L’arroganza
della governabilità
(rapsodia)
di
Giovanni Bianchi
Un’analisi ampia e
articolata che sfida altre intelligenze a interrogarsi
Lo spiazzamento
Sempre la premessa di un pezzo viene
scritta alla fine. Quelle che seguono sono infatti riflessioni intorno alle dinamiche che il
ballottaggio alle amministrative di metà giugno ha a mio avviso evidenziato, e che trovano un
punto di incontro e di sutura con le dinamiche, ben più vaste e coinvolgenti –
anche per i territori italiani – che la Brexit ha prodotto. Inoltre la rapsodia
è un genere che mal si concilia con gli sforzi di precisione analitica. Eppure
le difficoltà dell’indagine talvolta si combinano con gli scarti della stagione
politica: è in questi casi che l’errare dalla rapsodia può provare a combinarsi
con l’inconciliabile segmentazione degli eventi. Prendiamo dunque le mosse dal
voto britannico.
L‘antico
cuore nazionalista inglese ha dunque prevalso riesumando, con un voto
sicuramente popolare, la bandiera nostalgica e un passato dove la fierezza
insulare si è generalmente accompagnata all’isolazionismo rispetto al Continente.
Detto alle spicce: la politica ha battuto l’economia che, con la
globalizzazione, aumenta il Pil insieme alle disuguaglianze, ottiene il
consenso delle banche ma perde quello della povera gente. La globalizzazione
produce crescita ma anche disuguaglianze in termini esponenziali. A curarsi
delle periferie sono rimaste le città e gli Stati.
E
la gente, i peanuts si rivolgono alla
politica (ovviamente a una sua parte, quella populista, perché la politica
moderna è comunque divisa in fazioni) piuttosto che ai banchieri che fanno
politica. Cameron è caduto per questo: non ha capito la profondità del
cambiamento, la sua irruenza nostalgica; ha pensato di mediare credibilmente con
la sua posizione politica interessi oramai duramente contrapposti. Gli è
mancato cioè quel coraggio che nei confronti dell’Europa ebbe Helmut Kohl, che,
oltre ad aver visto giusto, perse le elezioni. Così, come ha osservato
impietosamente Mario Monti, Cameron è
entrato nei libri di storia per aver sfasciato insieme l’Europa e la Gran
Bretagna.
Ovviamente
si tratta di una lunga deriva, in un Paese che alle costituzioni ha preferito
la consuetudine. Le citazioni a questo punto si sprecano. Quella classica che
afferma che per gli inglesi la Manica è comunque più larga dell’Atlantico.
Quella esplicita di Churchill a De Gaulle: tra il “grande largo” e l’Europa
l’Inghilterra sceglierà sempre il “grande largo”…
Tutto
ciò rimanda con stupore alla diagnosi di Romano Prodi a “la Repubblica” di
mercoledì 22 giugno. Una diagnosi che vale insieme per un’interpretazione dei
ballottaggi elettorali delle città italiane e per una prospettiva nella quale
collocare gli esiti e gli effetti dell’uscita inglese. Davvero il mondo è
economicamente globalizzato. E per questo può presentare le medesime istanze
sociali e le stesse ipotesi politiche.
Indubbiamente
nei due casi si tratta di un voto (atteso o inatteso non importa) di cambiamento. La cosa da mettere
all’ordine del giorno è che anche il cambiamento può cambiare così come cambia
il vento, la velocità dei tempi della politica, il bisogno e il senso della
rottamazioni. Per questo non ho mutato le considerazioni già stese sul voto dei
ballottaggi dopo l’esito del leave
inglese: quelle valutazioni valgono per la gran parte su entrambi i piani. Per
questo alla fine del pezzo, proverò a sovrapporre le due circostanze alle due
prospettive: è sempre la quotidianità
della vita dei cittadini che intende imporre le proprie ragioni (lucidamente o
rozzamente), le istanze, le sofferenze e le rabbie del proprio gioco rispetto
ai grandi giochi della politica istituzionale. Capirlo e tenerne conto è
comunque segno di politica realistica e pensosa.
Uno sguardo contemplativo
Sembra
senz’altro ironico (anche a me) affrontare questa fase convulsa della
transizione politica italiana proponendo l’opportunità di uno sguardo
contemplativo. Tutto congiura, soprattutto in politica e in economia, contro un
atteggiamento distaccato, nel senso anche più preciso di non interessato. Tutto
è invece piegato a un interesse, percepito come tale perfino quando ha cessato
di esserlo realmente. Tutto congiura contro la contemplazione e la irride.
La
corsa anzitutto alla governabilità dei sistemi è figlia anche di questo istinto
e di questa spinta universale, ancorché indotta da sopra e da fuori. Solo
l’interesse, anche come punto di vista generale, ha finito per acquisire
dignità di luogo di osservazione. Derubricando tutti gli altri punti di vista a
non-luoghi.
A
prima vista potrebbe sembrare un omaggio tardivo alla effettualità di Niccolò Machiavelli. Dimenticando che il segretario
fiorentino guardava alle condizioni e alle decisioni cruente del suo tempo con
lo sguardo di chi è primariamente interessato a capire. La diagnosi perciò non
può essere troppo partigiana, perché cessa di essere diagnosi e finirà per non
servire a chi ne è portatore.
Voglio
anche dire che questo elogio della contemplazione e dello sguardo contemplativo
è solo involontariamente frutto dell’ironia. Non sto cioè facendo l’elogio
della contemplazione così come Erasmo faceva quello della follia. Mi è costato
un lungo e accidentato percorso il raggiungere questo luogo di osservazione.
L’enigma dei nuovi lavori
Tra
le circostanze che più mi ci hanno sospinto è la diagnosi della realtà e delle
motivazioni che oggi si concentrano intorno al lavoro. Nessun tema più concreto
worldwide. La stessa ipotesi
generalizzata di un reddito di cittadinanza, che riempia l’abisso generazionale
della mancanza di lavoro, in fondo
prende le mosse dalla persistente centralità del lavoro, non soltanto come uno
dei due assi fondamentali della costruzione della personalità del cittadino
(insieme allo status), ma anche in quanto colla, fin qui risultata indispensabile
nel moderno e nel postmoderno, dell’intero tessuto sociale.
In
fondo perfino il prete e il monaco sono ricondotti dal rapporto
vocazione-professione a una loro particolare centralità del lavoro. Basta anche
uno sguardo non spocchioso, ma attento al quotidiano, alla realtà metropolitana
che ci circonda. Quanto lavoro svolgono gli anziani gratuitamente? Non è solo
per riempire il tempo, non è solo un modo per sfuggire ai giardinetti, ma un
modo per esercitare una funzione educativa all’interno della famiglia parentale
e degli organismi deputati all’accoglienza degli immigrati.
Quanto
è esteso questo tipo di lavoro che risulta sommerso
per gli indici economici e per il Pil? Riuscirebbe questa società, non più
affluente e tutta attraversata dall’istinto del guadagno e della carriera, a
sopravvivere senza il lavoro gratuito di chi è finito fuori dalla produzione
remunerata? Un interrogativo che si annida fin dal 1968 nel pezzo migliore
della retorica politica del secolo scorso: il discorso sul Pil americano di Bob
Kennedy alla Kansas University.
Diciamo
pure che il tema persiste sotto traccia e che soprattutto nessuno s’è dato cura
veramente di rintracciarne gli indicatori economici. (È forse bene così.) Resta
il fatto che senza elementi cospicui di gratuità all’interno del suo tessuto
socio-economico la società del turbocapitalismo non riuscirebbe a sopravvivere.
Ma
i suoi corifei ignorano il problema, anche perché finirebbe per metterne in
crisi le ricette ed anche la fede nei propri principi. Di solo Milton Friedman
non si campa. E aggiungo subito che è mia intenzione tenermi il più lontano
possibile dal buonismo dalle ong. Per
due ragioni: anzitutto perché quel tipo di buonismo è rapidamente sfociato
nella ricerca, insieme plausibile e insieme pericolosa, di una nuova “economia
mista” dove la remunerazione e la circolazione del danaro – talvolta abbondante
– diventano insieme lo sbocco agognato e la laguna nella quale gettare le reti
per pescare, con coscienza tranquilla e soddisfatta, pesci piccoli e pesci
grossi. “Mafia capitale” e pratiche similari nascono e prosperano a Roma sulle
rive del lago Campidoglio e del lago Vaticano.
In
secondo luogo perché mi soccorre, come sempre, e come più volte ripetuto, il
mantra di Giancarlo Brasca: “Vedi
Giovanni, un malvagio lo puoi convertire, ma a uno stupido cosa gli fai”? E
se i danni peggiori li fanno gli stupidi (che, al contrario dei malvagi, non
possono essere convertiti) è giocoforza tenersi lontani dalla bontà cogliona…
Ma
torniamo al lavoro, alla sua persistente centralità, al suo esercizio in larghe
fasce della società postindustriale, senza remunerazione, ma con soddisfazione
e persistente senso del dovere. Forse non lo diranno mai: ma torme di
pensionati, indipendentemente dalle loro radici ideologiche, pensano che
continui ad esistere un diritto alla pensione, ma non a vivere da pensionati. I
nuovi lavori, la loro assenza, la radice profonda di una precarietà che dai
luoghi della produzione si è trasferita nel centro delle antropologie,
soprattutto giovanili, pongono comunque il tema.
Un
tema che uno sguardo contemplativo si azzarda a pensare che possa essere
affrontato anche da una prospettiva di gratuità e disinteresse. Un approccio
che vale anche per le politiche correnti, sempre da considerare nel loro
complesso e nella loro discorde coralità, e molto meno a partire dai leaders,
per i quali più valgono le categorie del tifo sportivo che quelle del consenso.
I ballottaggi di metà
giugno
Tutti
i ragionamenti sopra impostati valgono a maggior ragione per le politiche in
atto, lungo tutto quello che un tempo veniva definito “l’arco costituzionale”,
e che oggi è l’arena rissosa dove le recite politiche di un populismo onnivoro
si esercitano, fino a cannibalizzare (più presto di quanto questi s’aspettino)
i propri campioni. E infatti la cosa che ogni volta più mi sorprende è notare
come i diversi esponenti del credo rottamatorio (tutti e sotto tutte le
bandiere) non sospettino che – grazie anche alla velocità dei tempi da essi
interpretata ed introdotta - giungerà molto presto il tempo di rottamare i
rottamatori. Insomma, di rottamazione si vive, ma anche di rottamazione si
muore: sempre più presto di quanto tu abbia preventivato.
Non
è la disaffezione dei cittadini o la proverbiale mancata riconoscenza dei
governati (o forse non solo questo): si tratta piuttosto della velocità di
caduta di queste politiche in senso aggressivo e ricostruttivo, ma anche nel
senso della propria inevitabile obsolescenza. Ha ragione ancora una volta
Toynbee: le culture e le organizzazioni si suicidano. Un processo e un trend
che, oltre che nel senso, chiede ogni volta di essere valutato nei dettagli.
La
fase e il cambiamento evocati da tutti i competitors – sia quelli che hanno
vinto le ultime elezioni amministrative come quelli che hanno perso – chiedono
quindi di essere valutati nei diversi aspetti costituenti, là dove più si
esercitano le scuole di pensiero, gli ottimismi e le paure, l’acutezza e la
refrattarietà, e perfino l’eleganza e il kitsch.
Tutti
d’accordo dunque sul cambiamento. Ma
quale, e a partire da dove e per dove approdare? Con tutto il complicatissimo
problema delle fasi intermedie per raggiungere la nuova meta, dove oltre agli
esercizi d’intelligenza e di stile, le passioni, anche quelle meno encomiabili,
hanno finalmente modo di esercitarsi.
Tra
le diagnosi più coinvolgenti e chiarificatrici metterei al primo posto
l’intervista rilasciata dall’ex premier Romano Prodi a “la Repubblica” di
mercoledì 22 giugno:
“Non basta guardare il voto
di questa o di quella città. C’è un’ondata mondiale, partita in Francia, ora in
America. Lo chiamano populismo perché pur nell’indecifrabilità delle soluzioni
interpreta un problema centrale della gente nel mondo contemporaneo:
l’insicurezza economica, la paura sociale e identitaria… La paura di non
farcela è tremenda ma non immaginaria. La chiami iniqua distribuzione del
reddito, ma per capirci è ingiustizia crescente… Nel senso più ampio possibile,
chiunque avesse una sicurezza anche modesta sulla propria vecchiaia e sul
futuro dei figli. Ma il pensionato che diceva orgoglioso: “io non ce l’ho
fatta, ma mio figlio è laureato”, ora non lo dice più. L’ascensore sociale si è
bloccato a metà piano e dentro si soffoca… La disonestà pubblica peggiora le
cose, ma la radice è la diseguaglianza. Ci siamo illusi che la gente si
rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in
meno, una coda più lunga… Ma alla fine la mancanza di tutela nel bisogno
scatena un fortissimo senso di ingiustizia e paura che porta verso forze capaci
di predicare un generico cambiamento radicale”. Niente da aggiungere.
Tornano le città
L’analisi
del voto di metà giugno nelle principali città conferma la diagnosi di Prodi,
indica il perché dei risultati e può additare le vie di sortita che un
elettorato disorientato e arrabbiato ha pensato di segnalare.
Tornano
cioè le città. E’ rimesso in campo il loro ruolo di comunità coese che provano
a cercare migliori condizioni di vita. Un trend riconoscibile da chi si è messo
alla sequela di Sturzo e ha letto ed apprezzato Giorgio La Pira, per il quale
appunto “le città sono vive” e in grado di contribuire a dare una risposta alle
“attese della povera gente”. Le città cioè si collocano in questa fase in un
punto ortogonale e correttivo rispetto all’arroganza della governabilità, che
meglio pensa di esercitarsi accentrando le risorse e le decisioni. Le città si
ostinano a pensare che democrazia e governabilità non siano soltanto in
contrapposizione, ma che anzi, in taluni frangenti, la democrazia delle città
risulti la via più spedita ed efficace dentro il percorso complessivo della
governabilità.
Quello
che è stato definito il “renzismo” subisce qui la critica più radicale ed
estesa. Le ragioni della democrazia (dal basso) contestano l’accentramento
delle decisioni e degli interventi, cui si accompagna la disseminazione di
quelli che si usa definire “cerchi magici” degli amici.
Per
questo Piero Fassino perde Torino, pur avendo amministrato dignitosamente: per
essersi collocato dalla parte di chi propone una governabilità determinata ad
“asfaltare” le autonomie locali. Ho intravisto un riconoscimento di questa
sindrome nelle dichiarazioni rilasciate dopo il voto dalla Appendino. Unica tra
i sindaci neoeletti, la vincitrice di Torino ha ringraziato Fassino e le
amministrazioni precedenti.
Ma
c’è di più da mettere nel conto della comprensione. Le nuove generazioni
torinesi ignorano le fatiche degli amministratori dei decenni alle loro spalle,
quelle fatiche popolari che hanno consentito alla capitale piemontese di
superare l’austerità e una certa tetraggine del fordismo made in Agnelli. Per loro Torino è quella bella città che si è
rinnovata dopo i giochi invernali e i centocinquant’anni dell’unità d’Italia e
che ai loro occhi pare da sempre essere stata così: quella che gli immigrati
del dopoguerra dal Mezzogiorno cantavano sui treni, accompagnati dalla valigia
di cartone: “Torino Torino, la bella
città, si mangia si beve e bene si sta”!
È
svanito da tempo il ricordo del movimento, a ondate successive, dei sindaci. Ma
in tempo di governabilità accentuata, apicale e romana, tornare alle città può
anche presupporre un ripensamento, la ricerca di laboratori e di una democrazia
che cessi di eliminare la partecipazione dal basso. (Paulo Freire non sarebbe scontento.)
I
risultati elettorali dicono – da Nord a Sud, passando vistosamente per le
regioni centrali – che ha perso una
visione della governabilità apicale e accentrata, che s’è intestata il nuovo
corso della governabilità tout court. Torno ogni volta con la mente al convegno
della Trilaterale a Okinawa di metà anni Settanta. E ricordo anzitutto a me
stesso che una democrazia senza governabilità perisce, ma che il massimo della
governabilità coincide con il minimo della democrazia.
Dunque
i ballottaggi di domenica 19 giugno li ha persi questa direzione governativa, o
meglio, quello che Ilvo Diamanti ha da tempo battezzato il partito democratico
di Renzi: PDR. Anche a Milano, dove Sala
ce l’ha fatta sottraendosi negli ultimi quindici giorni alle ingombranti
benedizioni del premier, che lo affondavano, riuscendo a tagliare primo il
traguardo grazie alla spinta residua e al soccorso rosso di Giuliano Pisapia e della sinistra considerata radicale. Questo
ha pesato in maniera decisiva rispetto al vento calato di una Expo riuscita.
Due
considerazioni riassuntive dunque: la diagnosi puntuale di Romano Prodi dice
che il Paese attende le riforme, che le nuove generazioni, insieme ai vecchi in
difficoltà e sulla soglia della povertà, le esigono: ma le riforme necessarie
sono quelle sociali, quelle cioè che riguardano anzitutto la vita quotidiana e
il lavoro. Le riforme istituzionali sono state lette come un passo obbligato
verso quelle sociali. Ma se di queste ultime non si fa parola e se le riforme
istituzionali sembrano essere non propedeutiche ma alternative alle stesse
riforme sociali, i ceti poveri e popolari – gli inquilini delle periferie – si
mettono di traverso e cercano altrove la soluzione.
Il
Renzi rottamatore si presentò come colui che rompeva gli indugi delle camarille
e dei cacicchi governativi che lo avevano preceduto. Sul piano sociale giocò
con molta abilità la carta degli 80 euro in busta paga. Gli 80 euro hanno funzionato
in parte, e con qualche ritorno negativo. Di essi è rimasta nella memoria piuttosto
la tempestività elettorale che l’efficacia sui bilanci familiari.
Così
la domanda di riforme sociali è rimasta drammaticamente urgente, e si è fatta
in particolare sentire nelle periferie delle grandi città. (L’uomo dell’Expo
Giuseppe Sala, ben consigliato e pressato nell’imminenza del ballottaggio,
indica come centrale nel proprio programma amministrativo finale proprio il
ruolo delle periferie. Cosa che depone a vantaggio delle sue capacità politiche
rispetto all’indubbio curriculum di manager.)
Le
città, grandi o piccole non importa, fanno causa comune con le attese della
povera gente. Riscoprono così un’antica vocazione per la quale il Comune, nella
visione di Sturzo come in quella di Filippo Turati, si salda direttamente e
rappresenta la questione sociale. Insomma, l’ultimo voto amministrativo è
attraversato dalla disaffezione, che è anche ovviamente disaffezione rispetto
alla democrazia, alle sue urne (il livello dell’astensionismo non accenna a
scendere consistentemente), alle scadenze, ai riti, ma si salda anche con una
nuova e forse non smessa attitudine al municipalismo.
L’Italia
profonda e le sue radici storiche sono anche questo. (Anche Giorgio La Pira lo
immagino agitarsi felice e vaticinante nel circolo di non so quale comunione
dei santi.)
M5S
La
spinta generale si è nel frattempo fatta più collettiva e meno
individualistica. Grillo sarà pure un comico, ma indubbiamente dotato di un tempismo
tattico che ben si sposa con l’abitudine alle scene. Infatti, nell’imminenza
delle elezioni amministrative, ha provveduto a fare un passo indietro – loro
dicono pudicamente “di lato” – presentando agli italiani il volto di giovani
donne in carriera piuttosto che la propria maschera ingrigita. E infatti la
politica dello spettacolo continuerà comunque ad accompagnare le nostre incerte
giornate.
E’
ovvio che il PDR non può rappresentare tutte le spinte, al di là del
presentarsi come partito della nazione, capitalizzando il tutto e il contrario
di tutto. O la centralizzazione, o la partecipazione dal basso. Enfatizzare
insieme e contemporaneamente l’uno e l’altro polo non è consentito a nessuno.
Questa deriva, che ha origini lontane rintracciabili nel veltroniano “partito a
vocazione maggioritaria”, si è accompagnata a due fenomeni che hanno da ultimo
attraversato i rapporti con l’esterno del partito così come quelli interni al
partito, raccogliendosi intorno a uno slogan sintetico, e a mio giudizio sbagliato
e pernicioso: non c’è alternativa.
A
pensarci bene è il famoso Dina della
signora Tathcher. Una brutta traduzione laica dell’abbaglio e della furbata
clericale che vide in Mussolini “l’uomo della provvidenza”. Un modo interno per
scoraggiare gli avversari e un modo esterno per demonizzare i nemici. A mio
avviso una modalità per avvelenare pozzi. Con il fatto increscioso che
l’avvelenamento dei pozzi non risulta un processo selettivo: nel senso che a
quell’acqua avvelenata potranno prima o poi abbeverarsi anche i tuoi.
Oggi
assistiamo a un procedimento capovolto da parte dei media nei confronti degli
ex grillini. C’è una corsa a intervistare ed accreditare gli esponenti dei Cinque
Stelle. Così pure Matteo Salvini è stato piuttosto demonizzato che smontato
nelle sue argomentazioni. Possibile che tra tante sciocchezze aggressive non si
trovi anche in lui una volta, per sbaglio, un elemento che si approssimi alla
verità? In effetti il problema non è quanto Salvini ci prenda, ma perché la
gente lo voti. E al politico suo antagonista (non nemico) deve importare di più
sottrargli voti convincendo i suoi adepti, che convertire Matteo Salvini…
Il
processo naturalmente è dilagato anche all’interno del PD, demotivando i
competitors e interessandosi piuttosto alle loro defaillances che alle loro
ragioni. Non c’è alternativa: un
mantra sbagliato e alla lunga antidemocratico. Anche perché la rapidità dei
tempi sottesi alla rottamazione è prevedibile che obblighi prima o poi a porsi
una domanda circa l’esigenza di rottamare i rottamatori o i loro programmi; e
se tu non ci hai pensato, l’elettore andrà a cercare la soluzione presso
un’altra agenzia politica.
Detto
in maniera meno congiunturale: la ricerca dell’alternativa è fatto costitutivo
della vita democratica interna a un partito. Ricerca anzitutto di programmi
alternativi. L’averlo dimenticato rende
asfittica la vita democratica interna al partito. E qui non conta proprio la
bravura e l’ammirazione per il leader. La ricerca dell’alternativa è modalità
costitutiva di un partito democratico. Se il processo si inceppa, l’elettore
scontento si rivolgerà ad un altro forno politico. Non forse per convinzione, e
neppure perché pensi che sicuramente l’altro forno sia in grado di soddisfare
le sue esigenze, ma perché questa è la logica della competizione democratica.
Se non avviene dentro i confini della tua organizzazione, l’elettore si sente
legittimato a cercare altrove.
Mi
sono ulteriormente convinto di questa dinamica leggendo il meglio degli
articoli di “Cronache Sociali”, la
rivista dei dossettiani, raccolti in due volumi.
Il recupero
È
infatti merito non semplicemente editoriale di Gian Luigi Capurso l’essersi
cimentato con un’opera di recupero non soltanto di Dossetti, ma anche del
dossettismo, inteso come corpus di pensiero politico che, nella sua coerenza e
nelle molteplici sfaccettature, ha coinvolto la cerchia dei “professorini”: da
Giuseppe Lazzati ad Aldo Moro, a Giorgio La Pira, ad Amintore Fanfani, ad
Achille Ardigò, a Giuseppe Glisenti…
L’operazione
è riuscita – anche dal punto di vista estetico – e presenta una scelta degli articoli apparsi in “Cronache Sociali” dal 1947 al 1948
(vol. I) e dal 1948 al 1951 (vol. II). La prefazione di Giuseppe Sangiorgi
riesce nella difficile impresa di restituirci un Dossetti ricollocato nel suo
tempo, anche grazie ad un qualche scandaglio prima non effettuato, od effettuato
con un diverso orientamento. Sia Capurso come Sangiorgi hanno il vantaggio
politico di rivolgersi al deposito dossettiano sotto l’urgenza degli
interrogativi che la transizione infinita va ponendo oramai da troppi anni,
senza potersi ancora confrontare con una sortita in qualche modo prevedibile.
È
altresì merito dei due volumi la rivalutazione del ruolo non soltanto profetico
svolto da La Pira all’interno del gruppo e intorno al tema centrale del lavoro,
rieditando i tre articoli apparsi su “Cronache
Sociali” e in seguito raccolti nell’opuscolo L’attesa della povera gente. Perché la
sequenza degli articoli così come si evince dai numeri della rivista meglio
mostra l’uso incredibile che La Pira riesce a fare di scienze economiche
(Keynes) e giuridiche, parabole e versetti del Vangelo intorno a una teoria
esposta con modalità ad un tempo cristallina e popolare: visto che il sistema
socio-economico del Paese i disoccupati li deve comunque mantenere, sarà saggio trovargli un lavoro dignitoso… Tutto
ciò serve da orizzonte per l’individuazione di un punto di vista costitutivo di
un approccio “attuale” alle politiche in corso.
La
prima circostanza che balza agli occhi in maniera sorprendente è che la
compagine dossettiana appare comunque impegnata a trovare ogni volta
un’alternativa al programma, ai personaggi e al quadro delle decisioni
prospettate.
Un
modo dinamico di concepire e praticare una democrazia partitica capace di
pensiero e di ascolto, perché il problema non è tanto costituito dall’eventuale
durezza delle posizioni degli avversari, quanto piuttosto dalle ragioni per le
quali i cittadini si affidano a quelle diagnosi e agli slogan conseguenti.
Insomma è parte integrante della visione dei dossettiani la convinzione che
l’assenza di “ascolto”, di critica e di sollecitazione riduca le possibilità di
allargare il consenso e di conseguire una autentica vittoria democratica.
È
sufficiente rileggere l’intervento di Giuseppe Glisenti, il direttore della
rivista, su L’attentato a Togliatti, il Governo
e il Paese, del luglio 1948, per rendersi conto di come il gruppo
dossettiano conoscesse e fosse attento alle ragioni (e alle intenzioni) degli
altri. Ragioni considerate con lungimirante capacità di soppesarne gli esiti
generali, a partire da una valutazione per la quale “sono stati invece i
singoli comunisti, con cariche e senza cariche, che valutando con fantasia
mediterranea l’opportunità degli avvenimenti, hanno suonato la campana a
martello dell’insurrezione”; mentre invece – si noti quanto l’ironia (“fantasia mediterranea”) aiuti il
realismo dell’analisi – “chi ha vissuto gli avvenimenti a Roma, meglio di chi
li ha osservati nella loro violenza locale, senza notizie degli altri settori,
e senza fiutare l’atmosfera sintetica che è propria della Capitale, ha avuto la
certezza che nessuno, alla Direzione Centrale del Pci, neppure per un momento
ha sperato che l’azione disorganizzata e tumultuosa della base potesse giungere
alla conquista del potere o anche solo al rovesciamento del Governo”.
Il
tutto viene sintetizzato con mirabile lucidità una quindicina di pagine più
avanti da Gianni Baget-Bozzo che così legge natura e destino dei comunisti
italiani: “Tutto questo mostra che se la formula di democrazia progressiva, di
alleanza di tutte le classi lavoratrici, intuita dai dirigenti comunisti, è
politicamente esatta, non è però stata concretata da essi come formula
politica, ma come mera formula organizzativa ed elettorale”. La migliore
apologia, addirittura un monumento, per la politica preceduta dall’ascolto e
dal pensiero.
E vale la pena ripetere che il problema non è
demonizzare il leader concorrente e antagonista, ma intendere e interpretate le
ragioni di quelli che lo votano. Quanto lontani questo metodo e questi giudizi
dalla politica del surf (l’espressione
è delle giovani sociologhe americane) che riempie i talk show mentre svuota le urne elettorali.
Crucialità del partito
Centrale
l’attenzione allo strumento partito. Non sembrano lontani i dossettiani dalla
visione togliattiana che pensava allo Stato della Repubblica come fondato sui
partiti popolari e di massa.
Non
a caso il primo volume di La passione e
il disincanto si apre con un prologo costituito da due articoli a firma Demofilo, pseudonimo di Alcide De
Gasperi, comparsi sul “Popolo” clandestino il 28 novembre e il 12 dicembre
1943. In essi De Gasperi così sintetizza il proprio pensiero, premettendo che
per un partito esiste pure un problema di distinzioni e di limiti.
“Il
partito è uno strumento organizzativo atto a fungere su di un solo settore
della nostra comunità nazionale, quello dello Stato. E come per noi pluralisti
(nel senso di Maritain e di Sturzo) lo Stato è l’organizzazione politica della
società, ma non tutta la società, così partito è un organismo limitato che
l’occhio non deve proporsi di tutto rifare e riordinare in tutti i campi, ma
presuppone che altri organismi sociali agiscano nello stesso tempo e nello
stesso spazio su diversi piani, al di fuori e al di sopra, come la società
religiosa, cioè la Chiesa con le sue forze spirituali e organizzative, e al di
sotto come le società scientifiche-culturali e le società economiche con le
loro autonomie e con le loro leggi. Ecco perché, a differenza di chi nello
Stato vede un mito che assomma, sostituisce e incentra tutte le fedi e tutte le
forze sociali, noi, in funzione politica, non ci presentiamo come promotori
integralisti di una palingenesi universale, ma come portatori di una propria
responsabilità specifica, determinata non solo dal nostro programma ideale, ma
anche limitata dall’ambiente di convivenza in cui esso deve venire attuato”.
A
fare ancora una volta il punto è Gianni Baget-Bozzo: “Abbiamo visto che l’unico
mezzo per inserire le masse d’ordine nella democrazia è l’abituarle alla
partecipazione politica attraverso la piena funzionalità dei partiti. Resta a
vedere quali possibilità storiche offra questa nostra soluzione nel quadro
della situazione determinatasi dopo le elezioni politiche”.
Una critica insonne
Nulla
sfugge alla critica insonne del gruppo dossettiano. C’è anzi il gusto di
confrontarsi con i problemi più spinosi che le convenienze stringenti della
guerra fredda suggerirebbero di sottacere. È il caso dell’articolo su Il patto Atlantico come strumento bivalente
di progresso o di conservazione, di pace o di guerra, con il quale un
giovane Achille Ardigò non teme di confrontarsi con la durezza di una
contrapposizione che ha assunto i toni della lotta di civiltà.
Scrive
senza patemi l’Ardigò: “La crisi della democrazia parlamentare si è rivelata
pertanto ancora una volta gravissima, anche se nelle forme la democrazia
parlamentare è più avanzata oggi che nel periodo giolittiano. La questione del
patto Atlantico, decisamente risolta dall’esecutivo, è ormai divenuta, per
l’improvviso gravare sull’opinione pubblica delle sollecitazioni apodittiche
dell’opposizione e del governo, un’altra pietra dura di paragone fra comunisti
ed anticomunisti tout court”.
Perché
una politica, anche attenta ai vincoli e alle tattiche, non può venir meno
dall’obbligo di guardare ogni volta con lungimiranza strategica, o almeno di
provarci. E del resto proprio il voto sul Patto Atlantico aveva visto il leader
esprimersi in maniera differente in commissione e poi in aula.
Una
raccolta e una selezione questa degli articoli di “Cronache Sociali” che si legge dunque con l’attenzione di chi
entra in un cantiere dove la cultura politica appronta i suoi strumenti, ivi
compresi quelli decisionali e quelli che selezionano la classe dirigente. Una
modalità ereditata da Sturzo che fu insieme pensatore instancabile e frenetico
organizzatore.
Non
c’è soltanto grande attenzione rispetto alla partecipazione popolare: c’è
l’organizzazione del cervello e della macchina del partito popolare di massa in
vista della sua capacità di consistere e di contrattare con gli altri poteri.
Anche il partito degasperiano, il partito dossettiano e nel suo articolato
complesso la Democrazia Cristiana intendono vincere. (Anche per essi la
politica non somiglia alle Olimpiadi e la loro missione non è quella di de
Coubertin.)
Ma
proprio per questo il partito prepara, medita, discute e propone un programma
(per Sturzo il partito è il
programma), fa conoscere e propaganda le proprie ragioni; per questo si
attrezza autonomamente per farle valere.
Perché
il partito – il partito dossettiano, come quello degasperiano e come quello
sturziano – è questo: autonomia tra le autonomie. Una autonomia continuamente
ricaricata nei legami pensosi con una base sociale attiva, e che Dossetti
rivendicherà fino all’ultimo come propria missione, nel quasi-testamento della
conversazione con il clero di Pordenone (13 marzo 1994).
Un’attitudine
e un compito da non dimenticare, anzi, da ricaricare e rilanciare (sia pure in
forme nuove ed inedite) nel momento in cui, realizzando la profezia del 1920 di
Walter Benjamin, il capitalismo si dispiega quotidianamente come la religione
del mondo globalizzato dal capitale finanziario e dalle sue lobby.
Un
pensiero più acuto e più frequentato rischia di essere nella fase che
attraversiamo lo strumento teorico, ma anche pratico, più necessario alla
politica che latita. Perché l’interpretazione del vento del cambiamento è
comunque segno di una politica attenta ai cittadini.
E
interpretare il cambiamento significa cogliere in questa fase storica
soprattutto due cose: che la quotidianità della vita dei cittadini, in
particolare nelle periferie, intende fare premio su tutto il resto: nuove
narrazioni e residui di vecchie ideologie comprese. La seconda cosa riconduce a
una dinamica ineliminabile ed interna delle democrazie: la costante ricerca di
un’alternativa, che parte dai programmi e può coinvolgere le persone. Tenerne
conto è esercizio di realismo che rende irrisorio oltre che inattuale il
confine tra destra e sinistra.
La
buona notizia è che la democrazia e le sue dinamiche sopravvivono al crollo
delle posizioni di destra e di sinistra. Può morire la socialdemocrazia. Resta
da fare tutto il possibile, fino alla respirazione bocca a bocca, per tenere in
vita queste nostre democrazie e quel che ne resta. Perché quello che ci stiamo
giocando è il destino delle nostre democrazie partitiche, dal momento che non
si conosce al mondo democrazia senza partiti. Non necessariamente quelli di
massa e ideologici che ci stanno alle spalle, ma partiti comunque sì, anche con
un nome diverso e un funzionamento tutto da scoprire. Non certamente i vecchi
partiti, ma strumenti in grado di colmare la distanza tra la società civile e
le istituzioni, di organizzare le culture politiche e selezionare le classi
dirigenti.