ECONOMIA E INDUSTRIA
di Franco Astengo
Riportiamo dall'inserto economia del "Corriere della
Sera" (22 settembre 2025), la parte iniziale di un articolo che illustra
la classifica delle prime 500 aziende a livello globale secondo l'analisi di
Kpmg sui fatturati:
"Prendiamo
l'Italia. Le uniche cinque imprese nella classifica dei 500 big mondiali
esprimono due settori, energia e servizi finanziari e vengono dopo centinaia di
altre aziende d'altra geografia".
Constatato che le due
aziende energetiche rappresentano derivati delle antiche nazionalizzazioni
facciamo un salto all'indietro di 25 anni: all'epoca le presenze italiane nelle
prime 500 posizioni erano 10 e fra queste 4 rappresentanti di settori
industriali strategici (Fiat, Olivetti, Iri, Montedison: auto, elettronica,
siderurgia, chimica) e due nel campo energetico (sempre Enel ed Eni) mentre le
aziende di servizi finanziari si trovavano in ben altra posizione di classifica
(nel corso di questi 25 anni Generali è scesa dal 35° posto al 104°).
Nel frattempo il
fenomeno si è ripercosso a livello mondiale: il primato infatti è passato dalla
General Motor a Walmart (distribuzione) seguita da Amazon, State Grid
Corporation China (la più grande distributrice di elettricità nel mondo) e
Saudi Aramco (petrolio).
Le ragioni di questo
mutamento sono dovute sia al fattore finanziarizzazione dell'economia
(protagonista della grande crisi 2007-2008) sia al fattore
"energivoro" reso sempre più strategico nella transizione digitale
(non sviluppiamo qui, per ragioni di economia del discorso, la riflessione
sulle esigenze idriche che saranno moltiplicate dall'avanzata dell'IA).
L'Italia con l'UE si
trova ormai ai margini dell'economia globale: altro che "pranzo della
domenica" e "made in Italy", anche il "militare" dalle
tecnologie più sofisticate ormai è compreso all'interno di intese con Stati a
democrazia limitata come la Turchia (succede con evidenza nell'industria
militare ligure e a livello strategico nelle principali reti di relazione
stabilite da Leonardo).
In questi 25 anni
abbiamo vissuto la vera e propria tragedia della privatizzazione della
siderurgia, la completa sparizione degli altri settori dell’industria di base
ad alta concentrazione di mano d’opera dalla chimica all’elettromeccanica
all’elettronica. Appare ormai completo il depauperamento di una realtà che
era fatta di produzione, know-how, ricerca. Pensiamo soltanto alla proprietà
della rete digitale, con il passaggio alla KKR della maggioranza nella rete TIM
(KKR è un fondo di investimento USA).
È interamente vincolato dall'esportazione (e quindi oggetto la cui stabilità
deriva dalle impennate daziarie) il “secondo modello” della nostra produzione
industriale: quello geograficamente concentrato sulla dorsale adriatica e nel
Nord-Est, fatto di medie aziende, di prodotti manifatturieri finiti, di marchi
di grandissimo prestigio.
È la fine di un modello sul quale da più parti,
nella politica come nel sindacato, si era molto forzato fin dagli
anni’80: quello dei “distretti”, della specializzazione, dell’intensificazione
esasperata dello sfruttamento operaio, tragicamente beffato con
“chiusure” meramente speculative e “delocalizzazioni” (anche fatte alla
chetichella, di notte, trasferendo i macchinari in condizioni analoghe alla
fuga della Casa Reale a Brindisi dopo l’8 Settembre).
Da Natuzzi a Berloni a Ideal-Standard, a tantissimi altri, le nuove condizioni
di competitività internazionale e la complessità della crisi colpiscono il
lavoro operaio risparmiando soltanto la voglia di profitto dei soliti “padroni
del vapore”. L’attenzione su questi fatti è intenzionalmente resa minima,
del tutto insufficiente rispetto alla loro gravità: l'establishment al comando
della politica e dell'economia sembra proprio non avere la capacità di vedere
le grandi questioni nella loro interezza, nella loro prospettiva nazionale e
internazionale nel frattempo resa ancora più complessa dalla crescita dei
pericoli di guerra in un quadro complessivo di vera e propria tragedia ancora
sul piano umanitario
Premessa la necessità
di un quadro di riferimento a livello europeo potrebbe apparire velleitario
proporre una "Vertenza Industria" fondata su di un ruolo diverso
dello Stato attraverso una ripresa "forte" di capacità di coerente
programmazione prioritariamente rivolta alle infrastrutture, all'utilizzo delle
aree industriali, all'innovazione tecnologica, alla competitività di settori
strategici nei quali la mano pubblica svolga davvero una funzione di regia e di
propulsione produttiva?