ECONOMIA E
FINANZA
di Franco Astengo
In questi giorni molti si stanno esercitando nel rievocare il decennale del fallimento della crisi della banca Lehmann e dell’avvio della crisi globale dentro la quale questo periodo è stato vissuto portando sul piano economico a un impoverimento generale e alla crescita enorme delle disuguaglianze a tutti i livelli e sul piano politico al ritorno dei nazionalismi e all’esplosione di incontrollabili pulsioni razziste. Dagli scatoloni circolanti per Wall Street sarebbero usciti, come da un vaso di Pandora, nuovi imperialismi, nuova nazionalismi, esasperazioni corporative e razziste: insomma, il mondo di questo 2018. Non si entra qui nella ricostruzione di quei fatti e neppure nel merito dell’analisi di ciò che sta accadendo e nemmeno si pensa di percorrere il pensiero lastricato di sassi di nuove proposte alternative. L’occasione è soltanto quella del ribadimento al riguardo della ciclicità nella gestione del capitalismo e, in questo, del rinnovarsi dell’eterno “sempre uguale”. Per avvalorare questa tesi si ripubblica semplicemente un frammento tratto da quello che è stato il maggior autore marxista nel campo del rapporto tra economia e finanza.
In questi giorni molti si stanno esercitando nel rievocare il decennale del fallimento della crisi della banca Lehmann e dell’avvio della crisi globale dentro la quale questo periodo è stato vissuto portando sul piano economico a un impoverimento generale e alla crescita enorme delle disuguaglianze a tutti i livelli e sul piano politico al ritorno dei nazionalismi e all’esplosione di incontrollabili pulsioni razziste. Dagli scatoloni circolanti per Wall Street sarebbero usciti, come da un vaso di Pandora, nuovi imperialismi, nuova nazionalismi, esasperazioni corporative e razziste: insomma, il mondo di questo 2018. Non si entra qui nella ricostruzione di quei fatti e neppure nel merito dell’analisi di ciò che sta accadendo e nemmeno si pensa di percorrere il pensiero lastricato di sassi di nuove proposte alternative. L’occasione è soltanto quella del ribadimento al riguardo della ciclicità nella gestione del capitalismo e, in questo, del rinnovarsi dell’eterno “sempre uguale”. Per avvalorare questa tesi si ripubblica semplicemente un frammento tratto da quello che è stato il maggior autore marxista nel campo del rapporto tra economia e finanza.
In
questo scritto di Rudolf Hilferding, esponente di punta del marxismo austriaco,
si mescolano affermazioni convenzionali e affermazioni estremamente originali e
stimolanti sul nazionalismo come sorgente ideologica dell’imperialismo (ogni
accenno all’attualità, naturalmente, è puramente casuale). Hilferding mette in
luce il fatto che il capitalismo industriale è stato rimpiazzato dal
capitalismo finanziario (siamo nel 1910).
Questo
testo conserva dunque tutta la sua attualità, soprattutto ai nostri giorni in
cui l’intreccio politica e finanza è più profondo e invadente che mai; non per
nulla c’è un continuo passaggio di esponenti dal mondo finanziario al mondo
politico e viceversa. Inoltre lo stato trae enormi vantaggi dalle speculazioni
finanziarie. Per cui coloro che chiedono allo stato di regolamentare le
transazioni finanziarie per farla finita con le speculazioni appare come il
classico caso di chiedere alla volpe di custodire il pollaio. Su questo punto,
se è permessa un’opinione, non c’è governo che tenga e se ne accorgeranno,
almeno in Italia e nel rapporto con l’Europa, gli epigoni di un “governo del
cambiamento” nato, almeno stando a ciò che si può osservare direttamente, al di
fuori da una qualche proposizione alternativa che non sia quella
dell’allineamento alle tensioni conservatrici cui si accennava in precedenza.
Ecco
il testo: da “Il capitale finanziario”
(estratto
dal capitolo XXII) (1910)
La massima aspirazione è
ora quella di assicurare alla propria nazione il dominio sul mondo,
un'aspirazione non meno illimitata di quella del capitale al profitto, da cui
anzi scaturisce. Il capitale parte alla conquista del mondo e a ogni nuova
conquista esso non fa che toccare nuovi confini che sarà spinto a valicare.
Questa espansione incessante è ora un’inderogabile necessità economica, perché
rimanere indietro significa caduta del profitto del capitale finanziario,
diminuzione della sua capacità concorrenziale e, come ultimo effetto,
subordinazione del territorio economico rimasto più piccolo rispetto a quello
divenuto più esteso. Quest’aspirazione espansionistica causata da esigenze
economiche, viene giustificata ideologicamente mediante uno strabiliante
capovolgimento dell’idealità nazionale, la quale ora non riconosce più a ogni
nazione il diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza politica e non
esprime più il dogma democratico dell'uguaglianza sul piano internazionale di
tutto ciò che è umano. Al contrario, le aspirazioni economiche del monopolio si
rispecchiano nella posizione di privilegio che esso pretende per la propria
nazione. I privilegi appaiono più di ogni altra cosa come frutto di
predestinazione. Poiché l'assoggettamento di nazioni straniere avviene con la
violenza e, quindi, in un modo molto naturalistico, sembra che la nazione
dominante debba questa sua egemonia alle sue specifiche caratteristiche
naturali, e cioè alle sue qualità razziali. L'ideologia della razza, quindi,
non è altro che il tentativo di fondare scientificamente, con un camuffamento
biologico, la volontà di potenza del capitale finanziario che intende in tal
modo presentare i suoi movimenti come ineluttabili e condizionati da leggi
naturali. Al posto dell'ideale egualitario democratico subentra ora un ideale
egemonico oligarchico. Laddove sul terreno della politica estera, questo ideale
ha come oggetto, nell'apparenza, l'intera nazione, su quello della politica
interna esso diviene accettazione e accentuazione del punto di vista padronale
che tenta di subordinare al proprio quello della classe operaia.
Un appunto fuori testo:
forse l’ideale egemonico oligarchico troverà oggi il suo strumenti di
trasmissione nella democrazia illiberale magari portata alle masse attraverso
il Web che consisterebbe addirittura di connettere proprio la “democrazia
illiberale” con la “democrazia diretta”. Attenzione: è il vecchio discorso del
“Capo” da solo di fronte alla masse (Gustave Le Bon: Psicologie della folle). Stiano le masse in piazza oppure davanti
al