Brutti, Sporchi e Cattivi … Mica Scemi!
A proposito della Brexit
di Dino Erba
Di
fronte al responso delle urne britanniche, politicanti e pennivendoli[1] di
mezzo mondo sembrano caduti dalle nuvole, sprizzando livore antiproletario.
Dopo anni di batoste, pensavano che i proletari inglesi[2] scegliessero di
restare nell’Unione Europea. Mazziati e cornuti! E sì, che non hanno conosciuto
le gioie della moneta unica, l’Euro, altrimenti il responso a favore
dell’uscita sarebbe stato ben più alto.
Politicanti e pennivendoli
vivono in un modo a parte, il magico mondo degli affari, degli intrallazzi e
della gioventù rampante che, a Londra, va a divertirsi, facendo magari qualche
business. Solo dei vecchi ignoranti e morti di fame potevano por fine a questa
pacchia. La voce delle Borse è stata assai più chiara di quella dei pennivendoli.
Procediamo con ordine,
vediamo che cosa è successo in questi anni nel Regno Unito.
– Il flusso migratorio è cresciuto, con l’arrivo di circa 3.300.000 cittadini
dell’Unione Europea, di cui 900mila sono polacchi. Quindi non si tratta di profughi extraeuropei, questa è un’altra storia,
di razzismo e pasticci[3]. Inoltre, più del 10% dei cittadini britannici ha
origini extraeuropee e non è white (caraibici, indiani, pakistani, nigeriani
ecc.). Sono noti i problemi di integrazione che, in questi anni, l’orientamento
antimulticulturale di David Cameron ha aggravato, dando spazio ai movimenti
razzisti english.
– Il welfare
è andato scemando, in seguito ai tagli inaugurati da Margaret Thatcher e
proseguiti dai suoi seguaci di sinistra, Tony Blair, e di destra, David Cameron
col suo compare George Osborne (ministro delle finanze). Il risultato è che il
Regno Unito presenta oggi la maggiore sperequazione sociale tra i Paesi
dell’Unione Europea (Indice di Gini 0,360). Dopo c’è l’Italia. La povertà
(«gravi privazioni materiali») riguarda il 15% della popolazione (in Italia è
l’11,5%).
– Di pari passo,
cresceva l’età media dei britannici… circa il 18% ha più di 65 anni. E in
questa fascia di età il Leave ha superato il 60%. Complessivamente, nella
fascia d’età superiore ai 45 anni è prevalso il Leave.
– Il Regno Unito ha subìto una fortissima de-industrializzazione. Oggi, le attività
industriali contribuiscono al Pil per meno del 20% e rappresentano circa il 15%
dell’occupazione (Italia: 24% e 29%). Molte grandi industrie sono
multinazionali (Nissan, Tata, Bmw, Aibus). Il settore terziario (i cosiddetti
servizi) contribuisce al Pil per quasi l’80% e rappresenta circa l’83%
dell’occupazione[4], in cui confluiscono banchieri e sguatteri… I «servizi»
sono il ricettacolo di una miriade di attività che, in questi anni, hanno fatto
dell’Inghilterra la meta ambita per migranti in cerca di «fortuna».
– Libertà di lavoro e libertà di impresa hanno
attratto dall’Unione lavoratori e aspiranti imprenditori. La legislazione in
materia di lavoro è assai lasca e consente contratti denotati da una spiccata
precarietà (Zero hours contract)[5]. Altrettanto lasca è la libertà di impresa
che ha favorito l’apertura di una marea di aziende, grandi e piccole (le
Start-Up!)[6], queste ultime spesso sono in concorrenza con quelle english.
– Il basso tasso di disoccupazione (6%) cela spesso condizioni di lavoro assai precarie,
che riguardano oltre 8milioni di lavoratori. Mentre 9milioni di britannici tra
i 16 e i 64 anni hanno smesso di cercare lavoro (tasso di inattività è pari al
22%).
– Tra i grandi Paesi Ue, il Regno Unito è quello meno «integrato», come
mostra l’interscambio commerciale che nell’export il suo primo partner sono gli
Usa (quasi il 13%), e nell’import la Cina è al secondo posto, con circa il 9%.
– Nel Regno Unito, come in ogni altro Paese capitalistico, la crisi economica globale ha
indebolito le relazioni commerciali, favorendo le spinte centrifughe, quindi disgregative.
In conclusione, la torta da dividere diventava sempre più risicata, aumentavano
i commensali mentre la condizione proletaria complessiva andava peggiorando, in
particolare per i vecchi english che, giustamente, reclamavano i loro diritti,
più che acquisiti (dopo anni di contributi versati!).
Significato del voto e … del non voto
Il Leave è stato sostenuto in Inghilterra (53,4%) dove più si
concentra il malcontento sociale. Il Remain
è invece prevalso nettamente in Scozia (62%) e in Irlanda del Nord (55,8%)[7].
L’astensionismo è stato
circa il 28%. I motivi sono vari, tra cui anche la consapevolezza che il nemico
non è l’Unione bensì il capitalismo. L’anticapitalismo appare anche nella
scelta del Leave. E qui tocchiamo il tasto delicato. Certamente, buona parte
dei proletari britannici e della piccola borghesia inglese, che mal digerisce
la competizione con i nuovi arrivati, ha votato Leave, scambiando la forma,
l’Unione Europea, con la sostanza, ovvero il capitalismo, che è la vera origine
delle loro disgrazie. A questo proposito, lascio la parola a Wu Ming 1:«Negli
ultimi vent’anni un processo di unificazione europea tecnocratico, neoliberista
e austeritario, ha rafforzato centri decisionali che i cittadini sentono,
giustamente, lontanissimi da qualunque loro possibilità di influire. Ciò è
avvenuto nel quadro di una globalizzazione diretta dall’alto, nel corso della
quale si sono intaccati diritti e garanzie che generazioni di lavoratrici e
lavoratori avevano conquistato versando sangue, sudore e lacrime. Lo vogliono i
mercati, così ci han detto, il mondo va così e non potete farci niente, quello
che era su deve venir giù, l’arcolaio gira e dipana la matassa, basta coi
“lacci e lacciuoli”, i capitali saranno liberi![8]».
Parole che ben si attagliano
all’Inghilterra della Brexit e che mi consentono delineare alcune
considerazioni sulle sue possibili conseguenze.
Il Regno Unito
– l’Inghilterra in particolare – è il Paese capitalistico in cui si sono
concentrati gli aspetti peggiori della globalizzazione e che, con la Brexit,
potranno esplodere in modo drammatico.
– La de-industrializzazione avviata da Margaret Thatcher ha sgretolato la
gloriosa working class britannica, della quale resta solo un ricordo, più
mitico che reale. Oggi, la classe operaia britannica occupa un ruolo sociale (e
quindi anche politico) assolutamente ridimensionato (se non marginale) rispetto
al passato. Il voto per il Leave è stato il loro estremo e disperato sfogo. Ma
impotente.
– La libertà di lavoro e di impresa ha generato una crescente concorrenza
tra i lavoratori britannici (ma soprattutto inglesi) e i nuovi arrivati che
fuggivano da situazioni assai peggiori, come i polacchi, gli ungheresi, i cechi
e gli slovacchi.
– Nel frattempo
è mutata la geografia sociale e politica dei lavoratori, in cui gli immigrati
assumono il ruolo emergente.
– Gran parte dei lavoratori immigrati è occupata in attività legate ai servizi (tra cui la
logistica) che, con la Brexit, dovranno per lo meno ridimensionarsi (se non
scomparire). Medesimo rischio corrono i lavoratori delle industrie rivolte
all’export nella Ue che ora si trovano appioppati i dazi doganali Ue. Il
problema diventa scottante per multinazionali come la Nissan che erano state
attratte dalle facilitazioni fiscali e normative, con la possibilità di entrare
nel mercato Ue, mentre, oggi, dovranno fare i conti con i dazi (nel settore
automobilistico gravano per il 10%). Il gioco non vale la candela …
– Tra le spinte centrifughe, si profila la richiesta di indipendenza da parte di
Scozia e Irlanda del Nord, e quindi la disgregazione e fine del Regno Unito.
Come si suol dire, i
signori del Regno Unito volevano la botte piena e la moglie ubriaca e si
ritrovano con la botte vuota e la moglie incazzata. La situazione sta sfuggendo
loro di mano.
Lo scenario che si delinea
è pregno di tensioni sociali che potrebbero essere attutite da soluzioni di circostanza, ma non
è detto. Potrebbero attizzarle ancora di più, per esempio, l’ipotesi di
ripetere il referendum scoperchierebbe il vaso di Pandora. Restano infine da
vedere le ricadute in un’Europa che naviga in acque già abbastanza agitate.
Note
[1] Sorvolo
sui leghisti nostrani, ricordo solo che: nel luglio 2008, al governo col
Berlusca, votarono (con riserva!) il Trattato di Lisbona che rafforza la Ue
(nel 1992 avevano votato per il Trattato di Maastricht); nel 2012 si astennero
sulla riforma della costituzione che inseriva il principio del pareggio di
bilancio, proposto nel settembre 2011 da Giulio Tremonti, ministro
dell’Economia e delle Finanze del governo Berlusca e «amico» dei leghisti. Il
pareggio di bilancio è alla base della macelleria sociale inaugurata dal duo
Monti-Fornero e proseguita alla grande dalla coppia Renzi-Poletti col JobsAct.
In poche parole, il leghisti hanno la faccia come il culo.
[2] Nel
corso dell’articolo, distinguo tra inglese (cittadino dell’Inghilterra) e
britannico (cittadino del Regno Unito di Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda
del Nord).
[3] «La
cattiva gestione dell’intero sistema di immigrazione britannico è stata messa a
nudo da una dura relazione parlamentare. Dalla quale emerge che i funzionari
del ministero degli Interni di Sua Maestà ammettono di non sapere dove si
trovino 50mila richiedenti asilo la cui domanda era stata respinta. Alla fine
del 2013-14, infatti, ci sono stati più di 175mila stranieri che si erano visti
rifiutare la richiesta di restare nel Regno Unito, ma senza adeguati controlli
in uscita è quasi impossibile sapere che fine abbiano fatto molti di questi
individui. Ma c’è di più. Il documento, infatti, denuncia i tempi biblici della
macchina burocratica. Con addirittura 11mila richiedenti asilo che hanno
aspettato almeno 7anni per sapere se potevano rimanere o no nel Regno». Ivano
Abbadessa, Gestione inglese dell’immigrazione nel caos, 30 ottobre 2014, in
http://www.west-info.eu/it/gestione-inglese-dellimmigrazione-nel-caos/.
[4]
L’agricoltura e la pesca sono ridotte ai minimi termini: 0,6% del Pil e 1,3%
dell’occupazione.
[5]
Francesco Bacchini, Lavoro intermittente, ripartito e accessorio. Subordinazione
e nuova flessibilità, Wolters Klauwe Italia, Milano, 2009 (3a), pp. 155, 156,
415 e ss.
[6] Vedi: Bright
Business Consulting Llp, http://www.
regnounito.bbc-llp.co.uk/it/contattaci.html.
[7] Questi
dati come altri citati sono forniti dal «Corriere della Sera» del 25 e del 26
giugno 2016.
[8] Wu Ming
1, Cent’anni di Nordest, Rizzoli, Milano, 2015, p. 35.