A margine di “teatro
e pubblicità”
di Paolo Maria Di Stefano
Breve, conciso, compendioso, suggestivo e letterariamente notevole,
“il teatro e la pubblicità- 2 ” del 4 novembre mi ha costretto a pensare. Ed
anche a lungo. Le mie hanno percorso, io credo, tutto l’arco delle sensazioni,
dallo stupore allo sconcerto, dalla condivisione al rigetto, dalla ammirazione
a…come si chiama il totale contrario?
Il che è assolutamente positivo:
significa che “Odissea” assolve appieno ad una delle funzioni che le sono proprie,
essere sorgente di pensiero.
Una sorgente, si spera, anche
qualitativamente – non solo quantitativamente – di rilievo. E da una sorgente
quale che sia nasce qualcosa che fluisce verso una soluzione, superando
ostacoli anche inattesi e impervi, sempre, però, rimanendo assolutamente
distinta. Sorgente, dunque, da un lato e dall’altro lo sbocco. Nel mezzo, il
fluire in gran parte indipendente dell’acqua, che dipende, sì, dalla sorgente,
ma che assume una sua propria vita alimentandosi da fonti diverse oppure
spegnendosi per cause che nulla hanno a che vedere con la sorgente stessa.
Ma comunque la vita del rivo
fluisca, la sua è una fine logica, forse non prevedibile, ma certamente
spiegabile a posteriori.
Allora ecco che si evidenzia a mio parere un primo sconcertante
salto di logica: “…se si pensa che
l’unico settore non in crisi è quello della comunicazione, figlia della
pubblicità”. Interessante, questo scambiare il figlio per il padre (o la
figlia per la madre, che è la stessa cosa); interessante e inspiegabile.
Significa non aver chiare le differenze tra la pubblicità e le altre categorie
della comunicazione, peraltro forse più nebulose del necessario, e, sempre forse,
neppure quelle, importanti, tra comunicazione e mezzi.
La pubblicità è una categoria della comunicazione. Il che significa
che la comunicazione la precede e la contiene. E dunque non può né
letterariamente e neppure logicamente essere figlia della “pubblicità, il cui prodotto è il comunicare stesso”. E qui, un intoppo non da poco: il comunicare
è sì, un prodotto, ma è il prodotto della comunicazione in quanto categoria
generale, e non serve a distinguere tra le diverse specie della comunicazione
stessa. Significa che occorre
distinguere tra i diversi prodotti, se si vuole tentare di avere una idea
chiara che – tra l’altro – è indispensabile alla ricerca ed alla attuazione di
qualsiasi obbiettivo.
E la pubblicità si distingue
dalle altre categorie della comunicazione perché il suo “prodotto” è destinato
al convincimento all’atto di acquisto. E questo fa, spesso utilizzando mezzi e
modi comuni ad altre categorie della comunicazione, ma con il fine ultimo (la
“causa”) di convincere a compiere l’atto di acquisto. Che è una “causa propria” di almeno due
categorie della comunicazione: la pubblicità, appunto, e l’attività di vendita,
che si diversificano per il pubblico cui si rivolgono e per l’uso specifico di
modi e di mezzi, pur avendo in comune più di un fattore. Per esempio, alcune
“argomentazioni di vendita” sono anche “argomentazioni pubblicitarie”. E non di
rado è essenziale che sia così ai fini di una comunicazione che possa trarre
vantaggio dalle sinergie scaturenti dall’uso delle diverse categorie.
Il comunicare non è “un prodotto”, bensì una linea di prodotti in
più di un caso molto diversi tra di loro. E diversi proprio perché destinati a
realizzare “cause” (fini ultimi) diverse.
E destinati a questo anche a prescindere dalla consapevolezza, dalla
volontà, degli interlocutori. Ed anche a prescindere dalla partecipazione di
più interlocutori, dal momento che oltre alla comunicazione interpersonale –
quella che vede più soggetti fisicamente diversi- è possibile e reale una
comunicazione intrapersonale, che si realizza con se stessi, in genere
escludendo qualsiasi partecipazione di terzi.
E allora, la pubblicità comunica, perché della comunicazione è
categoria e non può non comunicare, ma il suo prodotto è “il modo di convincere
all’acquisto”, tra l’altro un “acquisto” non necessariamente rientrante nella
categoria delle azioni economicamente rilevanti ed economicamente valutabili.
Significa che quando si parla di
pubblicità non necessariamente ci si rivolge al mondo della economia, anche se
senza dubbio è in questo mondo che la pubblicità ha assunto rilevanza
generalizzata e riconosciuta.
Rilevanza che non fa della
pubblicità “l’inventrice del mass medium”, se non nel senso che, alla ricerca
di un pubblico sempre più vasto, la pubblicità ha “valorizzato” alcuni dei
mezzi di comunicazione. Quando, per esempio, si è accorta che utilizzando la
radio ed utilizzandola in un certo modo le probabilità di vendere meglio il
prodotto aumentavano; e lo stesso per la televisione e per la cartellonistica e
per …fino all’uso pubblicitario del cellulare e di internet e via dicendo.
E a questo punto, forse,
bisognerebbe distinguere nettamente tra “il prodotto pubblicità” e il prodotto
che è oggetto della campagna pubblicitaria. Per il primo, il prodotto chiamato
pubblicità, a me sembra chiaro che a sua volta non può non ricorrere alla
pianificazione di una campagna pubblicitaria di se stesso, così come mi sembra
chiaro che più efficaci si dimostrano le campagne per i prodotti dei clienti,
più l’immagine dell’agenzia è vincente e dunque la domanda di prestazione
all’agenzia stessa è destinata a crescere; per il secondo, non è vero che una
campagna pubblicitaria di successo, magari ripetuto – il successo- negli anni, comporta un “aumento” della
pubblicità. Se la campagna ha avuto successo, e se la pianificazione di gestione
che è a monte era corretta, la pubblicità si ferma là dove il bilanciamento con
gli altri elementi essenziali allo scambio del prodotto è al suo punto massimo.
C’è infine da notare come “la comunicazione” in genere e la
pubblicità in particolare, proprio perché elementi essenziali allo scambio di
un qualsiasi prodotto siano da considerare veri e propri investimenti, sempre
che sia il complesso della comunicazione a rivelarsi in qualche modo e per
qualche ragione carente. E si spiega allora perché – ma ignoro se sia vero: ho
qualche dubbio in proposito- “oggi…l’unico
settore non in crisi è quello della comunicazione”: forse qualcuno si è
reso conto che occorre investire in comunicazione o, anche, che investire in
comunicazione potrebbe rivelarsi meno impegnativo e costoso – almeno nell’immediato
– di altre forme di investimento. Ne
dubito, almeno qui da noi: i nostri imprenditori, che di gestione degli scambi
sanno poco e quel poco in genere lo improvvisano – al primo accenno di crisi
tagliano il budget pubblicitario, a questo spinti anche dalla grettezza dei
pubblicitari, oltre che da insegnamenti improvvidi impartiti anche a livello
universitario da “docenti” che non hanno mai visto un’impresa e che di economia
non possiedono neppure le basi più elementari. E da una disciplina, il marketing,
sconosciuta ai più e oggetto di “invenzioni” le più improbabili, vendute come
“creatività” e “innovazioni”.
Quanto al Teatro ed ai suoi problemi, avremo occasione di scambiare
opinioni concrete, tenendo conto fin d’ora che in ogni caso i problemi del teatro
sono comuni a tutte le forme di spettacolo.
E sono problemi risolvibili,
anche nell’immediato.