LETTERA
AL MINISTRO CANCELLIERI
Gentile
ministro Cancellieri,
forse fra poco la vicenda che La collega alla
famiglia Ligresti sarà dimenticata e questa lettera avrà perso d’attualità: ma
fintanto che ne conserva qualche frammento vorrei riflettervi un poco. Di quei
fatti sono ormai stati sviscerati, da parte della stampa, pressoché tutti gli
aspetti e non restano che pochi scampoli di materiale sui quali è ancora
possibile qualche meditazione.
In relazione ai recenti arresti di alcuni membri
di quella famiglia Sua amica, Lei ha telefonato a Gabriella Fragni, compagna di
Salvatore Ligresti e, tra le altre cose che trascuro, dice “…Guarda, qualsiasi
cosa possa fare, conta su di me…” (la Repubblica, 3 novembre 2013). È un’affermazione molto impegnativa, e non mi
dica, come si usa, che questa citazione non ha valore perché estrapolata da un
discorso più lungo: quel discorso Lei lo conosce. Delle iniziative
successivamente messe in atto, non volendo occuparmene, do qui per
completamente giustificata la Sua visione dei fatti: mi interessa solo
osservare che, a più riprese, Lei asserisce che esse rispondono a pura
motivazione umanitaria. Mi limito qui.
C’è però un grande problema, ministro
Cancellieri, ed è proprio quella nobile motivazione. Chi esercita una funzione
pubblica è obbligato a guardare le cose secondo un’angolazione che non tiene
conto delle opinioni, della visione del mondo, degli affetti, di tutto ciò,
insomma, che lo caratterizza in quanto persona. Il funzionario pubblico vive
una situazione che, fuori da quel contesto, costituirebbe un grave disturbo
psichiatrico: la doppia personalità. Ma chi riveste una carica istituzionale,
al contrario, a una personalità doppia, seppure consapevolmente e
deliberatamente assunta, è obbligato.
La motivazione umanitaria che Lei invoca - che
Le fa onore, se vera, e io non ho difficoltà a crederLe - appartiene però proprio
a quella personalità privata dalla quale quella pubblica deve scindersi. Non sto
dicendo, intendiamoci, che un ministro dev’essere senza cuore, ci mancherebbe
altro! Dico invece che alle lodevoli ragioni del cuore egli deve dare una via
di sbocco generale, collettiva e non personale, particolare; dico che esse
devono animare la sua azione politica, darle forza nell’interesse di tutti e
non costituire appiglio privato, che è intollerabile privilegio.
So bene che costringere se stessi a questo
difficile esercizio può essere talora umanamente molto gravoso: ma questo,
ahimè, è un costo del potere che si accetta nell’atto stesso di assumerlo, il
potere. Solo nei casi in cui quel costo diviene talmente alto da risultare
inesigibile la legge stessa esonera - e solo nell’occasione - il funzionario
dalla sua funzione. Non si può, evidentemente, chiedere a un magistrato di
giudicare e condannare un figlio, magari alla pena capitale laddove questa
esista. Per questo tutti i sistemi giudiziari, almeno che io sappia,
stabiliscono che tra giudice e imputato non debbano esservi relazioni di
parentela.
Ma non mi sembra questo il Suo caso, ministro
Cancellieri. Sebbene le ragioni dell’umanità che Lei invoca, possano parerLe
pesantissime, non era così drammaticamente difficile rinunciare a fare quella
telefonata - Le ricordo che l’iniziativa è stata Sua - e mettersi a
disposizione: e qualora l’avesse non fatta ma ricevuta, non sarebbe stato
impossibile rispondere: “Per quanto affetto possa nutrire per voi tutti, sono
il ministro della Giustizia e vi prego di comprendere la mia impossibilità di
assumere atteggiamenti incompatibili con questo ruolo”.
Può darsi che io sbagli a ritenere non insopportabilmente
gravoso tutto ciò mentre per Lei, invece, lo è: cosa comprensibile, persino
encomiabile. La Sua situazione, in quel caso, non sarebbe molto dissimile da quella
del giudice di poc’anzi, per il quale l’esonero è previsto dalla legge. Ma la
legge non lo prevede per il ministro della Giustizia.
Che fare, allora? Una risposta forse c’è.
Con viva cordialità
Francesco Piscitello