NON DEVONO MORIREdi
Zaccaria Gallo “La mattina ti alzi e sei chiuso
in una stanza tre metri per tre o per due fai la tua colazione dopo di che c’è
il corridoio e basta tutto lì lo spazio che abbiamo in cella è molto limitato
che manco le regole europee dà al maiale il bisogno di più spazio devi
convivere con una persona che non hai mai visto e il rumore delle chiavi nel
silenzio della cella un tavolino e due letti e gli armadietti che si chiamano
bilancini ogni carcere ha una dimensione diversa e ci sono trattamenti diversi
dipende poi da chi dirige il carcere che può essere alle volte più morbido alle
volte molto duro sentiamo i cancelli che sbattono quando entri in carcere come
per dire e poi per ricordare che da lì comincia un’altra storia anche la porta
della cella non è di legno come a casa tua ma di ferro tutto qui è di ferro le
chiavi sono di ferro quando entri è sempre devastante come se il mondo ti
crolla addosso perdi la libertà e l’aria e la famiglia e non c’è oggi né domani
noi diventiamo gli ultimi e impari a dare importanza a tutte le piccole cose
che hai lasciato là fuori come una caramella se ne hai voglia o un cono gelato
quando fa così caldo dentro che non sai come fare per un po’ di fresco e il
gelato non ce l’hai e devi trovare il modo per stancarti tutto il giorno perché
poi la sera diventa difficile addormentarsi e staccarsi dai pensieri negativi e
dalla depressione che alle volte mi sembra di stare in mezzo agli zombi io sono
fortunato perché dalla finestra della mia cella sposto le magliette e le
mutande e l’asciugamani posso intravedere attraverso le grate di ferro anche
quelle i colori della terra dell’erba cambiare o il vento che passa sulle
piante e le fa muovere come le onde sul mare mentre c’è chi ha di fronte solo
un muro o il casotto delle guardie carcerarie e passo delle ore a guardare e a
pensare quello che ti frega è il tempo e per farlo passare c’è gente che ne
combina di tutti i colori si tagliano e si pensa che per noi dopo sarà dura per
riprenderci allora devi impegnare il tempo magari lavorando dentro e tenere
impegnata la tua giornata in carcere si aspetta sempre qualc0sa o qualcuno la
guardia carceraria con le chiavi che ti apre la porta della cella la telefonata
la visita dell’avvocato l’arrivo dei famigliari stare chiuso in cella rischi di
diventare più arrabbiato di come sei entrato alle volte penso che era meglio
prima quando non ci tenevano tutti i giorni dentro ma ci portavano fuori a
spaccare le pietre restano quelle ore dalle nove del mattino dalla una alle tre
nel pomeriggio fuori o per giocare a carte o al bigliardino che è in ogni
sezione e solo la domenica si parla di sport che ci sono le partite dalle tre
del pomeriggio fino alla una e mezzo di sera ti metti le cuffie e il tempo
passa più veloce allora dico fai finta che la vita vera è quella del sogno
perché questa qua è noia e rischi di bruciare qualche valvolina del cervello
c’è una cosa che impari di noi è di non pensare al momento della liberazione
altrimenti c’è da rompere la zucca nel muro e sempre penso al posto dove sono
cresciuto quello di quando ero piccolo e mi manca e penso a loro ai miei figli
che gli è venuto il mondo addosso ma che so che cercano di capire e aiutarmi e
forse l’inferno è più per loro che per me”. (Lettera di Corrado dal Carcere di B.)
“Gravissimi disordini” si sono verificati nella serata nel
Carcere di Bari. “Alcuni detenuti –
comunica la Uilpa – di una sezione detentiva avrebbero sequestrato un’infermiera
e aggredito violentemente l’appartenente alla Polizia penitenziaria in servizio
che cercava di impedirlo. Nella stessa sezione pochi giorni fa un detenuto
aveva aggredito un agente”. Le condizioni nei penitenziari sono sempre più
sconvolgenti. Al momento in cui scrivo, già solo nel 2024, sono stati 71 i
detenuti che si sono suicidati, non contando i due che si sono lasciati morire,
ricusando di assumere il cibo. A questo dato, di per sé agghiacciante, si deve
sommare il suicidio di sei agenti della Polizia penitenziaria (dati al 16
luglio 2024). Chi entra in carcere, oltre a scontare la pena inflitta dalla
Giustizia (e con loro anche i detenuti in attesa di giudizio) è condannato a punizioni
non previste dai Codici di procedura penale: sovraffollamento in costruzioni
malridotte, con situazioni igieniche precarie, una assistenza sanitaria insufficiente,
così come quella importantissima psicologica. I detenuti che vogliono trarre
beneficio della riduzione della pena sono costretti a non protestare se, per le
cattive condizioni della rete idrica, l’acqua è marcia o puzza o se, per
perdite nelle condutture fatiscenti, la stessa acqua non arriva. E cosa poter
dire se nelle celle in estate si muore dal caldo o ci sono insetti (o altro) o
se si divide la cella con elementi violenti in cerca di soddisfazioni di natura
sessuale? I reclusi, quasi tutti in giovane età, completamente lasciati in una
tremenda solitudine, spesso con problemi psichiatrici, si impiccano, inspirano
il gas dei fornelli, o introducendo la testa in una busta di plastica chiusa
strettamente, soffocano. E non dobbiamo dimenticare che molti di loro
provengono dalla criminalità organizzata, che non ha finito di intervenire
nelle loro vite, solo perché in carcere. Lì si possono consumare omicidi,
regolamenti di conti, vendette. Il suicidio di chi è ristretto nelle carceri
italiane è una sconfitta della concezione della pena che uno Stato commina a un
essere umano anche se colpevole.
Né possiamo dimenticare tutta un’altra serie
di eventi che sono frequentissimi fra i carcerati: quelli legati
all’autolesionismo. Procurarsi lesioni traumatiche di ogni tipo è sempre
sintomo o di fasi disperate che si accusano durante la detenzione o forme
eclatanti di un reclamo di attenzione quando ci si sente completamente
dimenticati da tutti. E non è un caso che questi episodi di autolesionismo si
verifichino soprattutto nei detenuti in attesa di giudizio. Nella nostra società
grazie anche a particolari invocazioni di punire qualsiasi reato con la galera
si è creato un clima che favorisce direttamente e indirettamente il verificarsi
si eventi tragici nelle nostre carceri. Il nuovo pacchetto sicurezza per
esempio contiene delle assolute incongruenze tra volontà di intervenire sulla
situazione carceraria e nuove richieste di pena con anni di detenzione dopo
regolare processo contro chi fa violenza contro pubblici ufficiali, chi opera
blocchi stradali per proteste, contro chi dovesse adottare forme di resistenza
passiva, o chi dovesse occupare abusivamente una casa ed altro. Mai si dovrebbe
indurre un essere umano, pur se ritenuto colpevole, a perdere la speranza di
poter vivere o sopravvivere. Nessuno deve morire in un carcere. Non può e non
deve accadere quello che è successo a Joussef Mokhtar Loka Baron, un ragazzo di
origini egiziane, morto incenerito a San Vittore a Milano nella sua cella, in
attesa di giudizio per rapina. Qual è la storia di Joussef? Alla età di quindici
anni era stato rinchiuso in un campo di detenzione in Libia. Era riuscito a
fuggire da quell’inferno e come tanti era salito su un barcone, ma pur portando
addosso i segni dei traumi subiti, ha dovuto fare la traversata legato, mani e
piedi, perché ritenuto pericoloso per sé e per gli altri, soffrendo di attacchi
schizofrenici. Era arrivato e sbarcato in Italia, senza conoscere una parola
della nostra lingua e senza sapere né leggere né scrivere. Arrestato una prima
volta per avere rubato una bottiglia di vodka, la seconda volta aveva
“rapinato” un cellulare ad una signora. A mezzanotte del 6 settembre scorso, il
materasso su cui dormiva ha preso fuoco, e si indaga su un atto di protesta del
suo compagno di cella. La domanda è: Youssef Mokhtar Loka Baron doveva morire
in carcere?
“Gravissimi disordini” si sono verificati nella serata nel
Carcere di Bari. “Alcuni detenuti –
comunica la Uilpa – di una sezione detentiva avrebbero sequestrato un’infermiera
e aggredito violentemente l’appartenente alla Polizia penitenziaria in servizio
che cercava di impedirlo. Nella stessa sezione pochi giorni fa un detenuto
aveva aggredito un agente”. Le condizioni nei penitenziari sono sempre più
sconvolgenti. Al momento in cui scrivo, già solo nel 2024, sono stati 71 i
detenuti che si sono suicidati, non contando i due che si sono lasciati morire,
ricusando di assumere il cibo. A questo dato, di per sé agghiacciante, si deve
sommare il suicidio di sei agenti della Polizia penitenziaria (dati al 16
luglio 2024). Chi entra in carcere, oltre a scontare la pena inflitta dalla
Giustizia (e con loro anche i detenuti in attesa di giudizio) è condannato a punizioni
non previste dai Codici di procedura penale: sovraffollamento in costruzioni
malridotte, con situazioni igieniche precarie, una assistenza sanitaria insufficiente,
così come quella importantissima psicologica. I detenuti che vogliono trarre
beneficio della riduzione della pena sono costretti a non protestare se, per le
cattive condizioni della rete idrica, l’acqua è marcia o puzza o se, per
perdite nelle condutture fatiscenti, la stessa acqua non arriva. E cosa poter
dire se nelle celle in estate si muore dal caldo o ci sono insetti (o altro) o
se si divide la cella con elementi violenti in cerca di soddisfazioni di natura
sessuale? I reclusi, quasi tutti in giovane età, completamente lasciati in una
tremenda solitudine, spesso con problemi psichiatrici, si impiccano, inspirano
il gas dei fornelli, o introducendo la testa in una busta di plastica chiusa
strettamente, soffocano. E non dobbiamo dimenticare che molti di loro
provengono dalla criminalità organizzata, che non ha finito di intervenire
nelle loro vite, solo perché in carcere. Lì si possono consumare omicidi,
regolamenti di conti, vendette. Il suicidio di chi è ristretto nelle carceri
italiane è una sconfitta della concezione della pena che uno Stato commina a un
essere umano anche se colpevole.
Né possiamo dimenticare tutta un’altra serie
di eventi che sono frequentissimi fra i carcerati: quelli legati
all’autolesionismo. Procurarsi lesioni traumatiche di ogni tipo è sempre
sintomo o di fasi disperate che si accusano durante la detenzione o forme
eclatanti di un reclamo di attenzione quando ci si sente completamente
dimenticati da tutti. E non è un caso che questi episodi di autolesionismo si
verifichino soprattutto nei detenuti in attesa di giudizio. Nella nostra società
grazie anche a particolari invocazioni di punire qualsiasi reato con la galera
si è creato un clima che favorisce direttamente e indirettamente il verificarsi
si eventi tragici nelle nostre carceri. Il nuovo pacchetto sicurezza per
esempio contiene delle assolute incongruenze tra volontà di intervenire sulla
situazione carceraria e nuove richieste di pena con anni di detenzione dopo
regolare processo contro chi fa violenza contro pubblici ufficiali, chi opera
blocchi stradali per proteste, contro chi dovesse adottare forme di resistenza
passiva, o chi dovesse occupare abusivamente una casa ed altro. Mai si dovrebbe
indurre un essere umano, pur se ritenuto colpevole, a perdere la speranza di
poter vivere o sopravvivere. Nessuno deve morire in un carcere. Non può e non
deve accadere quello che è successo a Joussef Mokhtar Loka Baron, un ragazzo di
origini egiziane, morto incenerito a San Vittore a Milano nella sua cella, in
attesa di giudizio per rapina. Qual è la storia di Joussef? Alla età di quindici
anni era stato rinchiuso in un campo di detenzione in Libia. Era riuscito a
fuggire da quell’inferno e come tanti era salito su un barcone, ma pur portando
addosso i segni dei traumi subiti, ha dovuto fare la traversata legato, mani e
piedi, perché ritenuto pericoloso per sé e per gli altri, soffrendo di attacchi
schizofrenici. Era arrivato e sbarcato in Italia, senza conoscere una parola
della nostra lingua e senza sapere né leggere né scrivere. Arrestato una prima
volta per avere rubato una bottiglia di vodka, la seconda volta aveva
“rapinato” un cellulare ad una signora. A mezzanotte del 6 settembre scorso, il
materasso su cui dormiva ha preso fuoco, e si indaga su un atto di protesta del
suo compagno di cella. La domanda è: Youssef Mokhtar Loka Baron doveva morire
in carcere?