RESISTERE PER VIVERE, VIVERE PER RESISTERE
di Zaccaria Gallo
Immagini,
parole, sensazioni, partecipazioni emotive; vista su macerie e gente che si
aggira sui resti delle proprie case, della propria città, che tende ciotole
perché possano essere riempite, in una lotta corpo a corpo con fame, sete e
pericoli incombenti di morte, e bambini, bambini, tanti bambini. E
interminabili file di esseri umani che vagano da nord a sud, da sud a nord, con
le ultime povere poche cose che sono loro rimaste, sulle spalle, sulle
biciclette su carri stracarichi. Come? Come ha potuto questa umanità, la gente
a Gaza sopravvivere e farlo ancora oggi? Vorrei cercare allora di decifrare il
modo di porsi nei confronti della vita, e dei suoi accadimenti, da parte di un
singolo individuo e poi di tutto un popolo, cui quel singolo individuo fa parte.
E vorrei partire da una parola: sumud, che a me pare la chiave che può
consentire appunto di capire come un intero popolo, e ogni singolo palestinese,
possa riuscire a vivere, e a sopravvivere, anche in situazioni infernali come
quelle che si sono verificate nella striscia di Gaza e che, ahimè, forse,
continueranno a verificarsi in Cisgiordania, nonostante gli accordi di pace
siglati il 13 di ottobre.
Per indagare sul
significato profondo della parola sumud, non voglio farlo da un punto di
vista politico e sociale, che pure hanno la loro importanza, ma approcciarmi ad
essa dal punto di vista psicologico. Il concetto di sumud riveste, a ben
guardare, anche un carattere universale, perché invita a meditare sulla sorte
dei dannati della terra, delle situazioni di patimento psichico di tutti gli
oppressi da eventi funesti, che possono andare da gravi accadimenti naturali
(terremoti, alluvioni, incendi e altro) fino ai conflitti armati che
coinvolgono gli inermi civili di un paese. Restando al tema principale, quello
che è avvenuto a Gaza, deve apparirci come un momento privilegiato per
consentirci anche di analizzare quanta violenza si sia perpetrata durante
l’occupazione dei territori palestinesi e anche per sottoporre a giudizio le
ipocrisie dei governi occidentali e le loro innumerevoli complicità che hanno
permesso che si dovesse annotare nei libri di Storia dell’umanità l’aver
consentito, negli anni del Duemila, un vero e proprio genocidio.
Il termine arabo sumud (صُمُود - traslitterata ṣumūd) è difficile da tradurre con una sola parola
in italiano. Il suo significato deriva dalla radice verbale samada (صَمَدَ - traslitterato ṣamada) che significa resistere, stare
saldi, tenere duro ma anche organizzare, accumulare, salvare. È espressione antichissima e
che si può manifestare in due atteggiamenti essenziali: quello statico e quello
di resistenza. La forma statica, si riferisce al concetto della protezione e
del mantenimento dei palestinesi sulla propria terra, come reazione alla
colonizzazione israeliana della striscia e della Cisgiordania e alla pulizia
etnica. La seconda forma di sumud è quella di resistenza, che comporta
un atteggiamento più energico dal momento che ricerca le modalità che consentano
di mettere in atto istituzioni alternative per resistere e indebolire l’occupazione
israeliana della Palestina.
L’ulivo (e non a caso,
è anche della nostra regione) è il simbolo per eccellenza del sumud e del
radicamento palestinese alla terra. Altra icona importante è rappresentata
dall’immagine di una madre, che in genere è una contadina incinta. Ma, sumud è soprattutto parola che ha il
doppio significato di resistenza e di resilienza, e questa oscillante
ambivalenza non è di poco conto. Parlo di oscillazione, perché le due nozioni
hanno significato ben diverso che le rende non sovrapponibili. Senza trascurare
il fatto che il termine di resilienza, nella letteratura, oltre che nel campo
psichico e psichiatrico e delle scienze sociali, da diversi anni ha finito
spesso per sovrapporsi e oscurare il concetto di resistenza. Il termine resilienza, di fatto, ha
un significato che non può essere travisato. Il resiliente è un soggetto che è
capace di risollevarsi sempre sulle sue gambe, di resistere alle condizioni di
sofferenza, di oppressione, di umiliazione, insomma un soggetto che ce la fa
comunque, che ce la fa sempre, che ce la farà malgrado tutto. Il resistente
invece è l’individuo che coltiva e si adopera per rispondere in una forma
attiva a tutto ciò che gli viene imposto e limita la sua libertà.
Ecco perché per il
popolo palestinese sumud ha un’importanza vitale: unisce, nel suo
termine, la resilienza alla resistenza. Se fosse solo resilienza, di fatto si
eliminerebbe la responsabilità di chi produce la sofferenza, contro cui dover
resistere, concentrando tutto soltanto nell’atteggiamento psichico e nelle
forze del’ soggetto che soffre. Non possiamo semplificare il significato di sumud
in tale maniera. Dobbiamo
serbare questo patrimonio di significati, non dobbiamo limitarlo, ridurlo,
perché il termine contiene il modo con cui un popolo sta lottando per difendere
la propria l’identità. Quando si parla di resilienza, la nostra attenzione si
polarizza sull’individuo, ma l’individuo è parte di una collettività e se,
giustamente, ogni singolo individuo rivendica la sua dignità, la collettività
alla quale appartiene, per parte sua, rivendica la stessa dignità e non
consente di essere addomesticata, ed esprime la volontà di resistere.
Resilienza e resistenza di ogni persona e della intera collettività, tutti per
sopravvivere in contesti di oppressione cronica quotidiana.
Ecco perché, allora,
la nozione di sumud deve essere vista sotto un profilo collettivo
storico-politico oltre come esperienza individuale. Quando noi pensiamo a un
bambino che soffre la fame, la sete, e che ha perso i propri genitori, nello
stesso tempo pensiamo a tutti i bambini orfani che sono immersi nella
sofferenza, al bambino che ha perduto i suoi arti e contemporaneamente a tutti
quelli che sono rimasti amputati dopo attentati o nel corso dei bombardamenti. Sumud
universalizza due concetti in uno, e non per restringerli, ma per indicare come
sopravvivere anche durante un genocidio. Nella letteratura contemporanea araba, sumud contiene anche
il significato di perseveranza. Nella striscia di Gaza, sotto assedio da anni,
letteralmente sumud significa e significherà risolutezza, tenacia,
perseveranza, appunto, che si nutre di pazienza dinamica, viva, vitale. Simbolo
nazionale di un valore ideologico e culturale, ma anche strategia essenziale
nella vita di tutti i giorni, un appiglio cui aggrapparsi, per provare a
vivere, nonostante tutto.
Nei momenti più
drammatici della loro storia, per i palestinesi, sumud ha sempre
significato restare e rimanere radicati nella propria terra, nel quartiere in
cui si è nati. Sumud è ricostruire la propria casa uguale o più bella di
prima, dopo ogni bombardamento israeliano, o anche piantare dieci volte
l'albero di ulivo nello stesso punto sul quale dieci volte vi è passato sopra
un carro armato per strapparlo. Una dottoressa gazawi anni fa disse alla
giornalista Amira Hass: “Siamo tornati a casa. Ero così felice di tornare nel
giardino e dalle nostre colombe. Non erano morte, anche se non si nutrivano da
quattro giorni. Come noi anche loro conoscono il significato di sumud”. E la
poetessa palestinese Raja Shehadeh, nel 1982, scriveva: “A volte, quando
cammino sulle colline, godendo inconsapevolmente del tocco della terra dura
sotto i miei piedi, il profumo del timo e delle colline e degli alberi intorno
a me, mi ritrovo a guardare un ulivo e, mentre lo guardo, si trasforma davanti
ai miei occhi in un simbolo dei samidin, della nostra lotta contro la perdita…”.