Il profitto è garantito,
il posto di lavoro no. La salute neanche,
forse
in futuro se compatibile con l’aumento dei
profitti.
Tutti i sindacati
confederali – FIOM/CGIL-FIM/CISL-UILM/UIL, a cui si aggiunta USB- si dichiarano
soddisfatti per l’accordo firmato con Am Investco, la cordata guidata da
Arcelor Mittal, concordando con il viceministro Di Maio che “sull'Ilva è stato
raggiunto il miglior risultato possibile nelle peggiori condizioni possibili”,
la stessa, solita, frase che sentiamo ogni volta che i sindacalisti firmano
accordi antioperai.
In
attesa di leggere il testo integrale definitivo facciamo alcune considerazioni
basandoci su quanto pubblicato sugli organi di stampa.
Gli
stessi sindacati firmatari dell’accordo non possono fare a meno di ammettere
che “si tratta comunque di circa 3.000 esuberi con una clausola di salvaguardia
(sic!) che prevede che ‘dal 2023 i lavoratori in esubero possano essere
riassorbiti se nel frattempo non hanno usato gli ammortizzatori”. In teoria,
come prevede l’accordo, chi accetta il
licenziamento senza chiedere nemmeno un euro di FIS (ex cassa integrazione),
fra 5 anni può forse cominciare a sperare che lo riassumano, un sogno destinato
a rimanere tale.
Anche
sull’ambiente il risultato è pessimo. Come ha dichiarato il presidente del
Consiglio Conte “Se Ilva vuole produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio lo
deve fare senza aumentare di nulla le emissioni che ci sono”. Non c’è che dire,
una bella difesa dell’ambiente in questo stabilimento dove gli infortuni e i
morti sul lavoro sono all’ordine del
giorno, non solo fra gli operai costretti a lavorare senza sicurezza, ma anche
tra i loro famigliari e la popolazione, che protesta da decenni. Si può
continuare a morire, basta “non aumentare le emissioni” di sostanze
cancerogene.
Con
quest’accordo i padroni possono continuare a fare il massimo profitto
risparmiando sulla sicurezza, ma anche con garanzia d’impunità!
La
popolazione della città da anni protesta, insieme a molti operai, ma non tutti,
contro l’inquinamento provocato dalla fabbrica; ma non si difende il salario
difendendo il posto di lavoro così com’è, con i suoi veleni per tutti e i
profitti per il solo padrone di turno, che in cambio da loro un misero salario.
La
storia insegna che gli operai, senza un’organizzazione di classe che difenda i
loro interessi immediati e futuri, sono alla mercé del padrone: lavorano finché
il loro lavoro valorizza il capitale e sono licenziati appena non servono più.
L’esperienza
ci insegna che la monetizzazione della salute, della vita umana, del posto di
lavoro e dei licenziamenti va a vantaggio solo dei padroni. La salute non si
paga, la nocività si elimina e la sicurezza deve essere garantita, anche se
questo obiettivo si scontra con il mercato, con la logica del profitto che sono
i fondamenti della società capitalista. La mancanza di sicurezza in fabbrica e
l’inquinamento, le sostanze cancerogene, uccidono prima gli operai che sono a
diretto contatto in fabbrica, ma uscendo nel territorio anche i loro famigliari
e tutta la popolazione. E questo è ciò che accade da sempre in molti luoghi,
prima di tutto a Taranto.
Per
difendersi bisogna intervenire sull’ambiente di lavoro e sulla società con una
posizione anticapitalista, e questo è possibile imporlo solo con
un’organizzazione indipendente che unifichi le lotte in fabbrica e nella
società. L’unità di classe fra i proletari che lottano in fabbrica e nel
territorio, l’unione degli sfruttati, fa ritornare più che mai di attualità la
famosa esortazione: "Proletari di tutti i paesi, unitevi!".
Comitato per la difesa
della salute nei luoghi di lavoro
e sul territorio - Sesto San Giovanni - Milano
e sul territorio - Sesto San Giovanni - Milano