasse il
furore per l’esistenza politica di “altri” e copiasse Giolitti al tempo ben più
difficile dell’occupazione delle fabbriche. Certamente venne dal ministro degli
Interni la decisione di sottoporre gli schedati militanti di sinistra e simili
a un supplemento di indagini nella concessione del passaporto. Io stesso
dovetti subire un interrogatorio - del resto più che benevolo - da parte dei
carabinieri di un ufficio speciale nel Palazzo di Giustizia. Il passaporto
escludeva il passaggio in Austria paese confinante con i paesi satelliti
sovietici. A me il passaporto serviva per andare a Parigi, la Parigi di Sartre,
Merleau Ponty, Camus, Simone de Beauvoir , ecc. Una cultura che il ministro
chiamava “culturame” con il disprezzo tipico del “risentito” nei confronti di
un livello di intelligenza che gli era precluso. Quale distanza da un generale patriota e
conservatore come De Gaule che sapeva a memoria passi di Racine e aveva un
rispetto pieno nei confronti di scrittori e filosofi che gli erano contrari, e
non poco!
E poi, capolavoro anti-democratico, la decisione (non so con
quale apparato giuridico) di eguagliare la polizia all’esercito che,
ovviamente, merita tutto il rispetto. Capitava così che una qualsiasi critica
all’apparato della polizia da parte di giornalisti, era equiparata a una offesa
all’esercito nazionale. La conseguenza era questa: il tribunale civile di
fronte al “reato” si dichiarava incompetente e passava gli atti al tribunale
militare. Ho assistito io stesso a questa scena. Finirò con due ricordi
personali. Il 25 aprile del 48 andai in Piazzale Loreto, nel luogo dove
nell’agosto del ’44 furono fucilati gli antifascisti prelevati da San Vittore,
per celebrare la ricorrenza della Liberazione. La piazza era piena di gente del
tutto pacifica. Improvvisamente la piazza venne circondata da autocarri
dell’Arma dei carabinieri e altrettanto improvvisamente i militari scesero
dagli automezzi e caricarono la folla usando i moschetti a rovescio come
manganelli. Ci furono non pochi feriti. Lo stile era quello del ministro degli
Interni, anche se l’ordine poteva provenire da un allievo locale (con nostalgie
dello stato autoritario).
Ricorderò poi una manifestazione in Piazza del Duomo
attaccato dalla Celere che caricò sui suoi autocarri per portare i
“prigionieri” in questura, forse solo per schedature e ammonizioni. Tuttavia
circolava la convinzione che potessero essere anche picchiati da funzionari
particolarmente zelanti. Nel tragitto un mio caro amico si mangiò la tessera
del partito per rendere più difficile l’eventuale punizione. La cosa può far
sorridere, ma questo era il clima instaurato dal ministro degli Interni. Di
Scelba non ce ne importa niente, il clima sociale, politico e culturale (la
polizia si presentava alla Casa della Cultura quasi dopo qualsiasi
manifestazione) non va dimenticato. Appartiene alla nostra storia, né più né
meno come l’operato di governi che hanno dissestato il bilancio dello stato. I
silenzi o le approssimazioni non vanno bene. Se si fa così si segue l’onda
prevalente dei tempi e si sbaglia, anche in buona fede quando si dimentica il
granello di sabbia della critica.