di Roberto Pazzi
Lo scrittore Roberto Pazzi |
Da quando ero ragazzo nutro un sogno
segreto. Abbandonare casa mia e dormire per una notte intera a Ferrara in un
albergo del centro, come se mi trovassi in questa mia città solo di passaggio. Vorrei
sentire la romba lontana del traffico con lo stesso sentimento che provavo a
San Paulo do Brasil o a Valencia. O a Reikiavik e a Oslo. O a Mosca e a Vienna.
Un modo per rivoltare il guanto o forse rovesciare il cannocchiale e sorprendermi
a captare quello che non è possibile: l’odore che portiamo addosso, che solo
gli altri possono percepire. Vorrei insomma farmi almeno per una notte “altro”.
Un poco simile a quegli amici visitatori di passaggio che spesso ho
accompagnato in giro per la città, ad ammirarla. L’abitudine, si sa, addolcisce
anche le pareti di una prigione, simili a quelle di gabbie da cui certi
uccelli, una volta aperto lo sportello, non vogliono più uscire. Ma mentre ci
narcotizzano tanto da farci sembrare che la felicità - come diceva Proust- consista
nel loro ripetersi, le abitudini ottundono ogni giorno i nostri sensi. Noi non
vediamo più le cose, non sentiamo più gli odori, dove si consuma la nostra
esistenza. Perché siamo usurati e diventati a poco a poco, anno per anno, quelle
cose e quegli odori. Se lo siamo diventati, non possiamo più saperlo. E così io
non so più che cosa sia Ferrara, più di quanto sappia che cosa sia la mia vita
intera. Per questo sono riluttante a scriverne, perché è inspiegabile il
rapporto di usura e di amore che ci lega alla vita, qualcosa che “lingua
mortale non dice”. C’è un passo di Luciano di Samosata nei “Dialoghi dei morti” che scolpisce questo
indicibile, quando richiesto nel regno delle ombre a un morto quanto gli manchi
la luce risponde che gliene basterebbe un barlume…
Ferrara
è la mia amata prigione, dalla quale ho sempre sognato di andarmene, ma
guardandomi bene dall’ uscire dal sogno. Consapevole che è assai meglio sognare
la vita che avrebbe potuto essere, che andare a verificare che questa vita
ideale non esiste da nessuna parte della terra. Credo sia la cocente delusione,
questa, provata da Leopardi nel suo uscire da Recanati per la prima volta, nel
1822, andando a soggiornare dagli zii materni Antici Mattei, a Roma. Qualcosa
del genere aveva capito, rimanendo tutta la vita ad Alessandria d’Egitto, Costantino
Kavafis, nella poesia “La città”: (…) “la
città ti verrà dietro. Andrai vagando/ per le stesse strade. Invecchierai nello
stesso quartiere. / Imbiancherai in queste stesse case. Sempre/ farai capo a
questa città. Altrove, non sperare, / non c’è nave non c’è strada per te”.
In
una mia poesia di “Felicità di perdersi”
ho alluso a questo stesso sentimento kavafisiano della mia città, sintetizzato
nell’ultimo verso:
La morsa dell’inverno
stringe i corpi ad amarsi,
affatica i passi,
inganna gli anni vecchi,
in vista d’uno nuovo
li convince a risposarsi.
Sognavo da ragazzo
le vie d’una città
dove sentire solo
gli orologi battere il tempo,
vere stanze d’una casa.
Oggi è tutta mia
questa città del silenzio,
alta, sui banchi di neve alle finestre,
Ferrara è la mia camera da letto.
(“Ferrara
alta”)
Ferrara. Una veduta del centro |
Questa
“città del silenzio”… Ecco subito evocato il fantasma di D’Annunzio con la sua
poesia sulla “deserta bellezza di Ferrara” che si legge nelle “Laudi”. La mia città è fin troppo
coccolata e amata dall’Arte e dalla Letteratura, impreziosita ma anche
imbalsamata com’è da tante altissime testimonianze di artisti e scrittori che
vi hanno vissuto o vivendoci per qualche tempo ne hanno colto l’aura
metafisica. L’elenco sarebbe lungo. Comincia con i pittori di Palazzo Schifanoia,
la scuola del Tura, il Cossa, De’ Roberti, poi continua con i Dossi, fino ad
arrivare alla scuola metafisica novecentesca di De Chirico, Savinio, Carrà e alla
pittura di De Pisis che pure ne fuggì giovanissimo. E prosegue in parallelo con
i poeti, narratori e uomini di penna, con Matteo Maria Boiardo, Lodovico
Ariosto, Torquato Tasso, Daniello Bartoli, Gabriele D’Annunzio, Corrado Govoni,
Riccardo Bacchelli, Lanfranco Caretti, Giorgio Bassani, Gianfranco Rossi. E che
dire dei registi, con figli come Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini e
Massimo Sani? Una simile fortunata nominanza rende difficile sopravvivere con
agio fra le sue mura a chi in qualche modo erediti il “mestiere” di quei sommi.
Perché forse Rovigo e Padova, ma anche Bologna, Modena e Reggio, per nominare solo
le più vicine città, possono vantarne una altrettanta alta?
Ferrara vista dall'alto |
La
verità è che vivendo a Ferrara ti aleggia sul collo un perenne confronto
perdente, quasi il senso di colpa di non essere perfetto come loro, i grandi
morti che hanno illustrato con la parola o il pennello la città estense. E non
cito a caso l’aggettivo “estense”, perché anche il nome della casata che fu
Signora della città per più di trecento anni ha un potere meduseo, che la blocca
a rimirarsi come Narciso nello specchio del passato. Tutto qui è estense, il panpepato,
la squadra di calcio, il premio di giornalismo, il budino, le biciclette, le
marche di svariati prodotti che non paiono credibili e seri se non portano quel
magico nome. E così si insinua nella psiche dei miei concittadini un altro confronto
perdente, quello con il periodo aureo della loro storia, la dominazione degli
Este. Quando Ferrara fu capitale di stato, e che stato! Una delle corti che
irradiavano della loro luce di mecenatismo tutto il Bel Paese e anche l’Europa
rinascimentale, se una principessa della casa reale francese, Renata di Valois,
sposò uno dei suoi duchi, Ercole II. Bologna non fu mai capitale di stato. E si
sente in quella pur bella città, priva com’è di quell’unicum che è il complesso
urbanistico monumentale di Ferrara. Qualcosa di questa diversità rifulge infatti
ancora nello splendore monumentale della Addizione Erculea, quella del primo
piano regolatore d’Europa secondo Bruno Zevi, voluta dal duca Ercole I e realizzata
da Biagio Rossetti.
Il Castello estense riflesso nell'acqua |
Nella planimetria di quel reticolo di vie così ortogonali
calcolata con sottili rinvii esoterici dall’astrologo Pellegrino Prisciani, dotto
segretario del duca Ercole I, ancora scorre il nostro traffico dopo Cinquecento
anni. Aveva ragione Borges quando in una sua mirabile poesia, “Ariosto e gli
Arabi”, scriveva che Lodovico Ariosto, “andava
per le strade di Ferrara/ e al tempo
stesso andava per la luna”… Perché la cifra più tipica di Ferrara è la sua
sospensione nel Tempo, che qui sembra non scorrere più e fermarsi. Quasi in
armonia con le stelle e i pianeti come la luna, quei corpi che sono eterni e
pur misurano coi loro movimenti il divenire delle forme viventi che eterne non
sono: “ma tu mortal non sei,/e forse del mio dir poco ti cale”,
scriveva Leopardi della luna, nel “Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia”.
Uno scorcio delle mura |
Una
volta, qualche anno fa, ho scritto un racconto fantastico per una rivista che
veniva pubblicata dalla Cassa di Risparmio, dove lavorava mio padre, oggi
assorbita da altra banca, nel quale ho immaginato fra cento anni Ferrara come
una nuova Venezia, invasa dalle acque, con le mura rossettiane del 1492 lambite
dal mare Adriatico. Non inventavo però nulla che non poggiasse su solidi fondamenti.
Tiravo solo le conclusioni di alcune inquietanti ricerche scientifiche sul
mutamento del clima che vedrà entro cento anni varie parti della terra invase dalle
acque dei mari. La nostra pianura del Po diverrà un golfo e Ferrara sarà con
ogni probabilità percorsa da vaporetti per la stazione, se i treni vi passeranno
ancora. Cosa messa già in forse nel mio romanzo “La città volante” che Dario Fo e Sebastiano Vassalli presentarono
al premio Strega nel 1999. Probabilmente nel mio racconto fantastico mettevo in
vena il sogno segreto di vivere in un altrove che solo dormendo una notte in
albergo invece che a casa mia, in Contrada della rosa, mi pare possa
alimentarsi. Volevo ascoltare cioè l’urlo delle sirene delle navi, non più i
clacson delle automobili, arrivare alle mie orecchie mentre stavo
addormentandomi. A dilatarmi così le pareti della mia amata prigione elevando
Ferrara agli spazi di una città marinara, affacciata a quella metafora
dell’infinito che è sempre il mare. Sazia di quell’altra a cui era arresa da tanti
secoli, la grande pianura. Comincerà allora un’altra storia per Ferrara, che
evocherà forse un altro poeta a riempire quel vasto spazio che è il mare, così
come aveva riempito delle sue favole sulla Cavalleria, il gran vuoto della
pianura il sommo Ariosto.
Uno scorcio di Ferrara di notte |