LE SCELTE
DELL’8 SETTEMBRE
di Franco Astengo
Il ricordo dell’8
settembre, crocevia decisivo per la storia d’Italia, deve accompagnarsi
necessariamente con la rappresentazione della Resistenza. La memoria della
Resistenza è direttamente connessa con le scelte compiute in quella giornata.
Scelte individuali e
collettive.
La
più importante fra queste scelte fu adottata il giorno dopo l’annuncio
dell’Armistizio e l’abbandono completo dello Stato da parte di chi avrebbe
dovuto rappresentarlo e costituirne l’autorità: la Monarchia e il Governo. Il
Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) nasce il 9 settembre 1943 a Roma.
L’indomani della “fellonia” della casa reale e del governo Badoglio. È il
momento più difficile della storia nazionale unitaria: il territorio italiano,
dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quello in Calabria e quello a Salerno -che
avviene lo stesso 9 settembre- è diventato una delle aree di guerra in cui le
truppe anglo-americane e quelle tedesche si affrontano direttamente. L'annuncio
dell'armistizio, il giorno 8, non è stato preparato in alcun modo e le forze
armate italiane si trovano completamente allo sbando.
È la scelta più
difficile, i partiti si sono appena ricostruiti dopo venti anni di dittatura.
Eppure si trova la forza di proclamarsi rappresentanza e guida dell’intero
popolo italiano.
La
costituzione del CLN Il CLN unisce in un unico organismo i diversi partiti
dell'antifascismo storico, ognuno con un suo rappresentante.
Sotto
la presidenza di Ivanoe Bonomi rappresentante di Democrazia del Lavoro antico
socialista riformista e futuro presidente del Consiglio, ci sono esponenti del
Partito Comunista (Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola), del Partito
Socialista Italiano di Unità Proletaria (Pietro Nenni e Giuseppe Romita), del
Partito d'Azione (Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea), della Democrazia Cristiana
(Alcide De Gasperi), della Democrazia del Lavoro (Meuccio Ruini) e del Partito
Liberale (Alessandro Casati). Il Comitato, che fungerà da “direzione politica”
della lotta di Liberazione, si prefigge il compito di «chiamare gli italiani
alla resistenza» contro il nazifascismo e «riconquistare all'Italia il posto
che le compete nel consesso delle libere nazioni».
Era
la giornata del 9 settembre 1943, mentre la divisione Granatieri era impegnata
nella difesa ad oltranza del ponte della Magliana, nella città, abbandonata a
se stessa, in mezzo alla ridda delle voci contrastanti, i gruppi politici
antifascisti cercavano faticosamente d'orientarsi sulla situazione e di
prendere contatto con gli organi del governo Badoglio. Il Comitato delle
opposizioni delega a questo scopo nelle prime ore del mattino Bonomi e Ruini, i
quali si recano al Viminale e vi apprendono la notizia della fuga del re. Li ha
preceduti una missione dell’Associazione combattenti richiedendo la
distribuzione di armi per potersi battere a fianco dell'esercito. La richiesta,
benché appoggiata dagli emissari del Comitato delle opposizioni, è «respinta
con un no freddo. Anzi qualcuno, da parte monarchica, aggiunge che non bisogna esasperare
gli invasori».
Posto
di fronte alla più drammatica delle situazioni, con la sensazione di avere
dinnanzi a sé il vuoto più assoluto d'ogni «autorità costituita» il Comitato
delle opposizioni reagisce immediatamente; constatando la frattura decisiva
determinata dall'8 settembre e traendo da questa constatazione l'indicazione
delle sue nuove responsabilità, alle ore 14,30 esso approva la seguente
mozione:
“Nel
momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato
fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione
nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per
riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere
nazioni.”
Si
trattò del passaggio decisivo questo della costituzione del CLN perché si
verificasse l’indispensabile connessione tra l’individuale e il collettivo in
una dimensione politica plurale: una grande novità dopo l’imposizione
ventennale del totalitarismo fascista.
Si
può ben dire che in quell’occasione si cominciò a costruire l’Italia
repubblicana superando anche i limiti del Risorgimento (la gramsciana
“rivoluzione mancata”) dai tanto vituperati, in seguito, partiti: fra i quali i
grandi partiti di massa, il cui modello è stato incautamente abbandonato per
abbracciare l’idea dei partiti personali, della governabilità esaustivamente
intesa quale unica cifra dell’agire politico nell’omissione della necessità di
rappresentanza come si sta pericolosamente imponendo in questa difficile fase
storica.
La
costituzione del CLN corrispondeva a un insieme di scelte individuali che le
donne e gli uomini stavano compiendo in tutto il Paese: al Nord si andavano già
costituendo le prime formazioni partigiane. Migliaia di militari sbandati si
concentrano in zone di montagna con le armi di ordinanza pronti a difendersi,
soprattutto in Piemonte per la dissoluzione della IV Armata dal rientro dalla
Francia.
Era il momento delle
scelte.
Prima
di tutto non si può affermare che l’8 settembre rimanga come un nodo irrisolto
nella storia d’Italia: atti, ruoli, protagonisti, responsabilità sono chiari e
restano incontrovertibili nel delineare l’identità del nostro Paese per
un’intera fase storica. Si verificano passaggi storici che quasi “costringono”
a prendere coscienza di verità che, in precedenza, apparivano come latenti o la
cui piena consapevolezza sembrava riservata a pochi. In quel drammatico
frangente emerse la necessità di esplicitamente consentire o dissentire: il
sistema stava crollando e gli obblighi verso lo Stato non costituivano più un
sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali. In questo senso
Claudio Pavone, nel suo fondamentale “Una guerra civile, saggio storico sulla
moralità della Resistenza” cita opportunamente Hobbes, riferendolo direttamente
all’Italia del 1943: “L’obbligo dei sudditi verso il sovrano s’intende che dura
fino a che dura il potere, per il quale esso è in grado di proteggerli, e non
più a lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere se
stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato a
nessun patto.”
La
scelta doveva, infatti, esercitarsi fra una disobbedienza per la quale
apparivano altissimi i prezzi da pagare e le lusinghe della pur tetra,
“normalizzazione” nazifascista. Il primo significato di libertà che assunse la
scelta resistenziale fu implicita nel suo rappresentare un atto di
disobbedienza.
Non
si trattò tanto di ribellione a un governo legale, perché su chi detenesse la
legalità non c’erano dubbi e la legalità non stava certo dalla parte dei
nazifascisti, ma di ribellione verso chi disponeva, in quel momento, della
forza per farsi obbedire. Per la prima volta nella storia dell’Italia Unita le
italiane e gli italiani vissero, in forme diverse anche rispetto alle realtà
territoriali nelle quali si trovarono a dover vivere e operare, un’esperienza
di disobbedienza di massa. La solitudine, cioè la piena responsabilità
individuale della decisione (“ho fatto di mia spontanea volontà, perciò non
dovete piangere” scrive a 19 anni Vito Salmi, partigiano garibaldino, fucilato
a Bardi il 4 maggio 1944) è come esaltata e insieme riscattata dalla percezione
dell’ineliminabile necessità di scegliere tra comportamenti che recavano
iscritti valori che come ha scritto Massimo Mila portavano a una “rivelazione a
se stessi di una nuova possibilità di vita.
Questa
somma di scelte soggettive trovò allora il suo punto di coagulo, il suo
riferimento, nella costituzione del CLN, nella capacità dei partiti
antifascisti di costituire comunque un saldo elemento di coesione e di
legittimità, sostituendosi immediatamente al vuoto creato dalla fuga del Re e
di Badoglio e respingendo la pretesa dei nazisti e dei fascisti di colmarlo
rappresentando un nuovo potere del terrore.
Così
nacque la Resistenza tra scelte individuali e grande disegno collettivo di
costruzione di una nuova Italia. Di tutto questo dobbiamo mantenere e
trasmettere memoria. Una memoria che continua a intrecciarsi con quella dei
fatti storici fondamentali non soltanto per l’identità di un Paese, ma dei
singoli soggetti che la vivono. È
allora che si assiste, si legge, si riflette attorno ad un fenomeno collettivo:
un patrimonio “nostro” dei valori comuni che ci appartengono e che determinano,
appunto, la nostra identità.
Nel
rievocare la Resistenza si può, allora, affermare che la memoria nasce dal
dolore: dalla profondità del dolore, quello del quale si sente, quasi, la
rappresentazione fisica della sofferenza morale, dell’afflizione dell’animo,
dell’affanno. Come se, tutti assieme, ci trovassimo lì a vegliare i nostri
morti. Non tutto però può esaurirsi nel dolore quando questo incontra la
memoria: un intreccio da cui nasce la volontà di costruire il futuro. La storia
non era finita, dal sacrificio dei martiri poteva nascere l’attesa di una vita
diversa, di una era di giustizia e di libertà alla fine di tante sopraffazioni.
Memoria, dolore, futuro legate assieme da un’unica idea di una nuova
costruzione sociale, di una diversa identità. Non si cadde allora, e non
dobbiamo neppure farlo adesso, in una visione semplificato di un cosiddetto
pessimismo leopardiano (o speranze, speranze, ameni inganni) perché i nostri
martiri vivranno in eterno, non in
un’immortalità solitaria ma per continuare a testimoniare l’idea, la necessità,
l’urgenza di costruire un’altra costruzione sociale, diversa e alternativa da
quella fondata sulla sopraffazione e lo sfruttamento.