di Eugenio Borgna
Eugenio Borgna |
La mia vita si è venuta
svolgendo in due città, l’una non lontana dall’altra, Borgomanero, ventimila
abitanti, a non grande distanza dal Lago Maggiore e dal Lago d’Orta, e Novara, centomila
abitanti, a trenta chilometri di distanza, immersa nella pianura. Le due città:
a Borgomanero, le scuole superiori, il liceo classico, la casa dal grande
giardino che ha piante secolari, abeti, tigli, ciliegi, castagni, e dal quale è
possibile intravedere il Monte Rosa, che ne fa da sfondo. A Novara, il
manicomio ancora più che non la città rimasta nello sfondo della mia vita.
La
nostalgia della casa e della città, in cui sono nato, mi ha accompagnato, come
una stella del mattino, nelle belle giornate, e in quelle infelici. Non è
possibile distinguere e separare la nostalgia della casa e della città da
quella della infanzia e della adolescenza. In una piccola città, come Borgomanero, ci si conosceva tutti, e le
giornate scorrevano l’una dopo l’altra, l’una intrecciata alle altre, in una
corrente osmotica che dalla casa passava alle strade della città, ai giardini e
al fiume che silenzioso l’attraversa, alle scuole che ho frequentato, e che,
rivedendole, oggi ancora risplendono di silenzio e di luce. Non si ha idea
della lentezza del tempo, dello scorrere del tempo interiore, in una piccola
città mai industrializzata, e scandita dalle parole che, ogni giorno, le
persone si scambiano sulla soglia delle case e dei negozi. Cosa che non
avviene, e non può avvenire, in una città che senza essere una grande città,
come quella di Novara, ha nondimeno scansioni di vita più complesse, e più
aggrovigliate, e nella quale non è possibile essere in continua relazione gli
uni con gli altri.
Veduta di Borgomanero |
Completato
il liceo a Borgomanero, ho frequentato la facoltà di medicina alla Università
di Milano, che non ho potuto nondimeno rivivere come una città familiare;
benché nella Clinica delle malattie nervose e mentali della Università, dove
sono stato otto anni fino al conseguimento della libera docenza, mi sia trovato
in un contesto di comune impegno clinico e scientifico mai sfiorato da
qualsiasi conflittualità. Una città troppo grande, Milano, che non potevo non
rivivere come estranea sia per le sue dimensioni e per i suoi tumultuosi modi
di vivere sia per le alternanze delle mie presenze e delle mie assenze.
Sì,
Borgomanero è stata la città (radicata nella mia memoria e nel mio cuore),
nella quale, come dicevo, il tempo, non quello dell’orologio, ma quello
interiore, scorreva lentamente, consentendomi di leggere e di studiare senza
ansie, e senza inquietudini. È stata la città, alla quale, anche quando ne ero
lontano, non potevo non pensare come sorgente di gentilezza e di delicatezza,
di reciprocità dialogica e di invito ad immergermi nel suo paesaggio: non
lontano da quello del Lago d’Orta, e dell’Isola di san Giulio, acquattata e
silenziosa nelle sue acque, e indimenticabile nella sua bellezza.
Borgomanero. La Colleggiata di san Bartolomeo |
Sono
immagini, e sono emozioni, che non mi hanno mai abbandonato nemmeno quando la
mia vita si è spostata a Novara, la città nella quale ho incominciato a
lavorare in un manicomio, costruito nel cuore della città, e non, come quasi tutti
i manicomi italiani, in lontane periferie; e del quale divenivo poi direttore.
La
psichiatria ha cambiato la mia vita, è stata il mio destino, senza nondimeno
spegnere la mia dipendenza ideale da Borgomanero, dalla casa del grande
solitario giardino, ideale e magica anticipazione dello sconfinato silenzioso
parco nel quale era immerso il manicomio con le sue sofferenze e le sue
angosce, con le sue attese e le sue speranze, con le sue ombre e le sue
effimere luci.
Nella
mia vita, Novara si è così identificata nell’ospedale in cui vivevo in una
solitudine non lontana da quella di Hans Castorp nella Montagna incantata di Thomas Mann, e in una vicinanza e in una
nostalgica solidarietà umana con le pazienti (il mio era un manicomio solo
femminile), che talora non uscivano dal manicomio da molti anni, e che per noi,
psichiatri, sorelle religiose e infermiere, erano amiche, anziane e non ancora
anziane, considerate come persone, non diverse da noi, se non nel dolore, e
nella sofferenza.
(Cosa
è mai la psichiatria, diceva Manfred Bleuler, uno dei grandi psichiatri del
secolo scorso, se non cercare di dare una mano ad una persona che sta
naufragando nell’angoscia e nella disperazione?)
Novara. La basilica di san Gaudenzio |
La
città di Novara mi è sempre stata in qualche modo estranea, nonostante i grandi
valori culturali che la contrassegnano, perché lavorare in manicomio
significava isolarsi dal mondo, e
partecipare fino in fondo al destino delle persone fragili e insicure,
ansiose e desiderose di ascolto, divorate da una infinita nostalgia di solidarietà
e di umana accoglienza, che nel manicomio vivevano. Sono esperienze di vita
dotate di senso, che continuano ad essere negate alle persone, che soffrano di
disturbi psichici, e questo anche se in Italia non ci siano più i manicomi che
sono stati quasi sempre, non in quello di Novara, non-luoghi di separazione e
di esclusione. Della gentilezza umana e della sensibilità delle pazienti con
problemi psichici sono testimonianza le esperienze di dolore e di angoscia che
riemergevano dalle cartelle cliniche del manicomio, alle quali mi sono
richiamato in alcuni dei miei libri, che senza di esse non sarebbero mai stati
scritti.
Novara. Ex Ospedale Psichiatrico |
La
mia città ideale è stata allora Borgomanero, nella sua solitudine e nella sua
riservatezza, nella sua ritrosia e nella sua timidezza, nel suo silenzio e
nelle passeggiate che è possibile fare sulle colline e nei boschi che la
circondano, e nei parchi di alcune splendide ville aperte al pubblico.
La
mia vita non è stata nondimeno solo contrassegnata dal vivere in città, come Milano,
Novara e Borgomanero, ma anche dal vivere nella mia adolescenza, e per alcuni
mesi, in un piccolo sperduto paese dalle dolorose risonanze emozionali, mai
scomparse dalla mia vita, e radicate nella mia memoria vissuta che è altra cosa
dalla memoria cronologica, dalla memoria dei nomi e dei numeri, come ha scritto
sant’Agostino nelle sue celeberrime Confessioni.
Borgomanero. Palazzo Tornielli |
Così,
alle due città, a Borgomanero, la piccola città dal grande giardino, e a
Novara, la grande città dal grande manicomio, si aggiungeva nel mio cammino
ideale di vita, nel passare da una città all’altra, questo paesino quasi
invisibile, nel quale siamo stati ospiti di una casa sconosciuta, ma
accogliente, e nel quale mi è stato possibile conoscere aspetti della vita che
non avrei mai immaginato possibili.
Mi
auguro di non essermi troppo allontanato dal tema, che ci è stato proposto da
Angelo Gaccione, direttore di Odissea, di questa bellissima rivista dai larghi
orizzonti culturali, letterari e filosofici, etici e psicologici, al quale non
posso non essere molto grato di avermi invitato a riflettere e a scrivere sulle
città, grandi, e non grandi, o sui piccolissimi paesi, in cui si è snodata la
mia vita.
Si
tende oggi a vivere nel presente, in quello che sta avvenendo nel qui e ora
dell’istante, sfuggendo ad ogni riflessione sul passato, sulla storia, sulla
memoria, questo archivio senza fine dei ricordi, e anche sul futuro,
sull’avvenire, sulle nostre attese e su quelle degli altri. L’invito, che
Angelo Gaccione ci ha rivolto, si orientava (così mi è sembrato di
interpretare) a una meta: a quella di guardare alla nostra interiorità, alle
luci e alle ombre, che ci hanno accompagnato nei luoghi, in cui siamo vissuti.
Vorrei
concludere queste mie rapsodiche considerazioni dicendo che ciascuno di noi è
chiamato a vivere in città, grandi, o non grandi, ma può anche avere un senso
in vita l’avere abitato in piccoli paesi
che, in qualche brevissima stagione della nostra vita, ci hanno aiutato a
ripensare al mistero del dolore e della speranza in cui siamo immersi; e talora
una piccola città, o un piccolo sconosciuto paese di poche case, può essere la fonte di inattese e luminose esperienze
interiori.