SUL PONTE MORANDI
di Paolo Maria Di Stefano
di Paolo Maria Di Stefano
Il ponte crollato a Genova |
Pare un obbligo tassativo. Da mezz’agosto in poi:
dire qualcosa attorno alla vicenda del ponte Morandi. E dunque di Genova. E
della Liguria. E dell’Italia. Qualsiasi cosa, purché se ne parli e si dimostri
il massimo dell’interesse e della partecipazione. Peraltro più che giustificati
dal numero delle vittime e dalla entità dei danni diretti e indiretti, presenti
e futuri. Si è sentito e letto di tutto. Salvo, probabilmente, una cosa: che si
è aperta una opportunità immensa per le mafie di tutti i tipi, di ogni scuola,
di qualsiasi origine, comunque mascherate, con chiunque collegate. E
ovviamente, oltre allo scaricabarile tradizionale e non soltanto in Italia, non
si è neppure messo in discussione che, forse, il crollo sia dovuto anche alla
atavica sottovalutazione (tipica italiana ma forse non esclusiva) dei principi
di pianificazione della ideazione, della costruzione, della “gestione”, della
manutenzione, dell’aggiornamento del prodotto strumentale chiamato “ponte”. Il
quale (sottolineava Alessandra nella sua tesi di laurea, riconosciuta degna di
lode dalla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano) “ha sempre avuto
per l’uomo un significato che supera la semplice realtà costruttiva, la pura
funzionalità. Il ponte come elemento di passaggio, di transizione -tra la vita
e la morte, tra il passato e il futuro…-, il ponte come superamento del limite,
come luogo del cambiamento, come luogo di prova, è presente nelle religioni,
nella filosofia, nella letteratura, nell’arte, nella psicologia. Il simbolismo
del ponte risulta essere uno dei più universali: per gli antichi greci, il
collegamento tra il mondo degli dei e quello umano era rappresentato da un
ponte, l’arcobaleno, percorso da Iride; nel Corano, è tramite il difficoltoso
attraversamento di un ponte, sottile come una lama, che avviene la distinzione
tra gli eletti e gli empi; nelle antiche leggende anglosassoni il re è spesso
visto come un ponte, come intermediario perfetto trac cielo e terra. L’aspetto
simbolico e metaforico del ponte è talmente forte, il suo ruolo in tutte le
culture così rilevante da non poter essere trascurato qualora si voglia
arrivare a una piena comprensione e ad una corretta lettura anche dei ponti
reali, di quelli che gli uomini costruiscono grazie elle loro conoscenze
tecniche.” E forse è anche importante notare con Alessandra come “non siano i
sofisticati sistemi di calcolo oggi a disposizione dei progettisti, i materiali
tecnologicamente avanzati e le evolute metodologie di cantiere i principali
fattori da cui dipende la qualità globale di un progetto. Questa qualità è
invece strettamente correlata con la capacità del singolo progettista o, come è
sempre più frequente, dello staff di progettazione di fondere in un unico
momento la concezione architettonica e la concezione strutturale di un’opera.
Pier Luigi Nervi (…) afferma che… il vero, completo architetto, quello con la A
grande, dovrebbe essere una specie di superuomo con la mentalità scientifica
del tecnico, l’anima e la sensibilità dell’artista, la forza di carattere del
Capo, ed infine con una sufficiente padronanza degli aspetti economici del
costruire…è evidente l’opportunità che l’opera dell’architetto diventi sempre
più un’opera di collaborazione tra competenze complementari…la sostanza del
problema… è… ricercare i modi per rendere sempre più feconda la loro
collaborazione. Collaborazione che, quando il tema costruttivo è notevole, deve
essere in atto all’inizio dell’ideazione architettonica per evitare sia gli
eccessi formalistici, sia le inespressive. È all’interno di un panorama
culturale di questo tipo, caratterizzato dalla collaborazione e dall’osmosi tra
le diverse competenze che si può venire a delineare una nuova figura di
progettista: l’architetto di ponti. Si tratta ovviamente di un progettista che,
superate le sterili distinzioni tra architettura e ingegneria, ha allargato gli
orizzonti dei propri interessi e dei propri studi, occupandosi della scienza e
della tecnica delle costruzioni, delle analisi di impatto ambientale, degli
studi di percezione visiva … Per questa nuova figura professionale si apre, se
inserita in una struttura polivalente come il SETRA in grado di fornire il
necessario supporto tecnico e organizzativo, un vasto ed impegnativo campo di
intervento. (…)
E siamo ad un punto focale di una tesi -questa-
che si pone oggi, ad oltre venti anni dalla sua elaborazione, come una summa di
suggerimenti assolutamente concreti e, a me pare, per l’Italia in gran parte
innovativi e che sembra tornare a vivere in una occasione -gli eventi del ponte
Morandi- di importanza notevolissima. Vorrei non si banalizzasse: la tesi esamina
con attenzione e competenza una struttura - Service d’études techniques des
routes et autoroutes (SETRA, appunto) e il suo modus operandi che in Francia fa
tutto quanto necessario per la progettazione, la costruzione, la manutenzione - in una parola, la gestione e il controllo dello scambio relativo al prodotto
“ponte” (e non solo). E l’esame è condotto attraverso l’analisi di tre ponti notissimi:
il viadotto Le Corbusier (1992-1994), il Pont sur l’Ante (1992-1993) e il Ponte
d’Antrenas (1993-1994). Il primo è un’opera nata completamente al di fuori
delle struttura del SETRA; il secondo è stato progettato grazie alla
collaborazione tra il SETRA e le imprese costruttrici; l’ultimo è stato invece
concepito interamente all’interno delle strutture del SETRA. Con a mio parere
questo vantaggio, oggi: disporre di indicazioni precise su cosa fare e come farlo
per Genova e il ponte, e non solo. Cosa tutt’altro che da sottovalutare. Lo
stesso Renzo Piano- architetto genovese noto in tutto il mondo e delle cui
capacità creative, realizzative e gestionali nessuno può dubitare, parlando del
suo “dono progettuale” sembra abbia precisato: non intendo sostituirmi né agli
ingegneri né agli architetti che lavoreranno per concorso”. E ha detto anche:
“Mi sono fatto un’idea di come debba essere il nuovo ponte, ma è soltanto
l’inizio. Un progettista pensa e ragiona aiutandosi con oggetti e schizzi. Da
qui a dire che c’è un’idea progettuale è eccessivo. C’è un impegno morale. Deve
essere un ponte che esprima tutto questo, ci deve essere il ricordo di una
tragedia e il suo elaborarsi nel tempo. L’architettura fa questo: celebra e
costruisce. (…)”. Ed è a queste parole che credo di aver capito perché
Alessandra abbia scelto di dedicare la sua tesi al “ponte come luogo del
costruire” e, prima ancora di
concluderla, abbia cercato in molti modi di mettersi in contatto con l’Architetto
Renzo Piano, allora una serie di tentativi andati a vuoto, oggi, forse un
incontro di spiriti colti, forse ignari di aver raggiunto quel lavorare insieme
tanto desiderato dalla giovane, e oggi reso possibile dall’essere Alessandra
una colonna portante del Cantiere che “gestisce le idee” creandole,
comunicandole a chi le concreterà e ne farà storia e motivo di evoluzione,
assicurandosi della loro continua rispondenza alle esigenze della storia
dell’umanità.