SOLŽENICYN E LA CENSURA SOVIETICA
di Giovanni Antonucci
Tutta
la letteratura dell'Unione Sovietica è finita nella mannaia della censura fin
dai tempi di Lenin. Con Stalin la situazione diventò ancora più pesante per
ogni vero scrittore. Nessuno sfuggì a un potere totalitario che combatteva
prima di tutto la cultura libera e degna di questo nome. La letteratura, dalla
rivoluzione alla scomparsa di Stalin, è un campo di morte: torture,
fucilazioni, gulag, suicidi. Sono rarissimi gli scrittori russi sfuggiti a
questa condizione. Bulgakov, il più grande di tutti, si è salvato, nonostante
la censura si sia accanita contro di lui, solo perché è morto di malattia a 49
anni. Zamjatin è sfuggito all'inevitabile condanna a morte solo perché nel 1932
ebbe la possibilità, grazie all'intervento di Gorkij, di trasferirsi a Parigi,
dove poté finalmente pubblicare il suo capolavoro: Noi, che ha anticipato i romanzi di Huxley e di Orwell
sul totalitarismo. Gli altri grandi scrittori dell'epoca ebbero un terribile destino. Isaak Babel fu fucilato
nel 1937, Danil Charms morì in una clinica psichiatrica dopo essere stato
arrestato e torturato, Marina Cvetaeva morì suicida dopo che le avevano
fucilato il marito. Il raffinato poeta simbolista Nikolaj Gumilev fu
giustiziato “per attività controrivoluzionaria” nel 1921, ai tempi di Lenin,
Majakovskij, il cantore della rivoluzione sovietica, si suicidò nel 1930, il
grande poeta Osip Mandelštam fu arrestato nel
1938 e morì in un gulag, Andrej Platonov
fu arrestato e confinato in un lager durante le purghe staliniane, Boris
Pilnjak fu ucciso nel 1937, Varlam Šalamov,
l'autore del massimo capolavoro insieme a Arcipelago Gulag sull'universo
dei gulag: I racconti di Kolyma, fu imprigionato e inviato nei gulag di Kolyma, dove i detenuti lavoravano a
temperature di quaranta gradi sotto zero allo sfruttamento dei giacimenti
auriferi. Michail Zoščenko, le cui opere
furono condannate per calunnia del potere sovietico, venne espulso dall'Unione
degli Scrittori e costretto al silenzio.
La generazione
post-staliniana non ha avuto una sorte migliore, anche se gli scrittori, pur
arrestati, confinati nei gulag e nelle cliniche psichiatriche, sono quasi tutti
sfuggiti alla morte fisica. Solo a ricordare i nomi più significativi, Boris
Pasternak fu espulso dall'Unione degli Scrittori e costretto a rinunciare al
Premio Nobel per aver fatto pubblicare in Italia Il dottor Zivago. Lo
storico e drammaturgo Andrej Amalrik fu arrestato “per parassitismo” e
deportato in Siberia nel 1965.Arrestato un'altra volta, fu condannato a tre
anni di gulag e a tre di esilio finché riuscì ad emigrare in Spagna. Josif
Brodskij, il maggiore poeta della seconda metà del Novecento, Premio Nobel nel
198, pubblicò come tutti suoi colleghi dissidenti le sue opere in samizdat, ma
fu arrestato per parassitismo e condannato a cinque anni di lavori forzati.
Espulso dall'Unione degli Scrittori nel 1972, si stabilì in USA. Vla dimir
Bukovskij, scrittore di talento, ha passato dodici anni fra gulag e cliniche
psichiatriche, prima di potersi trasferire in Inghilterra. Yurij Daniel e
Andrej Sinjavskij furono condannati nel 1966 a sette anni di lavori forzati, in
un processo che ebbe grande eco
internazionale. Yuri Galanskov, poeta e membro del movimento per i diritti
civili, fu condannato nel 1968 a sette anni di lavori forzati e in un gulag è
morto a soli 33 anni. Aleksandr Galič,
poeta drammaturgo e cantautore, è stato costretto all'esilio nel 1974,
Alexsandr Ginzburg fu arrestato per la
seconda volta nel 1968 per aver compilato un libro bianco sul processo Daniel -
Sinjavskij. Vasilij Grossman non ha mai potuto vedere pubblicato il suo
capolavoro Vita e destino, confiscato dal KGB ed edito oltre
vent'anni dopo la sua morte.
Vladimir Maksimov, l'autore de I
sette giorni della creazione, è
stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico prima di poter emigrare a Parigi. Alexsandr Zinoviev, autore
di un capolavoro come Cime abissali, oltre che di libri satirici come
Katastrojka e Il gorbaciovismo, scrittore che ho avuto la
fortuna di conoscere al Salone del libro di Torino, fu espulso dall'Unione
Sovietica per aver pubblicato il suo capolavoro all'estero (1).
E' impossibile parlare di Alexsandr Solženicyn senza fare riferimento alla condizione di tutti
gli scrittori vissuti in un paese totalitario dove non c'era alcuna possibilità
di esprimersi senza essere oggetto di una censura che conduceva alla pena di
morte, al gulag e agli ospedali psichiatrici. Solženicyn, in tutta la sua opera, da Una giornata di Ivan Denisovič a Arcipelago Gulag, ha rappresentato il
destino terribile non solo degli scrittori, ma di tutto un popolo, reso schiavo
da un'ideologia che ha fatto nel mondo comunista oltre cento milioni di morti,
come ha documentato inoppugnabilmente Il libro nero del comunismo.
L'autobiografia (2) di
Solženicyn, scritta nel 1965 quando il regime aveva
cominciato non solo a impedirgli di pubblicare, ma anche a requisire il suo
archivio frutto di anni di lavoro, è un documento agghiacciante della
condizione di tutti i cittadini sotto il regime comunista. Eroico combattente
contro i tedeschi, decorato degli ordini della Guerra patriottica e della Stella Rossa, fu arrestato vicino a Könisberg nel febbraio del 1945 “in base a brani censurati della
corrispondenza” -racconta lo scrittore- “che tenevo con un mio compagno di scuola nel 1944-45, e soprattutto per
una frase irriverente nei confronti di Stalin, sebbene noi lo ricordassimo sempre sotto pseudonimo.
Ulteriore materiale d'accusa costituirono appunti per racconti e riflessioni che furono trovati nel mio zaino”.
La censura del regime comunista condusse il giovane insegnante di matematica,
oltre che coraggioso combattente, alla pena (“a quell'epoca ritenuta lieve”, aggiunge Solženicyn senza alcuna ironia) di otto anni di gulag e di tre di confino. In quei terribili
anni il docente di matematica e fisica scoprì la sua vera vocazione di
scrittore, da cui sono nati Una giornata di Ivan Denisovič, Il primo cerchio, Padiglione Cancro, tutte
opere scritte in segreto nei tre anni di confino e dopo la sua liberazione
undici anni dopo. “Per tutti quegli anni, fino al 196, non solamente fui certo
che da vivo non avrei mai visto stampata neppure una mia riga, ma non osai
neppure dar da leggere qualcosa quasi a nessuno dei miei più cari amici, perché
temevo che fosse divulgata. Ma infine, verso i quarantadue anni questa
situazione di scrittore clandestino cominciò a pesarmi parecchio. E il disagio
maggiore era costituito dall'impossibilità di confrontare il mio lavoro con un
pubblico di livello letterario elevato. Nel 1961, dopo il XXII Congresso del
Partito Comunista dell'Unione Sovietica e il discorso che Tvardovskij aveva
pronunciato, decisi di scoprirmi: di proporre per la pubblicazione Una
giornata di Ivan Denisovič. Questa autorivelazione mi parve allora, e non senza fondamento, assai
arrischiata: avrebbe potuto comportare la distruzione di tutti i miei scritti e
anche di me stesso. Ma invece si risolse felicemente: Tvardovskij riuscì, dopo
lunghi sforzi, a pubblicare il mio racconto un anno dopo. Ma quasi subito la
pubblicazione dei miei lavori venne bloccata, furono bloccati i miei testi
teatrali (Una candela al vento, Il cervo e la puttana) e
nel 1964 il romanzo Il primo cerchio, che nel 1965 mi fu requisito insieme
con le carte che costituivano il mio archivio messo insieme in lunghi anni, e
in quei mesi mi parve un errore imperdonabile aver rivelato il mio lavoro prima
del momento giusto, sicché non sarei riuscito a portarlo a termine”.
Questo racconto autobiografico,
rigorosamente sincero, ci permette di cogliere le condizioni di vita di ogni
vero scrittore nell'Unione Sovietica. La censura delle sue lettere a un amico
lo condannò a undici anni fra lager e confino, la paura di essere un'altra
volta condannato lo costrinse a scrivere in segreto fino a quando mandò il dattiloscritto di Una giornata di
Ivan Denisovič a Tvardovskij,
consapevole che quel gesto poteva rovinare la sua vita e le sue opere.
Dopo tanti anni di prigionia
e di lavoro oscuro come docente di matematica
nelle scuole medie superiori di Rjazan nell'Unione Sovietica centrale,
Solženicyn ebbe la fortuna di trovare in Tvardovskij,
coraggioso direttore della rivista “
Novyj Mir”, e in Kruscev, fautore del disgelo dopo la denuncia al XX Congresso
del PCUS dei crimini di Stalin, due ammiratori di Una giornata di Ivan
Denisovič. Se l'appoggio di Tvardovskij era più letterario che
politico, quello di Kruscev era interessato, perché il romanzo di Solženicyn, con la sua rivelazione dell'universo
concentrazionario, veniva incontro al
desiderio del segretario del PCUS di liberalizzare moderatamente il regime,
come dimostravano anche le riabilitazioni dei condannati. Lo stesso Solženicyn era stato riabilitato nel 1957 con la
motivazione che dal 1942 al suo arresto “si era battuto coraggiosamente per la
patria e aveva dato più volte prova di autentico eroismo”.
Il successo di Una
giornata di Ivan Denisovič esplose letteralmente e la rivista andò a ruba, tanto che Tvardovskij,
l'anno dopo, lo pubblicò in volume con una tiratura di ben 800.000 copie, che andarono subito esaurite
e che fecero del suo autore lo scrittore più popolare e più
amato dell'Unione Sovietica. Giornali e riviste furono invasi dalle lettere di centinaia
di migliaia di lettori. Uno di essi scrisse (3): “In Russia gli scrittori hanno
sempre occupato un posto particolare. Per male che andassero le cose, la vita
ci è sempre apparsa più sopportabile quando avevamo un Turgenev, un Tolstoj, un Cechov. Non ci bastava che lo scrittore fosse di buon livello, persino un
grande. Avevamo bisogno che lo si potesse amare. Lei è così: le abbiamo subito
voluto bene. Le siamo riconoscenti per questo sentimento, perché senza amore è
ben triste la vita dell'uomo... Siamo molto fieri di lei, compagno Solženicyn. La sua gloria è la nostra. Se lei tradisse le
grandi verità arrecherebbe dolore a noi tutti. In altri tempi c'era in Russia
Jasnaja Poljana, c'era Melichovo ed ecco ora la Rjazan di Solženicyn. Abbia cura di sé, Aleksandr Solženicyn, perché dopo che ha scritto Ivan Denisovič la sua vita
non è più solo sua. Probabilmente neppure lei comprende del tutto che cosa lei significhi
ormai per tutti noi”.
La stampa, d'altra parte, esaltava il libro, ma in mezzo
agli elogi la critica più legata al regime cominciava a fare qualche distinguo.
Fu, però, la caduta di Kruscev nell'ottobre del 1964 a cambiare completamente l'atmosfera
di disgelo nel paese e una delle prime vittime fu proprio Solženicyn. Il processo a Sinjavskij e Daniel del 1965
confermò che il disgelo era definitivamente tramontato. Solženicyn cominciò ad essere guardato con sospetto. Lo
stesso anno del processo ai due scrittori dissidenti “la polizia irruppe
nell'abitazione di un amico di Solženicyn
e ne confiscò parte degli archivi fra cui il dramma rinnegato Il banchetto
dei vincitori e il manoscritto del romanzo Il primo cerchio. Era
iniziata la manovra delle autorità volta ad annullare la popolarità dello
scrittore e a dimostrarne la sostanziale natura antisovietica” (4). La
pubblicazione su “Novyj Mir”, nel 1966, del racconto Zachar Kalita
diventò l'ultimo scritto pubblicato ufficialmente, anche se tutti i libri
successivi verranno letti, con tutti i rischi del caso, in samizdat. Ormai Solženicyn era diventato un nemico del popolo da abbattere
non solo impedendogli di pubblicare, ma anche con l'arma della diffamazione.
Divisione cancro segnò la rottura definitiva con il regime, nonostante
l'Unione degli Scrittori ne avesse approvato la pubblicazione, ma il libro fu
bloccato. Solženicyn non arretrò di un passo. In un'intervista (5) allo
scrittore slovacco Pavel Ličko, pubblicata il 31
marzo 1967 su “Kulturny Život”, parlò del
ruolo fondamentale dell'individuo nella società: “Bisogna guardare ai compiti
dello scrittore non solo dal punto di vista del suo dovere verso la società, ma
anche del suo dovere verso ciascun uomo, ciò che costituisce il suo obbligo più
importa. La vita dell'individuo non è sempre identica a quella della società (...).
Ogni uomo ha tanti problemi che il collettivo non può risolvere; l'uomo è
un'individualità fisiologica e spirituale prima che un membro della società”.
Intanto tutte le sue opere, da Divisione cancro a Il primo cerchio,
da Il cervo e la puttana a Una candela al vento, testi teatrali
mai andati in scena perché fermati dalla
censura, dalla sceneggiatura cinematografica I carri armati conoscono la
verità ai Racconti minimi, erano
bloccati con ragioni pretestuose. Di fronte a questa situazione, Solženicyn scrisse il 16 maggio 1967 una lettera aperta (6) al
IV Congresso dell'Unione degli scrittori dell'URSS. E' una testimonianza
fondamentale per cogliere il coraggio dello scrittore, la sua carica morale, la
sua denuncia delle calunnie di cui era
oggetto. La prima parte riguarda proprio la censura sovietica:
Stalin |
“L'asservimento intollerabile
che la nostra letteratura patisce da decenni ad opera della censura e che
l'Unione degli Scrittori non può più tollerare per il futuro. La censura non è
prevista dalla Costituzione e perciò è illegale, non viene mai nominata
pubblicamente ma, mascherandosi dietro la denominazione equivoca di Glavnit,
pesa sulla nostra letteratura e realizza l'arbitrio di gente letterariamente
analfabeta sugli scrittori (..). A noi scrittori non è riconosciuto il diritto
di esprimere giudizi anticipati sulla vita morale dell'uomo e della società,
di spiegare in modo autonomo i problemi sociali o l'esperienza storica che il
nostro paese ha sofferto in modo così profondo (..). Ci fu un tempo quando da
noi non si stampava nemmeno Dostoevskij, vanto della letteratura mondiale (e
nemmeno oggi si stampa per intero) veniva escluso dai programmi scolastici,
reso inaccessibile ai lettori, calunniato in ogni modo. Per quanti anni Esenin
fu trattato da ‘controrivoluzionario’ e chi ne possedeva i libri finiva
addirittura in carcere? E Majakovskij non è stato forse definito ‘un teppista
politico anarcoide’? Per decenni i versi immortali dell'Achmatova furono
considerati ‘antisovietici’. Dieci anni fa il primo timido tentativo di
pubblicare la sfolgorante Cvetaeva fu definito ‘un grossolano errore politico’ (...).
La letteratura non può svilupparsi secondo le categorie ‘l'accetteranno - non
lo accetteranno’, ‘di questo si può scrivere- di quello no’. Una letteratura
che non è l'aria della società a lei contemporanea, che non osa trasmettere
alla società il proprio dolore e la propria ansia, che non è capace di
preavvertire a tempo debito dei pericoli morali e sociali incombenti, non
merita neanche il nome di letteratura”.
La seconda parte della lettera era una
circostanziata denuncia di ciò che subivano le sue opere, la confisca da parte
della polizia del dattiloscritto de Il primo cerchio, di tutto il suo archivio letterario
con testi non destinati alla pubblicazione come il rifiutato Il banchetto
dei vincitori, opera contro Stalin scritta in un campo di concentramento
“dove, condannati a morire di stenti, eravamo dimenticati dalla società e
nessuno fuori da essi si pronunciava pubblicamente contro le repressioni”, il
blocco di Divisione cancro, la mancata messinscena dei testi teatrali,
l'impossibilità di leggere in pubblico o alla radio brani delle sue opere. Ma
contemporaneamente denunciava le continue diffamazioni: “Contro di me, che ho
fatto tutta la guerra come comandante di batteria e sono stato decorato al
valore militare, si conduce da tre anni una campagna irresistibile di calunnie:
io sarei stato condannato al lager per delitti comuni, mi sarei dato
prigioniero (non lo sono mai stato), avrei ‘tradito la patria’ e ‘servito i
tedeschi’. Così si interpretano i miei undici anni di campo di concentramento e
di deportazione subiti per aver criticato Stalin”.
Il clamore che fece questa lettera
, rimasta senza risposta, fu tale che il 22 settembre fu indetta una riunione
del Segretariato dell'Unione degli scrittori, teoricamente per discutere della
pubblicazione di Divisione cancro, in realtà per processare Solženicyn. Con
qualche eccezione come Tvardovskij e Simonov, tutti gli altri si
scagliarono contro Solženicyn e le sue opere.
Lo scrittore Aleksej Surkov disse (7):
“Se sarà pubblicato, Divisione
cancro potrà essere rivolto contro di noi e sarà più forte delle memorie di
Svetlana (…) Le opere di Solženicyn sono per noi
più pericolose di quelle di Pasternak. Pasternak era un uomo staccato dalla
vita, mentre Solženicyn ha un temperamento vivo, battagliero,
ideologicamente determinato. E' un uomo che ha idee”. Surkov, cantore
patriottico dell'Unione Sovietica , aveva colto perfettamente la natura di un
romanzo che rappresentava il cancro come malattia del corpo, ma anche e
soprattutto della società sovietica.
Solženicyn scrisse il 18 aprile 1968 una nuova lettera (8) al
Segretario dell'Unione degli scrittori
dopo che il dattiloscritto di Divisione cancro, che continuava a circolare
clandestinamente nel paese, era arrivato, grazie a un certo Victor Louis, in
Europa, pronto per essere pubblicato, come infatti poi avvenne, da parte
di editori italiani, tedeschi, inglesi, francesi. In
essa chiedeva: “Chi è questo Victor Louis, cosa fa, di che nazionalità è. E'
vero che ha portato fuori dall'Unione Sovietica un esemplare di Divisione
cancro, a chi l'ha trasmessa e in quale altro luogo ancora c'è la minaccia di una pubblicazione del romanzo?”
per concludere significativamente:
“E che rapporti ha con tutto
ciò il Comitato per la Sicurezza dello Stato?”. Solženicyn aveva capito perfettamente che tutta l'operazione
era stata gestita dal KGB per accusarlo di avere spedito di nascosto all'estero
i dattiloscritti non solo di Divisione cancro, ma anche de Il primo
cerchio, del racconto La mano destra e del dramma Una candela
al vento, tutti pubblicati nel 1968
dagli editori europei (Il primo cerchio
anche da un editore americano importante).Ciò che contava era rappresentare Solženicyn come uno scrittore nemico del suo paese e
esponente della propaganda dei paesi capitalisti. Il 4 novembre, prima a Rjazan
e due giorni dopo a Mosca, senza neppure
essere invitato, veniva radiato “per comportamento antisociale”. Solženicyn rispose con una dura lettera che ebbe grande
eco sulla stampa francese e inglese, ma
assai minore in Italia. Il conferimento del Premio Nobel l'8 ottobre del 1970
fu un vero e proprio schiaffo per il regime sovietico che non aveva il coraggio
di processare Solženicyn, come aveva
fatto con tanti altri scrittori del dissenso. La sua popolarità in tutto il
mondo era tale che una condanna ai lavori forzati sarebbe stata un boomerang
per il governo. Il Nobel, paradossalmente, poteva risolvere il problema. Nel
caso che lo scrittore fosse andato a ritirarlo a Stoccolma, gli sarebbe stato
impedito di ritornare in patria. Egli intuì subito il disegno e rinunciò a
presenziare alla cerimonia. Il discorso che scrisse per il Nobel, ma che non
poté allora pronunciare e che fu reso noto solo due anni dopo, è uno dei
documenti più alti non solo di Solženicyn,
ma di tutta la cultura occidentale degna
di questo nome. Qui ne voglio citare due
brani (9): “Guai alla nazione la cui letteratura viene
minacciata dall'intervento del potere. Perché
ciò non rappresenta solo una violazione contro ‘la libertà di stampa’,
ma la chiusura stessa del cuore di una nazione, l'estirpazione della memoria
nazionale. La nazione cessa di essere consapevole di se stessa, viene privata
della sua unità spirituale, e nonostante un linguaggio apparentemente comune,
gli stessi concittadini cessano improvvisamente di comprendersi. Generazioni
silenziose invecchiano e muoiono senza rivolgersi una parola. Quando scrittori
come Achmatova e Zamjatin -sepolti vivi per tutta la loro vita- sono condannati
a creare in silenzio fino alla morte, senza mai udire l'eco delle parole che
hanno scritto, allora non è più soltanto una loro tragedia personale, ma un
martirio di una nazione, un pericolo per tutta la nazione. Di più, in certi
casi -allorché un tale silenzio fa sì che la storia cessi di essere compresa
nella sua complessità- è un pericolo per tutta l'umanità”. Solženicyn chiuse il discorso con una dichiarazione che
dovrebbe valere per qualsiasi autore che crede nella necessità della
letteratura e dell'arte in generale: “Che cosa può la letteratura contro
l'irruzione spietata della violenza? Non dimentichiamo che la violenza non vive
da sola, né è in grado di vivere da sola: essa è intimamente legata alla
menzogna. Tra esse c'è il più intimo dei
legami naturali (...) Ogni uomo che ha scelto la violenza come suo metodo ha
inesorabilmente scelto la menzogna come suo principio”. Di fronte all'alleanza
di violenza e di menzogna non è vero che non ci sia nulla da fare: gli
scrittori e gli artisti possono fare di più: “essi possono vincere la menzogna! Nella lotta contro la menzogna l'arte ha
sempre vinto e vincerà sempre! (...) I russi amano i proverbi sulla ‘verità’.
Essi esprimono in modo costante e talvolta in modo stupendo la dura esperienza
del popolo: Una parola di verità pesa più
del mondo intero. E' su una tale immaginaria fantasia, su una tale breccia
del principio di conservazione di massa, che si fonda anche la mia personale
attività e il mio personale appello agli
scrittori di tutto il mondo”.
Dopo il conferimento del
Premio Nobel, la vita di Solženicyn divenne ogni
giorno impossibile. Il 13 agosto del 1971 scrisse al capo del KGB una lettera (10) che imputava allo stesso KGB tutta una serie
di vessazioni di ogni genere, rivolte anche ai suoi amici: “Da anni sopporto in
silenzio le azioni illegali dei vostri subalterni: il controllo di tutta la mia
corrispondenza, la confisca di metà di essa, le perquisizioni in casa dei miei
amici e la loro persecuzione ufficiale e amministrativa, la sorveglianza
costante della mia casa, il controllo dei miei visitatori, la registrazione
delle conversazioni telefoniche, l'installazione di microfoni nella mia casa”.
Oltre a tutto questo, fu imposto a Solženicyn
il divieto di consultare biblioteche e archivi proprio mentre stava scrivendo
il romanzo Agosto 1914, che
peraltro non trattava per evidenti
ragioni cronologiche l'Unione Sovietica.
Il successo dei suoi libri
all'estero e il prestigio di cui godeva
contrastavano con la sua condizione di scrittore impossibilitato ad esistere
nel suo paese, a cui era profondamente legato. Solženicyn, però, non smise di combattere contro il regime
e la sua ideologia, che continuava a devastare l'URSS. Il 5 settembre 1973
scrisse la Lettera ai dirigenti
dell'Unione Sovietica (11), dove il marxismo veniva contestato dalle fondamenta insieme alla politica che ne era
derivata: “L'ideologia che abbiamo ricevuto in eredità -sottolineava lo
scrittore- non solo è irrimediabilmente antiquata, ma anche nei suoi migliori
decenni ha sbagliato tutte le previsioni, e non è mai stata una scienza (...)
Il marxismo stupisce per la sua rozzezza economico-meccanicistica proprio
quando cerca di spiegare e interpretare ciò che c'è di più complesso nel mondo,
ossia l'essere umano, e quella combinazione ancora più complessa fatta da
milioni di uomini, ossia la società. Solo la brama di alcuni, la cecità di
altri, e la creduloneria di altri possono spiegare questo macabro scherzo del
Ventesimo secolo: come una dottrina così screditata e a tal punto sballata
possa ancora trovare tanti seguaci in Occidente! Dove ne ha meno è ormai proprio
fra di noi!”. E approfondendo il discorso, continuava rivolto ai dirigenti
sovietici: L'ideologia oggi non fa che indebolirvi e legarvi le mani. Riempie
tutta la vita della società, i cervelli, i discorsi, la radio, la stampa di
menzogne, ancora menzogne, e sempre menzogne. Come può un morto far finta
d'essere ancora vivo se non sorreggendosi alla menzogna? Tutto sprofonda nella
menzogna, e tutti lo sanno e ne parlano apertamente in privato, ne ridono e ne
piangono, ma nelle manifestazioni ufficiali ripetono ipocritamente quello che
si ‘deve’ dire e con altrettanta ipocrisia, e tedio, leggono e ascoltano i discorsi
degli altri. Quanta energia della società va sprecata in questo modo! (…)
Questa menzogna generale, forzata, obbligatoria è diventata l'aspetto più
tormentato dell'esistenza del nostro paese, ben peggiore della mancanza di
qualunque libertà civile”. Questo smascheramento, lucido e appassionato, di un
regime fondato sulla menzogna era, d'altra parte, accompagnato da un'analisi di
tutti i mali della Russia sovietica come, ad esempio, la cattiva qualità della
scuola, le spese enormi per gli armamenti, l'alcoolismo di giovani e meno
giovani, fonte d'introito per lo stato produttore. Sull'agricoltura la denuncia
era altrettanto forte: “Non vogliamo riconoscere l'errore dei kolchoz. Per
secoli la Russia ha esportato grano, dieci, dodici milioni di tonnellate l'anno
poco prima della Prima guerra mondiale, ed ecco che, dopo cinquantacinque anni
del nuovo regime, e quaranta del celebrato sistema dei kolchoz, siamo costretti
a importarne venti milioni all'anno. La campagna, che per secoli è stata il
pilastro della Russia, è divenuta oggi la sua principale debolezza!”.
Questa
lucidissima lettera sulla natura del regime sovietico apparve, nonostante
tutto, meno preoccupante dell'uscita a
Parigi il 30 dicembre1973 di Arcipelago Gulag, pubblicato in russo e poi
tradotto in tutte le lingue, tanto da diventare non solo un capolavoro della
letteratura, ma un successo mondiale da milioni di copie vendute. Solženicyn vi aveva lavorato in segreto per nove anni, ma
l'onnipresente KGB era riuscito a mettere le mani sul libro. Aveva messo sotto
interrogatorio una dattilografa che aveva battuto a macchina alcune copie e,
attraverso lei, minacciata e torturata , era riuscito a scoprire il nascondiglio
dove si trovava. La donna, sconvolta, si era suicidata. Solženicyn informò i giornalisti occidentali di ciò che
era successo e a questo punto autorizzò la pubblicazione alla Ymca-Press di
Parigi. Fece precedere il libro(12) da questa notizia: “A cuore stretto mi ero astenuto
per anni dal pubblicare questo libro già pronto: il dovere verso chi era ancora
vivo prendeva il sopravvento su quello verso i morti. Ma oggi che la Sicurezza
dello Stato ha comunque in mano l'opera, non mi rimane altro che pubblicarla
immediatamente”. Il regime rispose con durezza. La Procura della Repubblica lo
convocò più volte per interrogarlo, ma lo scrittore si rifiutò con questa
motivazione: “Mi rifiuto di riconoscere la legalità delle vostre convocazioni e
non mi presenterò per un interrogatorio davanti ad alcuna istituzione statale” (13).
Alcuni giorni dopo, il 12
febbraio 1974, fu arrestato, privato della cittadinanza del suo paese ed
espulso in Germania. Poche ore prima aveva finito di scrivere l'appello ai
russi Vivere senza menzogna (14), che si concludeva con i versi di Puškin: A che servono alle mandrie i doni della libertà/
Il loro retaggio, di generazione in generazione/ sono il giogo con i bubboli e
la frusta/.
Il regime credeva di aver
vinto una lunga e difficile battaglia, ma si sbagliava. Le opere di Solženicyn , da Una giornata di Ivan Denisovič a Arcipelago
Gulag, avevano incrinato per sempre l'immagine dell'Unione Sovietica,
patria di un comunismo che, da Lenin a Stalin fino a Breznev, continuava a
uccidere, torturare, rendere schiavi milioni di concittadini. Gli unici a non
accorgersene erano i partiti comunisti occidentali, pronti come fece quello
italiano, sotto la direzione di Giorgio Napolitano, responsabile allora della
sezione culturale, a definire “sempre più esasperate”, “aberranti”, “inaccettabili
per dei comunisti” le posizioni di Solženicyn,
appena arrestato e poi espulso dal suo paese (15).
Note
1.Un quadro ampio
e assai documentato della sorte degli scrittori sovietici è nel recentissimo
saggio di Franco Celenza, Le menti prigioniere. Letteratura e dissenso nella Russia Sovietica. Morellini editore 2016.
2.Autobiografia in A.Solženicyn, Tutto il
teatro, Roma, Newton Compton,1976, pp.7-10.
3.S.R., Presentazione
in A. Solženicyn
, Il mestiere dello scrittore, Milano,
Jaca Book , 1979, pp. 8-9.
4.E.Klein ,
Invito alla lettura di Solženicyn,
Milano, Mursia, 1975, p. 39.
5.A. Solženicyn, Il mestiere
dello scrittore cit. , p. 25.
6.Ibidem , pp. 31-39.
7.Ibidem , p.73.
8.Ibidem , p. 96.
9.Il testo
integrale è in A. Solženicyn
, Il mio grido, Prato, Piano B , 2015, pp. 15-41.
10.E. Klein ,
op. cit., p.48.
11.Il testo
integrale è in A. Solženicyn
, Il mio grido cit., pp. 79-112.
12.A.Solženicyn , Arcipelago
Gulag , Milano , Mondadori, 1974.
13.E. Klein , op.
cit. , pp. 52-53.
14. A. Solženicyn , Vivere senza
menzogna, Milano, Mondadori, 1974.
15.L'articolo di
Giorgio Napolitano uscì su “ Rinascita”(22 febbraio 1974). Cfr.
16. F.Celenza , op.
cit., p. 60.
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