di Franco Astengo
L’identità perduta è la testimonianza dell’arretramento storico.
Le note che seguiranno contengono un semplice abbozzo di riflessione sulle vicende savonesi, dal dopoguerra in avanti. Sarà necessario scavare a fondo nell’identificazione di ciò che è accaduto per ricostruire i passaggi di una trasformazione d’epoca, che ha portato una piccola città di provincia a rappresentare una vera e propria fuoriuscita dalla prospettiva del futuro. Questo va detto con grande chiarezza alle giovani generazioni perché si superi lo smarrimento dell’oggi. Savona non ha più identità. Quella di città operaia l’ha perduta irrimediabilmente, smarrendone la memoria, principalmente in ragione di una totale assenza di capacità progettuale del suo ceto dirigente inteso in senso lato, nella politica, nell’economia, nella società.
Savona
si è trasformata in un anonimo punto d’attracco, con le sue vie percorse da
annoiati crocieristi che aspettano di imbarcarsi per la “Nave dei Sogni” e neppure
guardano il degrado dei suoi negozi, le vetrine mute, la terribile architettura
che ha violentato la sua darsena. Non se ne accorgono perché non c’è nulla di
cui accorgersi: si tratta soltanto di un fondale per il loro telefilm. Memoria
e identità rappresentano una connessione inscindibile per riuscire a progettare
il futuro, avere una visione, non limitarsi all’oggi, alla voracità del
profitto di una borghesia nemmeno “compradora”
ma soltanto accumulatrice; una borghesia
composta di un limitato numero di sodali che siedono assieme nei consigli
d’amministrazione, uniti dall’intento di realizzare il classico della
“privatizzazione dei profitti” e della “socializzazione delle perdite”.
Non
è questo un puro e semplice discorso di nostalgia della “Savona operaia”, della
Savona delle grandi lotte, della Savona de “Gli innocenti” di Guido Seborga.
Servirebbe
riflettere su quella che è stata una vera privazione del domani, realizzata su
tutti i terreni, dal politico all’economico, dal sociale al culturale. Soprattutto,
però, è stata una sottrazione di prospettiva alla quale si è smesso di pensare,
perché la cancellazione della memoria ha fatto sparire l’identità.
Quell’identità
in nome della quale si compivano le grandi scelte soggettive: la politica, la
più importante fra quelle, ne era conseguenza naturale. Si stava dalla “parte
giusta” quella della nostra condizione materiale, del nostro interesse di tutti
giorni, dell’etica del lavoro, della prospettiva dei grandi cambiamenti.
Si
stava dalla parte dell’etica del lavoro perché lì si collocavano, in una
dimensione insieme politica e morale, gli operai delle grandi fabbriche.
Savona
rappresentava una delle Città della classe operaia “forte, stabile,
concentrata” che aveva costruito interi quartieri, le forniva il nerbo vitale,
riempiva i negozi, le scuole, perfino il piccolo stadio racchiuso alla
confluenza tra Letimbro e Lavanestro, forniva i campioni degli sport poveri
dall’atletica al pugilato, dalla lotta alla ginnastica, seguiva il cinema, la
letteratura, le arti fino a inventarsi il “Libro di latta”.
Tutto
è stato cancellato d’imperio in nome dell’urgenza di un ingannevole profitto
che si poteva realizzare soltanto stroncando il soggetto principale che aveva
portato la città al suo massimo storico non soltanto nell’economia e nella
cultura ma, soprattutto ed essenzialmente, nella sua identità.
Quel
soggetto cancellato e ridotto ai margini è stato proprio la classe operaia, una
classe operaia non composta soltanto di braccia ma di cervelli, la classe
operaia del riscatto sociale, della Resistenza, del Luglio ’60, della vigilanza
contro un terrorismo tenuto ancora (colpevolmente) nell’anonimato.
La
Savona operaia cominciò nel tempo, piano piano, a scomparire ed emersero,
gradualmente, i fattori che poi caratterizzarono la fase della discesa
economica e sociale della Città e del suo comprensorio: crisi industriale, fuga
dei cervelli, autonomia del politico dal sociale e dall’economico, questione
morale.
Furono
questi gli elementi che, in seguito, avrebbero caratterizzato la fase di
smarrimento dell’identità di Savona, appunto della Savona operaia. Il tessuto
sociale della città si è, nel frattempo, frantumato suddividendosi in rivoli
non confluenti fra loro, nell’impossibilità di ritrovare un senso comune come era
avvenuto nel momento delle lotte operaie, quando si era riusciti tra ceti
diversi a non fermarsi alla semplice solidarietà, che pure era stata esercitata
in una dimensione molto intensa, arrivando all’espressione di un comune
sentire, ad una tensione verso il futuro. È emerso, invece e da molti anni, un
provincialismo di basso profilo inteso ormai come componente decisiva della
vita cittadina, in particolare nella politica e, di conseguenza,
nell’amministrazione pubblica.
Savona
non ha più saputo “essere parte”, né “prendere parte”. L’impressione è che le
istituzioni e i corpi intermedi savonesi (pensiamo anche ai sindacati) non
siano vivi, ma semplicemente “sopravvissuti” a loro stessi. La realtà è quella
di una città invecchiata dove il declino appare irrimediabile, senza
alternative. Bisognerebbe avviare la possibilità di una seria presa di
coscienza per promuovere una ripresa
d’impegno collettivo rivolto al futuro, con i giovani protagonisti. Se così
fosse, allora, si potrebbe affermare che sarebbe valsa la pena misurarci ancora
con questo tema dell’identità allo scopo di non relegare la memoria al retaggio
di un tempo che non potrà mai ritornare.