UN CORPO GETTATO VIA
di Dacia Maraini
In questo doloroso ed emozionante racconto di Dacia
Maraini,
tutta la tragedia disumana dei nostri anni.
“Guarda questa fotografia”, ha detto
il mio compagno mentre, in vestaglia e con le pantofole ai piedi, scaldavo il
latte per la colazione. Stavo per dirgli che non mi scocciasse, il latte stava
per bollire e si sarebbe rovesciato sul fornello se non lo tenevo d’occhio. Ma
dal tono della sua voce ho capito che non potevo non guardare. Ho sollevato gli
occhi, ancora assonnati, sul giornale e lì per lì non ho capito: cosa c’è di
strano nell’immagine di un bambino addormentato su una spiaggia vuota?
“Le onde lo hanno gettato
sulla rena”, ha aggiunto Giordano con tono di fredda rabbia, e allora ho capito
che stavo osservando un corpicino morto.
“Come si chiama?”, ho
chiesto, come se avesse qualche importanza. Giordano si è alzato sbattendo la
sedia e se n’è andato, quasi fosse colpa mia la morte di quel bambino.
Ho preso in mano il
giornale e ho letto che il bambino approdato sulla spiaggia come un pezzo di
tronco abbandonato si chiamava Aylan Kurdi, veniva dalla città di Kobane, in
Siria ed era diretto coi genitori verso il Canada, dove avrebbe raggiunto una
zia chiamata Tima Shenu Kurdi. Scappavano da una guerra che aveva distrutto la
loro casa e la loro città. Avevano fatto richiesta per raggiungere la zia a
Vancouver, ma la richiesta era stata respinta dal governo canadese. Per questo
avevano deciso di rivolgersi a un’agenzia privata che, in cambio di 5.860
dollari, li doveva condurre all’isola di Kos, in Grecia, da dove avrebbero
preso posto su un battello più grande per raggiungere Vancouver.
E così, in un giorno
stabilito, hanno riempito un sacco con delle coperte, e quel poco di soldi che
erano loro rimasti e si sono imbarcati di notte, dalla spiaggia turca di
Bodrum, con altre dodici persone, su un gommone che al massimo ne poteva
contenere otto…
Il telefono si è messo a
squillare. Sono quelli dell’ufficio che mi chiedono perché non sono ancora al
mio posto. Mi rendo conto di essere in ritardo. Rispondo che sto arrivando. Mi
vesto in fretta, caccio nella borsa il giornale e mi precipito verso l’ufficio
forzando il vecchio motorino.
Il capoufficio mi fa una
lavata di testa davanti a tutti i colleghi: “Sei una capra, una piccola stupida
capra!”, grida. Non capisco quell’astio eccessivo. Solo per qualche minuto di
ritardo? Ma probabilmente è di pessimo umore, come succede sempre più spesso
per ragioni che non riguardano il lavoro e se la prende con noi sottoposti urlando
e insultando. Gli mostro la fotografia del piccolo Aylan. Non voglio
giustificare il mio ritardo, ma vorrei commentare con i miei colleghi e il
capoufficio quella morte, che mi appare come il simbolo degli orrori che stiamo
vivendo. L’ingegner Polipi lancia uno sguardo iroso alla foto e commenta acido:
“Questo succede a chi lascia casa propria per pretendere di accamparsi in
quella altrui”.
So che non dovrei
rispondere, ma è più forte di me. Gli grido che di fronte al corpo morto di un
bambino innocente dovrebbe avere più rispetto. E lui mi replica freddo: “Non è
per il ritardo ma per l’arroganza. Si consideri licenziata”. I colleghi si sono
ben guardati dal prendere le mie parti.
Quando torno a casa,
Giordano non c’è. Strano, perché di solito rientra prima di me. Metto l’acqua
sul fuoco per farmi una tisana. Ho freddo e mi sento la febbre, anche se
probabilmente si tratta solo di un’alterazione dovuta alla rabbia e a un senso
di desolazione a cui non so dare un nome.
Verso le otto comincio a
preoccuparmi. Faccio il numero del ristorante dove lavora Giordano, ma mi
dicono che non l’hanno visto. Chiamo sua madre, ma mi risponde evasiva che non
ne sa niente. Che fare?
Mentre mi aggiro per casa,
indecisa e preoccupata - uscire a cercarlo? Rivolgermi alla polizia? Chiamare
uno a uno i suoi amici? - vedo qualcosa di bianco che brilla sul cuscino del
letto matrimoniale. È un foglio di carta piegato in quattro. Lo prendo, lo
apro.
Il mio amato Giordano, con
cui divido l’appartamento da due anni, ha deciso di partire per la Scozia, dove
ha trovato un lavoro “degno della mia laurea”. Lapidario, laconico, brutale. Ma
perché non dirmi niente? Perché non avvertirmi? Neanche una parola di
spiegazione, possibile?
Mi siedo in cucina, prendo
in mano il giornale e ricomincio a leggere del bambino Aylan. Il gommone è
partito di notte, mentre il mare si ingrossava. Prima di lasciare la costa, un
giovanotto ha distribuito dei giubbotti di salvataggio, racconta uno dei sopravvissuti.
Molti in quella barca non sapevano nuotare. Ma affrontavano il mare e il
pericolo di morte pur di salvarsi da un’altra morte, quella del proprio Paese
in rovina, delle bombe assassine, dei soldati di Assad che torturano, fucilano,
impiccano.
Alle cinque di mattina la
polizia turca è stata avvisata che c’erano dei morti in mare, in balia delle
onde, dalle parti della costa sud. Una giovane giornalista e fotografa turca,
Nilufer Demir, è accorsa sul luogo e ha visto il bambino a faccia in giù sulla
spiaggia lambita dalle onde. Indossava una maglietta rossa e un paio di
pantaloncini blu. La giovane donna ha fotografato il piccolo, poi i poliziotti
che venivano a prenderlo. Ha immortalato quel corpicino soffice e leggero,
abbandonato come un relitto sulla spiaggia vuota, l’ha fissato per sempre nella
geografia della nostra mente mentre veniva raccolto da un giovanotto alto,
vestito di scuro, che indossava un giubbotto rosso dai bordi bianchi. Fra
quelle braccia muscolose il bimbo sembrava ancora più piccolo, quasi un neonato
appena partorito.
Le fotografie della Demir
hanno fatto il giro del mondo. In Canada molti hanno accusato il ministro
dell’immigrazione di aver rifiutato il visto alla famiglia Kurdi e di aver
provocato così la morte del bambino. Il ministro ha ribattuto che la richiesta
di asilo era incompleta, che non c’erano i nomi della famiglia ma solo quello
del padre. Qualcuno ha parlato di “mostruosità burocratica”.
Tutto il mondo si commuove
per quella foto. In braccio al poliziotto turco il piccolo Aylan sembra
semplicemente addormentato. Sul suo minuscolo corpo non si vedono ferite,
lividi, tracce di sangue. Ed è proprio quella sua solitudine, quella sua grazia
dolce, quel suo abbandono alla morte, che tolgono il fiato. Più eloquente di
qualsiasi storia atroce, quel corpicino solitario e miracolosamente intatto
dice cose terribili sul fenomeno sempre crescente dell’emigrazione.
Anche Giordano è emigrato,
scappando da un lavoro umiliante e da una compagna che non ama più? Con meno
disperazione, con meno rischi certo. Ma di fuga si tratta o che altro? Fuga dal
proprio Paese, dalla propria casa, dalla propria città, dalla propria donna?
So che il dolore mi
salterà addosso più tardi. Per il momento continuo a leggere del bambino Aylan
e mi sento padrona di me stessa. Le lacrime si sono fermate sull’orlo delle
palpebre perfettamente asciutte. Se Giordano mi dicesse: “Vieni, lascia quel
lavoro di merda che fai e raggiungimi qui in Scozia”, lo farei? Ma lui non me
l’ha chiesto e probabilmente non lo farebbe: lo rivela la sua fuga silenziosa,
la sua sparizione. Si è dileguato come un ladro, il che vuol dire,
probabilmente, che oltre al lavoro, ha trovato anche un’altra compagna.
Ma il mio pensiero torna
al piccolo Aylan, alla sua morte in mare. Ai suoi genitori. Ma giusto, cosa ne
è stato dei suoi genitori che pure si erano imbarcati con lui? Leggo su
internet che uno dei sopravissuti ha accusato il padre del bambino di essere
stato alla guida del gommone. Abdullah Kurdi, raggiunto da un giornalista,
ammette che è vero, ma racconta la sua versione dei fatti: appena il gommone si
è riempito e dopo avere preso i soldi da tutti, gli organizzatori sono scesi e
se la sono data a gambe. Prima di andarsene però hanno affidato il timone
all’uomo più anziano del gruppo, il maturo Abdullah Kurdi, padre di Aylan. Lui,
che non aveva mai guidato una barca in vita sua, si è rifiutato, ma loro
l’hanno minacciato di gettare a mare i figli se non l’avesse fatto. E lui è
stato costretto ad accettare.
Così sono partiti con il
gommone stracarico. Hanno viaggiato bene o male per qualche ora, poi, poco
prima dell’alba, il gommone ha cominciato ad afflosciarsi. E nell’imbarcazione
è scoppiata la rissa: ognuno si aggrappava a quello che restava a galla della
barca, cercando di cacciare gli altri in acqua. I primi a farne le spese sono stati
i bambini. Il padre di Aylan ha abbandonato il timone, ormai inservibile, e ha
stretto a sé il figlio, ma qualcuno gli ha dato una tale botta che sono finiti
in mare tutti e due.
“Abbiamo i giubbotti,
possiamo sopravvivere. Ci stanno già cercando con una nave!”, aveva gridato
Abdullah, provando a fermare quella rissa mentre tentava di rintracciare il
figlio caduto in mare con lui. Ma il buio impediva di vedere. Qualche corpo
brillava nella notte alla luce della luna, ma del piccolo Aylan non c’erano tracce.
Intanto l’uomo era
riuscito a ritrovare la moglie, che nuotava bevendo acqua e piangendo senza più
voce. Le aveva detto di appoggiarsi a lui, che sapeva tenersi a galla. Il mare
intanto si era calmato e il sole stava per nascere dall’orizzonte azzurrino.
“Il mio giubbotto fa
acqua!”, aveva gridato un giovane che annaspava fra le onde. Abdullah ha
tastato con una mano il suo giubbotto e si è accorto che era completamente
sgonfio e si stava riempiendo di acqua. Velocemente se l’è tolto, proprio nel
momento in cui sua moglie sprofondava sott’acqua gorgogliando. Appena se n’è
accorto, ha provato ad afferrarla, ma non ci è riuscito. I giubbotti, che erano
stati pagati a parte, e a caro prezzo, erano finti.
Alla fine si sono salvati
in tre, fra questi il padre di Aylan. A lui il presidente turco Erdogan ha
regalato in pompa magna un certificato di cittadinanza turca. Questa la storia.
Partirò, mi dico, me ne
andrò anch’io. Non so per dove, ma dovrò fuggire da questo Paese in cui il
lavoro sta diventando più prezioso della vita stessa.
"Sotto un altro cielo"
Autori Vari
Laurana Ed. 2016
Pagg. 176 € 14,00
[Tel. 02-23002401]
[Tel. 02-23002401]
La copertina del libro |
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