CINEMA
di Marco Sbrana
Nel sogno dentro il sogno,
una storia di crescita. Alpha di Julia Ducournau. L’ultima volta che
Julia Ducournau ha presentato un film Cannes: Titane, le è stata
assegnata la Palma d’Oro. Torna quest’anno con un film che, a suo dire, serbava
da prima del trionfo.
Sabbia.
Vento. Vento rosso. E sembra marmo la superficie crepata su cui scorrono i
titoli di testa ma, quando la macchina da presa affonda, e affonda e affonda,
l’immagine prima è il buco su di un braccio. E il braccio, il braccio di un
eroinomane, è di buchi percorso. La mano di una bambina disegna segmenti che
uniscono i buchi: “Così è più bello,” dice la bambina. Si chiama Alpha, è la
protagonista, adesso ha cinque anni. E quando lo zio - Amin, si chiama - apre
la mano che rivela una coccinella, è di una bimba il meravigliarsi. Lo stacco è
netto. Siamo a una festa. Adolescenti. Droga e alcol. Ma quel che è peggio è un
ago sporco che segna una A sul braccio di Alpha, ora tredicenne. Questo
l’inizio di un film che non coccolerà mai lo spettatore. Lo assedierà di
domande. Ducournau crea un muro; sta a noi abbatterlo. Tale il rapporto tra
autrice e ricettore. Reciprocità: sicché fin dal desiderio della regista di non
spiegare mai (così come faceva Bunuel) si crea un cinema necessario, che è il
cinema politico, politico perché relazionale, politico perché interroga e non
fornisce risposta. Ma dà, Alpha dà tantissimo a chi accetta il patto.
Per capire quale sia il
patto, bisogna definire un minimo di trama.
Gira un virus - allegoria
dell’AIDS - che si trasmette come l’AIDS e che come l’AIDS crea terrore. L’ago
del tatuaggio era sporco. Il film racconta la storia di emarginata di Alpha, a
scuola ostracizzata, e dell’altrettanto emarginato Amin, zio di Alpha. Non si
creda di poter interpretare il film dopo una sola visione. Ma, alla seconda, si
ricavano indizi.
Alpha, terrorizzata, ascolta
la madre parlare con qualcuno che non vediamo e dirgli che non ce la fa
più: prima con lui, ora con la figlia. La madre - medico - è stanca, dice, di
lottare.
Così viene convocato Amin,
eroinomane invalidato dai tremori di una indotta astinenza per ripulirsi il
sangue.
Alpha è sovrabbondante di linee narrative. Questo
l’unico difetto. Titane era una linea retta; Alpha è un film
rizomatico. Barocco, forse. Sembra di sentire Ducournau e il suo desiderio (il
film ha molto di autobiografico) di essere totalizzante, di voler creare una
specie di romanzo-mondo à la Pynchon ma che si concentri sul conetto di trauma.
Amin, capiremo, non ha mai
raggiunto Alpha. È morto: il virus che trasforma la pelle dei malati in marmo
l’ha ucciso otto anni prima che Alpha tornasse a casa col tatuaggio. La morte
di Amin, smagrito, emaciato, tremante, ironico e sordido, viene mostrata e
risemantizza il testo prima delle ultime sequenze. Se Amin è morto, chi abbiamo
visto nella linea narrativa presente, quella del tatuaggio?
Non è domanda che sia
pertinente.
Ché il trauma ha una logica
indipendente, ché il trauma vive nella circolarità, nella reiterazione. Non si
deve pretendere, dice Ducournau, che il trauma combaci con le regole della
mente sana; i film che sovrappongono - sciatti - il trauma alle regole del
mondo sono disonesti. Pur di non disorientare, molti registi inscrivono il
trauma nella sfera della comprensibilità. Non Ducournau, che attraverso la
figura di Amin rende carne, incisione, ferita, ballo il trauma, il quale trauma
non perviene all’intelletto bensì arriva dove dovrebbe arrivare in ogni suo
racconto: allo stomaco. Ma il fatto che, nella scena con Beethoven (il pranzo
di famiglia), nessuno a parte la madre paia notare Amin può, alla seconda
visione, aggiungere qualcosa. Ma questo qualcosa non è necessario. Tutto il
necessario colpisce alla prima visione. È accessoria l’intellettualizzazione di
quanto vediamo nel film.

Julia Ducournau
Ducournau - come in Titane
- tratta la musica come personaggio agente, parlante. The Mercy Seat di
Nick Cave (splendida versione al piano) accompagna il ballo spasmodico (così
Breton: “La bellezza sarà convulsa o non sarà”) di Amin e Alpha, tra i malati
di marmo, tra le luci intermittenti di una discoteca di periferia. Scena
gemella del ballo su She’s Not There in Titane. Lunga canzone,
lunga sequenza. La macchina a mano che non si stacca dai volti, ma li segue e
ce li sbatte davanti, perché siamo davanti alla delicatezza del macellaio, non
a quella dell’architetto, siamo la carne, siamo il marcio che ci scorre nelle
vene, siamo fluido corporeo. E scorriamo. Vediamo lo scorrere delle cose come
in Fellini, l’impermanenza, vediamo Eraclito. Ma non è un fiume cristallino;
qui c’è sangue (come la superba scena in piscina), qui c’è mucillagine, i pesci
affogano.
Così, tra un tentativo (Alpha
tredicenne) di capire se sia o meno malata, tra una scena e l’altra (Alpha a
cinque anni) di Amin che muore di eroina e del virus il cui rimedio ha trovato
proprio nell’overdose, il fluire della vita e di un film che oscilla, appunto,
tra l’ineluttabile proseguire, incessante andare del tempo, e la fissità del
trauma.
Il professore di Alpha recita
una poesia: un sogno dentro un sogno, dice l’uomo in riva al mare, in pena per
una “spietata onda” che ha mietuto (dice il professore) “almeno una vittima”.
