Italia «a testa alta» nelle spese per la
guerra
di Manlio Dinucci
«L'Italia
partecipa a testa alta all'Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore
contributore, e conferma l'obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil
nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni,
ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha
così ripetuto quanto già detto al presidente Usa Trump, ossia di essere «fiero
del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza»,
garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l’Italia rispetterà
l’impegno assunto».
I dati sulla spesa
militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha
ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell’Italia, all’11°
posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi
di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni
militari all’estero, extra budget della Difesa).
Sotto pressione Usa, la
Nato vuole però che l’Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil,
ossia circa 100 miloni di euro al giorno.
Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa
Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha
detto «Andiamo, devi pagare, devi pagare…». E, nell’intervista, Trump si dice
sicuro: «Pagherà». Non è però Gentiloni a pagare, ma la stragrande maggioranza
degli italiani, direttamente e indirettamente attraverso il taglio delle spese
sociali.
C’è però, evidentemente,
chi ci guadagna. Nel 2016, l’export
italiano di armamenti è aumentato di oltre l’85% rispetto al 2015, salendo a
14,6 miliardi di euro. Un vero e proprio boom, dovuto in particolare alla
vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, che diviene primo
importatore di armi italiane. Un maxi-contratto da 8 miliardi di euro, merito
della ministra Pinotti, efficiente piazzista di armi (v. il manifesto, 23
febbraio 2016). La più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui
casse entra la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4
miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla
Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti.
Si accelera così la
riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per i grossi
azionisti: nella classifica delle 100 maggiori industrie belliche mondiali,
redatta dal Sipri, Finmeccanica si colloca nel 2015 al 9° posto mondiale con
una vendita di armi del valore di 9,3 miliardi di dollari, equivalente ai due
terzi del suo fatturato complessivo.
L’azienda accresce
fatturato e profitti puntando su industrie come la Oto Melara, produttrice di
sistemi d’arma terrestri e navali (tra cui il veicolo blindato Centauro, con
potenza di fuoco di un carrarmato, e cannoni con munizioni guidate Vulcano
venduti a più di 55 marine nel mondo); la Wass, leader mondiale nella
produzione di siluri (tra cui il Black Shark a lunga gittata); la Mbda, leader
mondiale nella produzione di missili (tra cui quello anti-nave Marte e quello
aria-aria Meteor); l’Alenia Aermacchi che, oltre a produrre aerei da guerra
(come il caccia da addestramento avanzato M-346 fornito a Israele), gestisce
l’impianto Faco di Cameri scelto dal Pentagono quale polo dei caccia F-35
schierati in Europa.
Poco importa che
Finmeccanica – in barba al «Trattato sul commercio di armamenti» che proibisce
di fornire armi utilizzabili contro civili
– fornisca armi a paesi come il Kuwait e l’Arabia Saudita, che stanno
facendo strage di civili nello Yemen. Come stabilisce il «Libro Bianco per la
sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti,
convertito in disegno di legge, è essenziale che l’industria militare sia
«pilastro del Sistema Paese», poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni,
al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti
dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di
lavoro qualificati».
Poco importa che si
spendano per il militare, con denaro pubblico, oltre 70 milioni di euro al
giorno, in continuo aumento. Essenziale, stabilisce il «Libro Bianco», è che
l’Italia sia militarmente in grado di tutelare, ovunque sia necessario, «gli
interessi vitali del Paese». Più precisamente, gli interessi vitali di chi si
arricchisce con la guerra.