LAMPEDUSA E NON SOLO
di PAOLO MARIA DI
STEFANO
Chi ha detto che novembre
è
il mese dei morti?
E Ottobre, allora…?
In qualche modo, ottobre è stato il mese della morte. Non del
ricordo; della attualità. E non della morte naturale compimento della vita, ma
di quella innaturale fine violenta così simile all’assassinio, all’omicidio, alla
strage. Qualche centinaio di disperati morti in un mare per secoli fonte di
vita e di civiltà e nella ricerca rivelatasi vana di un mondo migliore. Donne e
bambini, in gran parte. Che è stato l’unico appiglio alla normalità: hanno
perso la vita, come sempre accade, i più deboli ed indifesi.
E subito Lampedusa e il suo
carico di morte hanno preso la via dell’oblio, anche soffocati dalla chiassosa
ricerca di rimedi possibili a questa ed alle altre stragi degli innocenti,
eventi ormai quotidiani e forse proprio per questo di rilevanza sempre più
scarsa.
E in quella ricerca, ha trovato
la morte ogni forma di creatività. Meglio: partendo da principi evidentemente ritenuti
ineludibili di egoismo, di proprietà, di difesa, la Politica e non solo
quella italiana – che dovrebbe farsi carico di questi eventi- ha creduto di
provvedere aumentando il numero e la qualità dei pattugliamenti diretti
certamente a raccogliere i naufraghi ed a salvarne la vita, ma anche a tentare
di scoraggiare quei viaggi della speranza insicuri quanti altri mai, per
effettuare i quali gli abitanti del continente che si affaccia sull’altra
sponda impegnano tutto ciò che hanno. Arricchendo sfruttatori indigeni e non
solo, i quali agiscono nella certezza che almeno per i prossimi anni gli
acquirenti di un posto in barca non mancheranno, addirittura con ogni
probabilità aumentando a dismisura. Che è l’unica certezza: i disperati che
tentano di raggiungere le coste dell’Europa sono e sempre più saranno un inarrestabile
flusso di persone disposte a tutto. Tanto, hanno da perdere solo la vita, cosa
che accadrebbe comunque se restassero in patria, là dove non esiste per loro
neppure quel barlume tremulo e vago di speranza che sembra intravedersi da
quell’altrove che solo per caso è da noi.
E “da noi” significa “in Europa”,
perché – sembra una certezza – nessuno o quasi vuol rimanere in Italia, dove
sembra si arrivi solo perché è la frontiera più vicina, e sbarcano privi di
ogni risorsa e di ogni documento, ricchi solo della disperazione nata e nutrita
e cresciuta nei Paesi di origine.
L’Italia almeno un sussulto lo ha
avuto, e da qualche parte dell’Europa pare siano giunti sparuti e timidi e
molto vaghi segni di consapevolezza e di solidarietà.
Non basta.
Come al solito, reazioni immediate, viscerali e in gran parte
retoriche. Non ha senso – io credo- aumentare
a dismisura il numero delle unità navali ed aeree (ed eventualmente di terra) destinate
a pattugliare il Mediterraneo, se non tutto, almeno quell’ormai famigerato
canale di Sicilia, trafficato come una strada provinciale quando l’autostrada è
chiusa. Le pattuglie non possono che prendere atto di ciò che accade e fare
l’impossibile per assicurare ai profughi almeno un approdo sicuro.
È già qualcosa, ma probabilmente
si tratta di un impegno di risorse se non inutile, in gran parte inefficace.
Forse si potrebbe fin da ora fare
di più e di meglio, anche alla luce di quell’onnipotente dio dei giorni nostri
che è il danaro che del sistema economico è caratteristica sovrana.
E sempre forse, conoscendo a
fondo quanto costa dare un’identità a chi, anche se raccolto in mare prima di
un qualsiasi probabile naufragio con annessa strage, non è in grado di provare
le proprie affermazioni, privo come è di documenti e neppure è in condizione di
provvedere a se stesso e alla sua (eventuale) famiglia che lo accompagna, dal
momento che le risorse di cui disponeva in patria sono state prosciugate dal
costo del viaggio, perché spendere le somme ingenti che le operazioni di
raccolta e di riconoscimento e di mantenimento richiedono, quando si potrebbe
pensare di
-
gestire navi sicure che, partendo dai porti dell’altra
sponda con destinazioni certe,
-
accolgano le persone dietro riconoscimento dell’identità
e degli eventuali altri requisiti posseduti.
-
portandole nei luoghi per quanto possibile più vicini
alla destinazione finale desiderata?
Ricordando che – sembra – ciascun
migrante impegna attorno ai tremila euro per il posto barca, il trasportarli
con navi decenti garantirebbe loro comunque almeno un minimo di risorse,
probabilmente sufficiente a garantire quel poco che li farà sopravvivere, e
questo anche se si chiedesse di pagare il passaggio, ovviamente (sempre secondo
me) con cifre puramente simboliche.
Io credo che l’Italia
risparmierebbe non poco.
Non solo: i punti di sbarco
sarebbero identificati a priori e la loro gestione potrebbe essere pianificata,
almeno in modo tale da evitare sovra affollamenti con tutto ciò che un livello
di vita inaccettabile comporta.
Compresi il danneggiamento e la
distruzione di edifici e suppellettili.
E compresa anche la riduzione di
quelle fughe le quali, in genere, provocano violazioni di ogni genere e
contribuiscono alla insicurezza degli abitanti i quali, a loro volta, portati
come sono a difendersi, certamente non contribuiscono ad un’accoglienza
pacifica e ad una pacifica integrazione.
Di più: si potrebbe immaginare di
infliggere ai trafficanti delle due sponde un colpo se non mortale, certo
importante.
È ovvio che non si tratti di cosa
semplice. Con ogni probabilità, un’iniziativa italiana in tal senso (dal
trasporto alla accoglienza al trasferimento) oltre ad essere concordata con i
Paesi di partenza, dovrebbe essere coordinata con le iniziative dei Paesi di
arrivo, anche per evitare l’aumento indiscriminato dei flussi verso l’Italia.
Ma per questo ci vorrebbe un’Europa,
oltre che un’Italia, dalla Politica consapevole di valori che, sembra, siano
stati dimenticati.
Meglio, di valori dei quali ci si
ricorda solo sull’onda di eventi tragici che sono affrontati da quella “brava
gente” di cui il popolo italiano è composto in grande maggioranza, e che
toccano le coscienze, purtroppo a livello puramente sentimentale, emotivo.
Come quattro o cinquecento morti
in una notte e qualche centinaio di bare senza nome allineate in un hangar, in
attesa di esser disperse nei cimiteri dei paesi disposti ad accoglierle.
E accogliere nei cimiteri le salme di “estranei” non è
semplicissimo, checché se ne dica. Perché se è forse vero che tutti accettano
l’eguaglianza di fronte alla morte, sembra essere meno vero che sia patrimonio
culturale di tutti pensare che i morti meritino lo stesso rispetto e una
dignitosa sepoltura.
E ottobre – mese della morte – è
stato conferma anche di questo: tutti siamo destinati a morire, ma non tutti
credono che la morte ci renda eguali.
La storia ha sempre descritto
esequie destinate ad istradare Grandi Morti verso i doverosi privilegi
riservati nell’aldilà, generalmente speculari a quelli goduti nell’aldiquà,
così come da sempre sono esistite ed esistono “ultime dimore” progettate e
costruite in linea con la grandezza terrena del defunto e destinate, anche, ad
ingigantirne e trasmetterne la gloria. E così come da sempre per i “grandi” si
riservano posti nei famedi e nei monumentali, o anche nelle cattedrali.
Giustamente, in fondo, se si
ricorda che gli imperatori romani defunti diventavano de jure veri e propri dei
e acquisivano il diritto alla qualifica di “divus” e che i faraoni –che vantavano
divini ascendenti- dei erano in terra, e la loro morte null’altro era se non il
ritorno alla dimora eterna, compiuta la missione affidata dai padri.
E via dicendo, in tutti i tempi e
sotto ogni cielo.
Il che sembra dimostrare proprio
che non è assolutamente vero che si diventi tutti eguali di fronte alla morte,
dotata o meno di falce che sia.
E non a caso, credo, anche per noi
moderni e civilissimi, fino a non moltissimi anni fa (confesso: ignoro se la
cosa continua) solo il nobile sentire di un animo nobile realizzava un’ombra di
eguaglianza almeno formalmente accettando una cerimonia funebre con la bara
poggiata sul pavimento, un poco più in basso di quanto non fosse d’uso per i
comuni mortali, la cui bara posava invece su di un catafalco, protesa verso un
cielo lontanissimo.
“More nobilium”: essendo stati
“dappiù” in vita, ostentavano parità con gli altri rinunciando al catafalco.
Solo in chiesa e per la durata della cerimonia (peraltro, in fondo tesa a
sottolineare la magnificenza del defunto), dal momento che già sulla porta
tutto di nuovo si riferiva alla grandezza del “fu”.
Questo, perché i vivi potessero
ammirare la modestia del titolato di turno. Oppure, cosa forse più vera, nel
tentativo di acquisire un estremo merito di fronte a quel Dio che li avrebbe
giudicati per quanto nella vita terrena.
Così come puramente formale e di
convenienza è la descrizione per quanto sintetica delle virtù del defunto,
tanto che i nostri cimiteri sono popolati esclusivamente da santi, eroi, poeti,
pensatori, mariti e padri esemplari.
Tanto che la domanda della
bambina al papà “ma i cattivi dove li seppelliscono” appare ampiamente
giustificata.
Ma non questo importa. Ciò che
veramente conta è l’inciviltà di tutti coloro che, accampando le ragioni più
diverse ed anche più improbabili, hanno creduto di potersi rifiutare di
accogliere in un angolo del cimitero del proprio paese la salma di qualcuno, e
ciò per un giudizio assolutamente umano – e quindi per definizione opinabile e
parziale - circa l’operato del defunto quando era in vita.
E che magari è stato autore di
crimini efferati, ma ha agito secondo gli insegnamenti della civiltà del suo
tempo, mantenendo e vantando una sua coerenza assoluta ai principi
inculcatigli.
Che sono, poi, gli stessi
insegnamenti e gli stessi principi che ancor oggi insegniamo a tutti coloro
che, manu militari, chiamiamo a difendere la Patria (o anche a conquistar potere), ed ai quali
non ammettiamo si possa venire meno.
E si badi bene: la disciplina e
l’obbedienza militare prescindono dalla giustizia o meno di cui si può
gratificare la guerra (ammesso che si possa parlare di guerra giusta e santa),
che null’altro persegue se non la vittoria, senza esclusione di mezzi.
Ma forse la morte distingue tra
salme dei vincitori e salme dei vinti.
La guerra economica sembra non seguire regole molto diverse da
quell’altra, quella dichiarata o meno condotta con l’uso delle armi, dalle nude
mani, alla pietra, all’arco, alla balestra, alle armi da fuoco, alle bombe
atomiche, alle testate nucleari dei missili, ai gas nervini e gli avvelenamenti
delle acque e tutto ciò che la perversa fantasia umana riesce ad inventare.
Di tutte le guerre, fa parte
integrante lo spionaggio. Da sempre, e per ragioni più che facilmente
intuibili. E il nostro è un sistema economico che prevede lo sfruttamento dei
più deboli da parte dei più potenti; l’appropriazione delle risorse a vantaggio
dei più ricchi; l’acquisizione di tanto maggior potere interno ed esterno
quanto maggiori sono le ricchezze a disposizione.
E allora: di che ci si lamenta?
Il nostro concetto di economia (e
dunque il nostro sistema economico) non riconosce la lealtà, il diritto,
l’etica, l’equità, la fiducia tra i limiti all’azione di arricchimento. Uno dei
detti più popolari, in Italia, suona “in guerra ed in amor tutto è permesso” e
si coniuga con l’altro “gli affari sono affari”. E noi tutti siamo prontissimi
a riconoscere i meriti di chi si è arricchito e continua a farlo “cogliendo le
opportunità”.
E, anche, i nostri economisti ci
insegnano che le opportunità vanno cercate e se del caso create.
Onore al ricco ed al potente: è
il primo comandamento del viver sociale, il solo valore riconosciuto senza
eccezioni.
E per diventare ricchi e potenti
e per conservare ricchezza e potere, lo spionaggio è d’obbligo.
Anche e soprattutto se lo
chiamiamo intelligence.
Di più: proprio come
intelligence, lo spionaggio – sia militare che economico e quale ne sia la
destinazione d’uso (compresa l’acquisizione delle prove di un tradimento
familiare o di una scarsa osservanza di principi religiosi o presunti tali) – è
formidabile fonte di posti di lavoro. In tutto il mondo e, ancora una volta,
sotto ogni cielo.
Ma c’è qualcuno che può veramente
credere che chi spia lo ammetta? E soprattutto, che l’attività possa
estinguersi?
Un amico toscano usa
un’espressione suggestiva: ma scherziamo davvero?
Certo appare che lo scherzo abiti in Politica. Non solo,
ovviamente, ma a preferenza. La
Politica si è rivelata l’arena migliore per i contaballe, i
visionari, i venditori di fumo, i dilettanti e via dicendo. E’ sempre stato
così, almeno da noi, ma mi pare si stiano conquistando vette impensabili rese
raggiungibili (anche) da una decadenza culturale mai immaginata e, se
immaginata, ritenuta impossibile.
Eppure è così. E i Politici, che
tutto possono essere, ma molto raramente mancano di furbizia e di intelligenza,
se ne sono accorti, e cavalcano l’ignoranza di ritorno in una con la crisi
economica, la mancanza di posti di lavoro, la miseria crescente, l’insicurezza
e, soprattutto, l’asserito disinteresse della gente per la politica, appunto.
Non vedo eccezioni. Da una parte,
si rispolverano partiti impolverati, al solo fine di provvedere alla difesa di
interessi personali, e si ventila un’aura monarchica o, almeno, un diritto della
prole ad ereditare un partito di proprietà della famiglia; dall’altra, si
“vanta” merce fatta di pure parole, una retorica abbagliante, fuorviante,
presuntuosa quanto mai; in tutti i casi, non si disegna uno Stato e neppure una
strategia sui fatti concreti.
Perché la soluzione cercata e
voluta dai Politici d’ogni credo e fazione è mantenere il proprio potere, così
da garantirsi e possibilmente aumentare le ricchezze proprie e quelle dei
sodali.
Le proprie, innanzitutto.
Conclusione più banale ed ovvia
questo editoriale non avrebbe potuto proporre.