di Fulvio Papi
Sergio Mattarella |
Lettera aperta del
filosofo Fulvio Papi a Mattarella
Caro Presidente,
con tutto il rispetto che le devo, e anche la mia
ammirazione personale per la sua vita, ora le rivolgo una osservazione che,
esagerando, potrebbe essere simile a una critica. Lei, tutti gli anni in un
clima eticamente elevato ed esteticamente prezioso, nomina i nuovi cavalieri
del lavoro con una sua sicurezza di giudizio. Io non ne conosco nemmeno uno,
quindi non ho alcun titolo per avanzare giudizi specifici, e, ragionevolmente,
mi astengo dal rovesciare, con un gesto dialettico elementare, il lavoro nel
profitto. Del resto ricordo molto bene che economisti di valore, in quello che
furono i paesi satelliti dell’URSS, avevano considerato il profitto come una
misura dell’efficienza di un organismo produttivo. E vengo a quel che mi preme.
Mi piacerebbe che lei, signor Presidente, una mattina presto, incognito,
potesse vedere a Milano Lambrate o a
Milano Garibaldi quando arriva una grande massa di lavoratori, ragazze,
studenti, molti operai e non pochi anziani, dopo un viaggio più che disagevole
su treni del tutto inadeguati, attesi alla propria stazione un tempo indefinito
poiché sempre con incredibili ritardi, tra folate di vento freddo in inverno e colpi di calore nelle
nostre inclementi estati. Sono certo che lei come me (si parva licet...) è
convinto che sono questi lavoratori, impegnati dalle 6 del mattino alle 20 di
sera, a tenere in piedi questo Paese non facile, per di più funestato da
pericolose e incombenti sciocchezze. Io mi permetto di consigliarle: quel “cavallierato”
lo riservi a qualche anziano operaio di quella folla che ha consumato la sua
vita in questa fatica quotidiana che ha consentito un livello di civiltà che
tutti desiderano. È solo un suggerimento al mio Presidente da parte di un
vecchio professore di filosofia che ha la presunzione, questa volta, di dire la
verità.