UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 21 settembre 2025

LA POESIA DI GACCIONE
di Tiziano Rossi



Una gioiosa fatica - 1964 - 2022
                                       
Che sia anzitutto un impulso morale a motivare i versi di questa raccolta è cosa ben avvertibile, e Gaccione punta dritto su rigore e onestà. Tra le varie possibili declinazioni di quell’impulso primario ecco l’indignazione e l’incitamento, il giudizio pacato e la frustata polemica, la confessione inerme, la caricatura e la gelida constatazione. Eppure il discorso poetico si muove, in queste pagine, anche verso altre destinazioni, tant’è vero che si articola in più parti, felicemente specificate mediante participi o aggettivi al femminile, quasi che il poeta (non diciamo l’autore in carne ed ossa) volesse ricomporre paternamente una corona di figlie (o, fraternamente, una cerchia di sorelle) dai caratteri ben distinti: Le ritrovate, Le appassionate, Le straniere ecc.
Comunque sia, l’io lirico qui non si nasconde, anzi si espone con nettezza, confrontandosi con i tanti volti del mondo vissuto: ne emerge così - nello stesso tempo - un autoritratto. Di tale rilevanza del soggetto abbiamo conferma anche sul piano grammaticale: “voglio che la morte mi trovi pulito”, “proprio io / che non amo i re”, “Guida il tuo veliero verso di me”, “Aspetto che Milano si svegli”, “me ne sto come un fiore selvaggio”, “brindo alla mia desolata vita”, “Mi imporrò di essere allegro” e così via.


La copertina del libro
 
Un altro approccio possibile? Nella poesia di Gaccione convivono - si direbbe - due prospettive: da un lato il ripiegamento introspettivo (che include anche l’adesione a certe fuggevoli bellezze quotidiane), dall’altro l’impegno civile, ossia il têtê-à-têtê con l’inquieta e angosciata condizione collettiva. Esempi più circostanziati di questa fruttuosa divaricazione? I testi che vanno sotto il titolo Le straniere si affidano a una sorta di impressionismo, fotografando (con le dovute sfumature ai margini) luoghi ed episodi che il protagonista ferma per un attimo e che paiono poi guizzar via, come ingoiati dal tempo; ne Le arrabbiate, invece, la voce si fa esortazione risentita e tambureggiante, a sottolineare un disagio non transitorio; e ne Le ultime, egualmente engagées, fa spicco un falsetto parodistico, poiché chi parla pronuncia (su zingari o immigrati) parole che l’io - solo in apparenza celato - ovviamente non condivide nel senso profondo: “Dormono in una tale promiscuità […]”, “Non si lavano per giorni”.
Tuttavia a uno stadio intermedio, cioè a un’intonazione insieme più trattenuta e pacificata, si ascrivono le poesie etichettate come Le milanesi, dove la “grigia e impura” città - Milano appunto - si impone, pur nella sua sgradevolezza, come polo di affetto (“madre, madre grassa di pianura”) sino a farsi involucro che conforta i viventi (“il tempo scorre quieto / su mamme, bimbi e magnolie”).


 

La scrittura di Gaccione non intende poi rinchiudersi in gabbie formali, i suoi versi possono contrarsi in un solo vocabolo (magari esclamativo come un “tacete!”, ma si veda anche l’intera poesia Labor mortis) oppure protrarsi in ampi moduli prosastici (“L’amore tornerà a bussare alla porta del vostro cuore / se siete in grado di sentirlo; se aprirete e lo lascerete entrare senza domande”). Mi chiedo se non sia, anche questo, un modo adeguato per fare i conti con la realtà multiforme e in continuo movimento: un segno in più a dimostrazione che questo libro di poesie riesce a esprimere, anche con opportuni mutamenti di respiro, il nostro oscillare, sbandare e raddrizzarsi dentro il presente che ci tocca, arduo ma ineludibile.



Angelo Gaccione
Una gioiosa fatica - 1964 – 2022  

La Scuola di Pitagora Editrice, 2025
Pagine 160 euro 16

Il libro è uscito nella Collana Fendinebbia
Laboratorio di poesia civile diretto da Giuseppe Langella.
Contiene una Ouverture di Franco Loi
Una Introduzione di Tiziano Rossi
Una Post-fazione di Fulvio Papi 
 

Si può acquistarlo direttamente in libreria
Richiederlo alla Casa Editrice
La Scuola di Pitagora Editrice
Via Monte di Dio n. 14
80132 Napoli
Tel. 081 7646814 - fax al numero 081 7646814
o inviando una mail all’indirizzo
info@lascuoladipitagora.it
scuoladipitagora@pec.it
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POETI
Mahmūd Darwīsh


 
Vincitore dell’importante premio Etisalat nel 2018, nell’ambito della letteratura araba per l’infanzia, nella categoria “best illustrations”, Mahmūd Darwīsh, il cantore della causa palestinese, contemporaneo della poetessa Fadwa Tūqan, da lui stesso definita madre nazionale della poesia palestinese, ci consegna, con la sua opera “Pensa agli altri” (فكر بغيرك), un testo poetico di intensa musicalità, incorporata nelle parole arabe stesse, attinte dalla sfera quotidiana e naturale, in un gioco ritmico armonico di allitterazioni, anafore e costrutti paratattici ossimorici, di grande semplicità, genuinità e universalità, ma di complessa equivalenza traduttiva dal punto di vista della melodia caratteristica intrinseca della lingua araba: si pensi alle parole allitteranti con cui si chiude ogni distico: الحمام (la colomba); السلام (la pace);  الغمام (la nuvola); الخيام (la tenda); للمنام (il sogno); الكلام (la parola); الظلام ( il buio). Nel suo monito ed invito a “pensare agli altri”, martoriati dalle guerre, Mahmūd Darwīsh, non solo ci ricorda lo stile altrettanto semplice del Promemoria di Gianni Rodari, ma ribadisce l’importanza della parola poetica araba, così come leggiamo nel testo poetico del 2002 “Stato d’assedio” (حالة الحصار), composto a Ramallah durante una delle tante illegali occupazioni dell’esercito israeliano: “questo assedio si prolungherà fino a quando non avremo insegnato ai nostri nemici passi della nostra antica poesia”: un assedio sì fisico ma soprattutto mentale, di cui sono intrappolati persino gli stessi responsabili delle guerre, sino al completo oblio del significato universale di essere un bambino. [Anna Rutigliano]



Pensa agli altri
“Quando prepari la tua colazione pensa agli altri,
non dimenticare il cibo per le colombe,
E allo stesso modo, quando combatti la tua guerra,
pensa agli altri,
non dimenticarti di chi è in cerca di pace,
e quando paghi la tua bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
allattati dalle nuvole.
E quando torni a casa, a casa tua, pensa agli altri,
non dimenticarti delle persone nelle tende.
E quando dormi e conti le stelle, pensa agli altri,
a chi non ha spazio per sognare,
e quando ti liberi in metafore, pensa agli altri,
a chi non ha diritto di parola,
e quando pensi agli altri, lontani da te, pensa a te stesso:
di’ a te stesso: se solo fossi una candela nel buio.
[Trad. Anna Rutigliano]

 

TRA LE PAGINE
di Francesca Mezzadri


Wanda Marasco
 
Di spalle al mondo
 
Con Di spalle a questo mondo, Wanda Marasco consegna al lettore un’opera che va ben oltre la narrazione storica: è un attraversamento poetico e filosofico dell’umano, un romanzo che interroga la coscienza più che raccontare un’epoca. Ambientato nella Napoli ottocentesca, segnata da tensioni sociali, guerre e trasformazioni scientifiche, il libro prende le mosse dalla figura reale di Ferdinando Palasciano - medico, patriota, precursore dell’idea di neutralità nella cura dei feriti - per costruire un’opera che fonde documentazione e visionarietà, ricerca archivistica e tensione lirica. Marasco non si limita a restituire vita a un personaggio storico dimenticato: lo trasfigura, lo sottrae alla retorica celebrativa e ne fa un emblema inquieto della responsabilità etica. Palasciano è un medico, sì, ma anche un uomo costantemente esposto all’abisso che tenta di contenere. La sua figura oscilla tra scienza e compassione, tra ragione e disordine, tra il mondo esterno e una ferita interiore mai del tutto rimarginata. La scrittura, densa e ipnotica, accompagna questa ambivalenza. Come già nei precedenti lavori di Marasco, in particolare ne La compagnia delle anime finte, finalista allo Strega nel 2017, il linguaggio si fa protagonista: non semplice veicolo, ma materia viva che plasma la realtà. Il romanzo non si legge, si attraversa - come una febbre, come un sogno che confonde i confini della veglia. È una lingua che disorienta e al tempo stesso richiama, costruita su frasi spiraliformi, lente, talvolta interrotte, dove ogni parola sembra scelta per peso più che per funzione.
 
Storia e visione: un romanzo verticale
In un panorama narrativo spesso segnato da un minimalismo psicologico o da una cronaca del presente che tende a sbiadire il contesto, Di spalle a questo mondo si distingue per una verticalità che affonda nella materia viva dell’esistenza. Non è solo la storia di un medico, né solo quella di una città. È il tentativo di restituire alla letteratura la sua funzione originaria: fare i conti con l’enigma della sofferenza, restituire voce a chi non ne ha, portare alla luce ciò che il tempo tende a seppellire. Il titolo stesso è una dichiarazione poetica e politica: essere “di spalle al mondo” non significa fuggire, ma rifiutare le logiche dominanti. È una posizione etica, quella di chi si volta verso ciò che viene escluso: la follia, il dolore, l’abbandono. Palasciano non si conforma, ma si espone. E in questa esposizione senza protezione, Marasco individua la traccia più autentica dell’umano.
 
Follia come verità: l’abisso che cura
Uno dei temi portanti del romanzo è la follia, trattata non come devianza clinica, ma come modalità alternativa del conoscere. La malattia mentale non è qui una patologia da correggere, ma uno spazio da abitare, una lente che deforma e, proprio per questo, rivela. Marasco sembra accogliere, in filigrana, l’eredità di pensatori come Foucault o Artaud: l’idea che nella follia si nasconda una verità non accessibile alla ragione cartesiana. Palasciano, pur da medico, non è immune da questo contagio. La sua mente, attraversata dal dolore altrui, rischia a tratti di perdere l’orientamento. Ma proprio questo rischio lo rende più umano, più vero.
C’è una tensione costante nel romanzo tra razionalità e delirio, tra medicina e poesia, tra diagnosi e ascolto. In questo senso, Marasco mette in discussione anche i limiti della scienza, o meglio, ne reclama un uso etico, capace di farsi carico non solo del corpo, ma della totalità dell’essere. Curare, nel mondo di Palasciano, non è un’azione neutra, ma un atto di responsabilità radicale, che non conosce confini di appartenenza, ideologia o identità.



Amore e alterità: Olga come enigma e specchio
A specchiare e al tempo stesso disorientare Palasciano è la figura di Olga Pavlova Vavilov: nobildonna immaginaria, dall’identità sfuggente, la cui presenza nel romanzo assume una funzione archetipica. È l’altro irriducibile, la voce che non si lascia tradurre, il corpo che porta in sé una differenza inassimilabile. La loro relazione è segnata da distanza, incomprensione, silenzio – eppure, in questa incomunicabilità si genera una forma di amore non possessivo, non simbiotico, ma etico. Amare, per Marasco, non significa necessariamente capire. Significa restare. Essere accanto all’altro anche quando non parla la nostra lingua, anche quando il suo dolore ci è estraneo. È una visione dell’amore che risuona con il pensiero di Emmanuel Lévinas: una responsabilità infinita, non contrattuale, non calcolata. E forse è proprio in questo legame spezzato, in questa tensione mai pacificata, che si misura la profondità del romanzo.
 
Napoli: luogo dell’anima, città-soglia
La Napoli che emerge da queste pagine è lontana da ogni folklore. È una città sospesa tra corpo e spirito, tra le voci dei vivi e quelle dei morti, attraversata da febbre, spettri, silenzi. Una città dell’anima più che della geografia. Come già in La compagnia delle anime finte, Marasco costruisce uno spazio narrativo che è anche spazio interiore: i vicoli, gli ospedali, le case nobiliari sono scenari visionari, luoghi in cui la materia si sfalda e lascia affiorare il simbolico. Questa Napoli non è mai sfondo, ma personaggio. È essa stessa corpo malato, memoria ferita, eco di un passato che non si lascia seppellire. E nel corpo della città si riflette quello di Palasciano: anch’esso percorso da linee di frattura, da ombre, da tracce di un dolore non archiviabile.
 
La letteratura come atto di cura
Il vero cuore del romanzo, però, è forse proprio questo: l’idea che narrare possa essere una forma di cura. Non solo per chi legge, ma per chi scrive, e per chi è narrato. Marasco costruisce un romanzo che non consola ma accompagna; che non semplifica ma accoglie la complessità; che non elude il dolore ma lo ascolta. E in questo gesto narrativo risiede un atto profondamente politico, nel senso più alto: dare parola all’escluso, visibilità all’invisibile, forma a ciò che la storia tende a dimenticare. Anche per questo, la scrittura stessa si fa atto di resistenza. In un’epoca dominata dalla velocità, dall’intrattenimento facile, dalla spettacolarizzazione del dolore, Marasco sceglie l’opposto: una lingua difficile, lenta, musicale. Una prosa che chiede attenzione, che non si lascia divorare, ma obbliga a rallentare, a restare. E in questo “restare” si consuma, forse, l’unica forma possibile di fedeltà al reale.
 
Conclusione: una voce necessaria
Con Di spalle a questo mondo, Wanda Marasco conferma la sua voce come una delle più intense, coraggiose e necessarie della narrativa italiana contemporanea. Il suo romanzo non vuole piacere, ma scuotere. Non cerca la bellezza levigata, ma la verità che ferisce e guarisce insieme. In un momento storico in cui la narrativa spesso smarrisce la propria funzione di coscienza, Di spalle a questo mondo ricorda che scrivere può ancora essere un atto etico. E che la letteratura, quando è autentica, si volta non verso il potere, ma verso chi resta indietro.

INCONTRI
di Maurizio Minchella



Conversazione con Roberto Longoni
 
Il sorriso da ragazzo (degli anni ’80) fa il paio con lo sguardo limpido, scanzonato e al tempo stesso disarcionato dalla realtà, come quello di uno dei protagonisti del suo romanzo. A incontrare per la prima volta Roberto Longoni, si ha l’impressione di ritrovare un vecchio amico. Eppure. Eppure, a tratti gli affiora un’ombra negli occhi, quasi una traccia del malditerra di cui scrive, e così ci si ritrova a chiedersi dove si debba andare a rincorrerlo. Malditerra (Arca Edizioni, 368 pagg., 19 euro) è il romanzo d’esordio di Longoni, cronista di lungo corso della “Gazzetta di Parma”, oltre che collaboratore di “Panorama Travel” e autore di racconti e della biografia “Con le spalle al muro. Una vita tra terra e cielo” (Berti editrice).
 
Che cos’è il malditerra?
 
“In senso tecnico è il mal di mare senza mare. Può prenderti quando sbarchi da una lunga navigazione: ti sei abituato al rollio sulle onde e all’improvviso ti ritrovi instabile sul suolo immobile. Quello di cui parlo io nel romanzo è soprattutto un senso di inadeguatezza al mondo degli altri”.
 
È il disagio di cui soffre Quello della barca?
 
“Già. Lui si è lasciato alle spalle la terraferma - con i suoi agi e le sue regole - per vivere su una barca a vela, con lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte e la mente intenta a sognare. A riva è impacciato, in alto mare è come se volasse, come l’albatro di Baudelaire”.
 
La sua è una scrittura quasi classica, quali sono i suoi punti di riferimento?
 
“Sento molto vicini gli scrittori americani: da Hemingway a Salter. La lettura de Il grande Gatsby di Fitzgerald mi folgorò da ragazzo. E così Viaggio al termine della notte di Céline. Amo la scrittura asciutta e lirica al tempo stesso”.
 
Come definirebbe Malditerra?
 
“Stento a farlo, perché alla trama principale se ne affiancano altre, sovrapponendo suggestioni. È un romanzo generazionale, innanzitutto, che ha per protagonisti i ventenni degli anni ’80, come me”.
 
La generazione che l’oste filosofo Pinin-Brunello definisce inutile?
 
“I giudizi dei vecchi sono sempre piuttosto severi nei confronti di chi segue. A ‘inutile’ andrebbero affiancati altri aggettivi, innanzitutto ‘fortunata’. In ogni caso, fu la prima generazione a non voler cambiare il mondo, a non avere voglia di lottare. Fu allora che al pronome ‘noi’ cominciò a sostituirsi l’‘io’. Rispetto alle generazioni precedenti aveva obiettivi ben più realizzabili: per primo, quello di godersela. Anche se poi si è sempre bravi a complicarsi l’esistenza”.
 
Forse non voleva cambiare il mondo perché quello sembrava il migliore possibile…
 
“Non so se ce ne fosse la piena consapevolezza. Soprattutto da giovani si fatica a mettere subito a fuoco la propria felicità: che gli anni 80 e 90 siano stati i più felici dell’ultimo periodo lo abbiamo stabilito in seguito, facendo dei confronti. E ora tutti vorrebbero essere stati ventenni negli anni 80. In realtà, chi come me da bambino si era confrontato con gli anni di piombo voleva respirare, andare oltre tutta quella violenza. C’era quasi l’obbligo di divertirsi, e - può sembrare assurdo - anche questo finì per generare ansia. E spinte autodistruttive”.
 
A livello collettivo si voleva anche andare oltre l’angoscia della guerra nucleare...
 
“Un rischio allora più remoto di quanto non sia oggi. Molti videro il crollo del Muro di Berlino come l’apertura delle porte del paradiso. Di certo fu più facile pensarlo per chi varcava la frontiera da est… Si parlò anche della fine della Storia. Come se l’uomo potesse smettere di dare il peggio di sé”.

 
Per questo in Malditerra il passato fa sentire forte la propria presenza? Il sogno è collegato a una spedizione organizzata nel Medioevo...
 
“Forse è così. Quella dei fratelli Vivaldi, scomparsi nel nulla dopo essere partiti con due navi da Genova per raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa, è una storia che mi ha affascinato fin da bambino. Ancora oggi mi chiedo che fine abbiano fatto”.
 
Inghiottiti da una tempesta?
 
“O forse anche no”.
 
Quanto c’è di autobiografico nel romanzo?

“L’ansia autodistruttiva di cui ho appena detto l’ho vista anch’io da vicino. Ho visto intossicarsi un mondo e ho perso amici e conoscenti. Anche gli amori descritti nella storia sono in parte ricordi di qualcosa che ho vissuto”.
 
Come è cambiato il valore dell’amicizia da allora?
 
“Allora si usava il termine con molta più parsimonia. Oggi, per avere migliaia di amici basta poter contare su profili social molto attivi. Siamo alle algoamicizie. Ma la vera condivisione è un’altra. I rapporti profondi esistono ancora, anche se distratti dall’assediante rumore di fondo dei social. Anche l’amore ne risente: è sempre più difficile vivere momenti di vera intimità”.
 
Malditerra è anche, forse soprattutto, un romanzo d’amore. I personaggi femminili sono rappresentati con sfaccettature molto diverse. Quale di questi vorrebbe al suo fianco?
 
“Più che al mio fianco, sono un po’ tutti dentro di me, anche se alcuni vengono dalla vita reale. Mi piace molto Nicole, con tutte le sue cicatrici e la sua trasformazione”.
 
Esiste davvero?
 
“Per certi versi, un po’ sono io”.

    

   

   

CINEMA
di Marco Sbrana



Amour di Michael Haneke – La cura e la casa
 
Film del 2012, Palma d’Oro a Cannes, Amour di Michael Haneke si apre - ed è un dettaglio vitale all’economia del testo - con l’irruzione in casa dei vigili del fuoco. Trovano sprangata la porta, trovano le finestre aperte, trovano il cadavere di un’anziana. Ricoperto di fiori.
Segue poi il film. Interno. Macchina da presa in campo largo. Il frontale del pubblico di un teatro. Come a dire - metatestualmente: Questa sarà una tragedia. Amour crea infatti un codice di segni sussurrati. Si tratta di un film minimalista, che sottrae, continua a sottrarre, anche laddove un cineasta inesperto - quale non è affatto Haneke - avrebbe esagerato virando verso il melò. In Amour il segno è delicatezza.
È la storia di una coppia anziana - Georges e Anne - che si trova a far fronte alla malattia degenerativa di Anne. Che ha il primo cedimento quando si imbambola, seduta a colazione, e che non ricorda - cessato il momento di panico - di essersi imbambolata.



Tutte le inquadrature di Amour sono in interno. Mura soffocanti, stranianti. La macchina da presa è fissa, ne scaturiscono lunghi piani sequenza che donano alla forma del film l’attributo della compostezza, oltre che essere riflettori puntati sui due giganti, due corpi attoriali smunti dalla vecchiaia, claudicanti e affaticati, quali Trintignant e Riva. La regia risulta imperiosa, perché rigida, e originale nella scelta dei punti di macchina. Punti macchina che riescono, anche nei momenti di maggiore intensità emotiva, a non risultare didascalici. Haneke colloca sempre la cinepresa in punti inaspettati, spesso inquadrando di tre quarti i volti, senza mai dare in pasto al pubblico la volgarità - perché nel suo caso di volgarità si tratterebbe - di un primo piano. E certo avrebbe potuto farne uso, con un attore come Trintignant, ma Haneke sceglie sempre di far partecipare attivamente il pubblico alla tragedia rappresentata, di lasciare allo spettatore spazio per l’intuizione. E sul piano della regia e sul piano della sceneggiatura, che è criptica nella sua delicatezza, onirica nel suo minimalismo.
“Promettimi che non mi porterai mai più in ospedale”. E Georges promette. È la condanna, questa: perché se Anne non finirà in ospedale, toccherà al marito prendersi cura di lei. In bagno rimetterle le mutande, aiutarla nella motilità degli arti anchilosati, imboccarla, darle da bere. E l’amore diventa cura, la cura diventa assistenza. Un’improvvisata assistenza, si intende: quella di un marito che non può accettare la reclusione del suo amore, e che sceglierà la fine per entrambi piuttosto che la cesura e la solitudine. Anne sa che può solo peggiorare nonostante i commoventi sforzi di Georges, e decide di non volersi più accanire contro il corpo che cede.



La casa è il terzo protagonista del film. Tutti vi entrano, e l’esterno non viene mai mostrato. Tutto si consuma nell’unità di luogo, e nell’abitazione riecheggia il dolore della coppia, negli arabeschi della tappezzeria, nella claustrofobia delle mura via via più strette. Via via ma con lentezza, una lentezza che restituisce l’avanzare dell’inesorabile.
Amour è un film sul corpo. E, tornando alla questione della delicatezza segnica, la figlia di Georges e Anne è proprio sul corpo che si concentra: l’amore dei suoi genitori, dice, era garantito dagli amplessi sessuali che le capitava di origliare. Tale era il sigillo dell’amore. L’anima, così sembra dire Haneke, è incastrata nel corpo, non c’è scissione.
L’unico momento in cui si esce dalla casa - prigione e ricordo, luogo della tragedia e degli ultimi atti d’amore - è il sogno di Georges, durante il quale, però, non si riversa che sul pianerottolo (di nuovo in interna, dunque, lavora Haneke), che nel sogno è allagato.
Tra infiniti silenzi che preludono alla fine annunciata dal flashforward di apertura, gli sforzi fisici, il letto bagnato di urina, l’afasia e il delirio di una mente, quella di Anne, che crolla e non (si) riconosce più, in una desolante e chiusa epopea del declino che non si concede neppure un flashback, neppure un racconto di eventi condivisi in passato dalla coppia. La vita intera si riduce al suo triste compiersi. Non c’è spazio per la rassicurazione del passato o per backstory che portino colore: il grigiore delle vite che finiscono è restituito da Haneke con purezza, e quanto serve allo spettatore per credere all’amore tra Georges e Anne, uno dei pochi punti del contratto, del patto autore-lettore, è dato dall’ostinazione della cura.



Cura che Anne inizia a rifiutare, come quando sputa l’acqua che Georges le porge da un bicchiere con cannuccia.
E Trintignant resta composto malgrado lo schiaffo che dà a sua moglie. Nessuno slancio melodrammatico. Perché il personaggio, incaricato di sovrintendere, non può permettersi di trasecolare. Non fa mai la vittima, non fa mai l’eroe; con rigidità adempie un mandato e rende tale mandato l’assoluto della sua vita. Fino all’atto di estrema pietà: l’omicidio di Anne per soffocamento tramite un cuscino.
Dopo l’atto, Georges sembra voler mummificare Anne restituendole bellezza, adornandola di fiori, infilandole un bel vestito, una maschera che smentisca la decadenza di cui finora è e siamo stati testimoni.
Poi Georges immagina di uscire di casa. Finale ad anello. Anne è rinsavita: cammina, parla, è bella. Stacco: la figlia spaesata nella casa vuota. Titoli di coda.
Si chiude con l’immaginata fuga il film che è anche un trattato di ontologia delle case che ci abitano e che abitiamo, che promanano l’odore delle nostre vite. La casa, ora, è spoglia e la figlia di Georges e Anne è spaesata, perché attende un padre che non tornerà, e quindi la carica semantica della casa è momentaneamente neutra. Non è importante scoprire se Georges si sia suicidato o meno, né decifrare la scena in cui cattura il piccione entrato in casa dal cortile, dal momento che si sa, grazie al registro linguistico di codici sussurrati, che Georges non farà (perché non può, e come potrebbe?) ritorno.
Molto probabile che la lettera che scrive nel finale sia una lettera d’addio; probabile e, a mio avviso, irrilevante, com’è Amour un film che va al nocciolo duro, che non chiede la decodifica totale, ma solo la ricezione delle informazioni primarie per comprendere gli sviluppi.
Proprio per come Haneke ha inquadrato la casa lungo tutto il film, sappiamo che Georges non tornerà. Nella casa solo si entra; se si esce è (forse) per sempre.

sabato 20 settembre 2025

SCIOPERO: CONFLITTO E NON PROTESTA
di Franco Astengo


 
Il punto è quello della prospettiva dello sciopero generale
 
Dobbiamo sentirci orgogliosi dell’iniziativa di sciopero e manifestazione indetta dalla CGIL ieri, venerdì 19 settembre, sul tema della tragedia di Gaza.
Egualmente sarà necessario dichiararci orgogliosi dell’analogo appuntamento che i sindacati di base hanno costruito per lunedì 22 settembre: nella diversità “storica” delle matrici sindacali, delle modalità e degli obiettivi si dimostra comunque il permanere di una grande sensibilità del mondo del lavoro intorno alle ragioni della pace, della giustizia sociale, dell'internazionalismo. Sensibilità va sottolineata con grande forza auspicando come già in oltre occasioni nella storia si realizzi anche una sovrapposizione di presenza e partecipazione nelle diverse manifestazioni. Il quadro complessivo della situazione internazionale ci fa presagire (con facilità) che saranno necessarie ancora più intense manifestazioni di lotta fino ad arrivare ad uno sciopero generale unitario per la pace (non sviluppiamo in questa sede analogie con il 1914 che pure sono state richiamate).



Il tema della pace e del rifiuto della sopraffazione dei popoli deve essere l'elemento agente di uno sciopero generale (senza cedere ad alcuna tentazione soreliana) deve essere richiamato come forte espressione di lotta che si collochi al centro di una situazione dalla quale stanno già generando elementi non secondari di conflittualità. Nella sostanza ci troviamo in una situazione nella quale oltre al crescere di una tensione militarista, alla sostanziale indifferenza al genocidio del popolo palestinese. al trattamento dei migranti si registrano aumenti delle diseguaglianze e delle difficoltà economico-sociali per larghi strati della popolazione e di consolidamento di un regime che punta a distruggere la rappresentanza politica d’opposizione riducendo drasticamente gli spazi di esercizio democratico.
Lo sciopero generale assumerebbe anche un valore rispetto alla pressante tendenza di ulteriore limitazione della possibilità di esercizio di questo strumento democratico di dimostrazione di dissenso e protesta.
L'attuale governo non si è posto semplicemente sulla scia di provvedimenti limitativi del diritto di sciopero che possiamo far risalire all’ormai lontano 1990 (legge 146/90) e successivamente a diversi altri provvedimenti dal chiaro impianto repressivo: l’attuale governo ha esercitato una compressione tecnologica del diritto di sciopero e del conflitto sociale e politico in generale: il baricentro si è spostato su delibere, ordinanze, carte bollate più che su tavoli e mediazioni traducendo la controversia sociale in un tema d’ordine pubblico (avendo quale esempio il modello democristiano degli anni ’50: quello di Modena, Melissa, Montescaglioso, Reggio Emilia) e di comunicazione.
Uno sciopero generale unitario sul tema della pace e del rifiuto della sopraffazione dei popoli servirebbe prima di tutto a far emergere una potenziale qualità di nuove fratture sociali sulle quali può innestarsi una dinamica virtuosa di conflitto che se collegata a un’adeguata iniziativa politica potrebbe produrre una crescita significativa dei livelli di conflittualità sociale e non di semplice protesta.

 

INNAMORARSI DELLE PAROLE
di Angelo Gaccione


 
P
rovo un’avversione smisurata per i ladri, li disprezzo fin nelle pieghe di ogni mia più riposta fibra. Trovo intollerabile, allo stesso modo del più spregevole dei delitti, che qualcuno possa infilare la mano nella tasca di un’altra persona. Non parliamone se si tratta di un furto ai danni di un soggetto debole, indifeso, anziano, malato; in questo caso la mia indignazione sale alle stelle. Non è affatto vero che i ladri siano poveri: sono attrezzati, furbi, scafati, maligni. Ladri del bene pubblico ce ne sono in abbondanza: in genere sono alti funzionari e svolgono mansioni di prestigio, sono già ricchi e rubano per ingordigia, per una perversa pulsione verso l’accumulo. Colletti bianchi li chiamano; sarebbe meglio definirli pendagli da forca. Più di costoro, che pure rappresentano un danno serio per la collettività tutta, il mio disprezzo si appunta maggiormente su coloro che rubano negli ospedali ai danni dei degenti. Su quanti forzano dei semplici armadietti per portar via le misere cose che custodiscono. Su chi si introduce nelle case, le mette a soqquadro, ne violenta l’intimità più privata e, non contento di impossessarsi della refurtiva, pratica persino degli sfregi. Ad un musicista, non paghi di aver rubato quanto desideravano, hanno metodicamente ridotto a brandelli centinaia di spartiti musicali che gli erano costati decenni e decenni di fatica e di creazione. Non riesco ad essere solidale, come fanno diverse persone che conosco, neppure con i ladri che svaligiano case di lusso e ville, sebbene sia consapevole che moltissima di quella ricchezza sia stata a sua volta accumulata con il ladrocinio e lo sfruttamento. “Dietro ogni grande fortuna c’è il delitto”, ha scritto Balzac. Ma so anche che le bande che hanno messo a segno il colpo sono costituite da elementi tutt’altro che poveri, e che usano la refurtiva per lo scialo con la stessa logica disgustosa di quanti l’hanno accumulata. “Ciò che non vi perdoneranno mai è che non volete essere né ladri né sognatori”, è una frase di Bakunin, si trova nel libro Nero su bianco che contiene massime, aforismi e pensieri di vari autori da me raccolti nel corso degli anni. È stato pubblicato nel Duemila. Sognatori mi sta bene, ma ladri no: il teorico russo non deve averla meditata abbastanza questa frase. Spesso avviene che chi scrive si innamora delle parole e del loro suono, e si fa abbagliare. Capita anche a uomini di pensiero intelligenti come Bakunin.   

 

UVA AMARA
di Zaccaria Gallo
 


“Odissea” ringrazia l’amico e collaboratore Zaccaria Gallo che non ha voluto far mancare il suo articolo per il nostro giornale nonostante il momento precario per la sua salute.
 
() ricordino in ogni / goccia d’oro / o coppa di topazio / o cucchiaio di porpora / che l’autunno lavorò / fino a riempire di vino le anfore, / e impari l’uomo oscuro, / nel cerimoniale del suo lavoro, / a ricordare la terra e i suoi doveri, / a diffondere il cantico del frutto. Così Pablo Neruda, nella sua ‘Ode al vino’, raccomanda all’uomo di non dimenticare mai tutto quello che la terra, in autunno, se aiutata con passione, amore e lavoro è in grado di donare. È il tempo in cui la natura dipinge le vigne: cento colori, dal giallo oro al rosa trasparente, dal rosso rubino fino al nero; succosi frutti, nascosti tra i pampini, o pendenti in grappoli enormi, quasi trattenuti a fatica sotto gli ultimi frammenti di sole non più estivo, presagi dell’inebriante profumo di vendemmia. E mani, mani abili di donne che sotto i filari dei tendoni, disgiungono i grappoli dalla loro “madre”. E ci soccorrono ancora i versi di Neruda in ‘Era l’autunno dell’uva’: “Era l’autunno dell’uva. / Tremava la pergola numerosa. / I grappoli bianchi, velati, / coprivano di rugiada le sue dolci dita, / e le nere uve riempivano / le loro piccole mammelle traboccanti / di un segreto fiume rotondo”. 



Maria ci parla. “Io faccio soltanto l’uva, fin da bambina. Quanto guadagno? Pochi euro al giorno. Non è ancora l’alba: sono le tre e già sul marciapiede sono vicine a me le altre, tutte donne siamo. Braccianti. E ci sono i caporali. Aspettiamo di salire sulle ‘navette’, i pulmini che ci porteranno alle vigne. Alle volte anche trecento km ogni giorno. Tornerò la sera, tardi. Sette, otto, qualche volta dieci ore al giorno. Mi devo stare zitta, non mi devo lamentare, se no non mi prendono più. Sono testimone da anni di come si sfruttano i braccianti. Quando raccogliamo l’uva e usiamo gli sgabelli, non ti devi muovere, devi stare là. Raccogli e metti nelle cassette. Non posso tirare neanche un respiro e quando finisco mi resta questo dolore alle dita, che non me le sento quasi più e alla schiena. A casa mi aspettano i miei due bambini. Sono andati a scuola e mi vengono a prendere quando arrivo in piazza”. E anche Antonella aggiunge: “Non possiamo dire niente, altrimenti si diffonde la voce che ci siamo lamentate e poi dal giorno dopo nessuno ti accoglie al lavoro. Muoviti! Muoviti! Muoviti! Mi gridano nelle orecchie mentre lavoro. Le mani si addormentano. E per molto poco ho rischiato di non poter lavorare più. Dovevo andare in bagno un giorno e mi ero alzata. Il sorvegliante, come mi ha vista in piedi, si è messo ad urlare, come ti permetti di muoverti senza il mio consenso e io ho detto che avevo forte esigenza, si tratta di pochi minuti e lui ti faccio licenziare se ti muovi ancora senza il mio permesso, e non posso dire come ho fatto. E non ti puoi sentire neanche male perché qualche volta puoi anche perdere la vita. Il 13 luglio 2015 Paola Clemente è uscita di casa, come accadeva da anni, che il sole non era ancora sorto. È andata a prendere il pulmino che, da San Giorgio Ionico, doveva portare lei e le altre, ai vigneti di Andria, per la scrematura e la diraspatura dell’uva. Paola aveva imparato a non lamentarsi, perché era l’unico lavoro che aveva. Ma quella mattina verso le nove, ha iniziato a stare male, molto male. Chiamato il caporale, questi l’aveva fatta sedere, ma non aveva dato peso più di tanto alle sue parole. Dopo una ventina di minuti Paola perdeva conoscenza. Non si sarebbe ripresa più! Trasportata in ambulanza, ormai priva di vita, veniva deposta nell’obitorio dell’ospedale. Da giorni la fatica aveva progressivamente chiuso le sue coronarie. Paola non doveva lamentarsi: avrebbe perduto il lavoro della bellissima uva della vigna di Andria. Sì, l’uva che oggi io accarezzo con lo sguardo, e con le dita ogni acino, meravigliandomi sempre della bellezza e della perfezione che la natura ci offre durante la nostra esistenza. Dolce uva! Meraviglioso vino di Puglia! Amaro frutto di dolore e sopraffazione, di violazione di semplici diritti umani, di violenze fisiche e psichiche. Voglio concludere con le parole contenute nel Deuteronomio (24: 14-22): “Non defrauderai il salariato povero bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli, o uno dei forestieri, che stanno nel tuo paese, nelle tue città. Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole…”. 

SCIOPERO GENERALE
Appuntamento in Piazzale Cadorna a Milano.




 

A BUSTO ARSIZIO PER GAZA




venerdì 19 settembre 2025

ERRORE FATALE



Questo video toglie molte illusioni a quanti credono che Trump sia diverso dagli altri presidenti guerrafondai democratici che lo hanno preceduto. Mostra inequivocabilmente come l’interesse degli Stati Uniti siano sempre gli stessi: dominare gli alleati per difendere la loro economia, servirsi della Nato come forza di pressione e di ricatto guerrafondaio. Prima gli europei ne prenderanno atto è meglio è. [Cliccare sul link azzurro per aprire]

https://youtu.be/VtsOQ5tsps8?si=4QIRTC2d-t7eSXHE

ANCORA SU SPLENGER
di Luigi Mazzella


 
Il tramonto dell’Occidente
 
Il libro di Oswald Spengler, Il Tramonto dell’Occidente, non è un saggio volto a individuare rimedi salvifici per scongiurare la “morte annunciata” nel titolo. Tutt’altro. L’Autore si limita a compiere un’analisi comparativa di tutte le grandi civiltà del Pianeta per desumere, analogamente a quanto avviene per l’organismo umano, quattro fasi di età: infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia.  La fine è ritenuta, in buona sostanza, del tutto ineluttabile.
Spengler, da storico, valuta positivamente, nella sua opera, la civiltà “greco-romana”, definendola “apollinea, in quanto volta staticamente al presente; qualifica invece “faustiana” quella “occidentale” perché irrequieta nella sua ansia di trasformazione. Influenzati soprattutto dalla sua intuizione circa la tendenza degli Occidentali di mantenere in vita, nella fase finale della decadenza, modelli culturali già morti, i numerosi uomini di pensiero, colpiti dalla sua analisi (Erich Rothacker, Ernst Cassirer, Ludwig Wittgenstein, Thomas Mann - alla stesura del Doktor Faustus ma non dopo - Sinclair Lewis, Howard Phillips Lovecraft, Martin Heidegger, Evelyn Waugh, William S. Burroughs, Jack Kerouac, Northrop Frye, Joseph Campbell, Samuel Huntington) non hanno contrapposto  spunti di riflessione volti ad alimentare  “speranze”. Personalmente, muovendomi nella direzione indicata dal filosofo tedesco, ho individuato in cinque utopie, tre religiose e due politiche, la causa della inevitabile debácle Occidentale chiedendomi anche, però, se l’attuale processo di decadenza sia, veramente, inarrestabile. La risposta è che non risulta facile essere ottimisti. Per quanto “faustiano” e “anti-apollineo” sia il bisogno esasperato di trasformazione degli inquieti Occidentali debellare, infatti, ex abrupto tre religioni divenute, nel mondo, straricche e ultrapotenti non è impresa di poco conto ed è pressoché impossibile prevedere un esito favorevole all’impresa. Altrettanto deve dirsi dei due “cancri, a mio giudizio, ugualmente letali” (nazifascismo e social comunismo) che hanno invaso l’Occidente, approfittando della favorevole circostanza di un pensiero già aduso ai condizionamenti di un fideismo fantasioso, spesso anche fanatico. 
Il traguardo di un Capo illuminato (Duce o Fuhrer) che conduca ad approdi di benessere collettivo o quello di un popolo, assetato di giustizia, che realizzi, con la rivoluzione proletaria o con altri mezzi meno violenti, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani appare ormai irrinunciabile anche a persone che si definiscono di “buon senso” comune. L’inevitabilità del tramonto, per l’impossibilità di convincere l’intera popolazione Occidentale di rinunciare a credenze secolarmente consolidatesi, non significa, però, che il processo estintivo non possa essere ritardato. Sotto questo limitato  aspetto, l’invito a chiudere le guerre in atto e a mitigare i toni delle polemiche furibonde che s’incrociano tra i vari monoteismi Mediorientali (divenuti anche Occidentali) e le due ali (sinistra e destra) dell’idealismo tedesco post-platonico di fine Ottocento (socialcomunismo e nazifascismo) può risultare utile per salvare molte vite umane e per consentire di preservare un filo di speranza per una reviviscenza, sia pure parziale,  circoscritta, e limitata nel tempo dell’antica razionalità. Se è vero, infatti, che, un tempo, essa era un vanto della gente mediterranea è altrettanto certo che essa fu estromessa dai confini dell’Occidente, in modo radicale, da credenti e fanatici dominati da un odio chiamato eufemisticamente passione religiosa e/o politica.
  

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