di Fulvio Papi
Che cosa succede quando leggiamo nelle pagine del
giovane Nietzsche questa proposizione: “Senza mito ogni civiltà perde la sua
sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può
chiudere in unità tutto un movimento di civiltà”? Credo venga subito in mente
la cultura tedesca che corre tra 800 e primo Novecento, interpretata in un
celebre e criticato libro di Lukács come preludio simbolico dell’etos nazista. All’opposto vi è il
costume democratico (quanto in crisi lo sanno tutti) che, per l’estensione del
potere capitalistico, è diventato il costume di vita americano, come mitologia.
Il primo caso è costato una guerra con sessanta milioni di morti. Il secondo
con la trasformazione di ogni forma di civiltà e di sapere in un mercato, dove
non si misura solo lo scambio mercantile ma anche il successo dell’ “eroe”. La
prima realizzazione del mito – lo stile nazista – è stata vinta, anche se non
annullata, poiché la vita sociale e storica è piena di somiglianze e di
ritorni. La seconda realizzazione del mito ha agito progressivamente sul mondo
come utilizzazione infinita delle risorse naturali (che i “francofortesi”
avevano compreso molto tempo fa), la riproduzione sociale dominata
dall’allargamento del denaro, la vita sociale come spettacolo prigioniera degli
effetti di queste condizioni. Lo sviluppo storico, dove la forza
dell’intelligenza è purtroppo dominata dall’estensione dei poteri, ci ha
condotto sulla soglia della catastrofe. Ancorché attenuata dalle forme di
comunicazione, è nota la conclusione degli studi degli scienziati che lavorano
per l’ONU i quali affermano che allo stato attuale del riscaldamento del
pianeta abbiamo davanti a noi 12 anni prima che i guasti della terra che noi
oggi qui conosciamo, diventino irreversibili e conducano a una situazione che
richiederà l’emigrazione di mezzo miliardo di persone poiché le loro terre
saranno invase dalle acque.
Noi, filosofi o storici, non abbiamo nessun potere
sul futuro e pochissimo sull’educazione sociale. Siamo in un margine
irrilevante, a nostro modo siamo i “copisti” (ricordate i monaci che salvano i
testi classici), più o meno abili, dell’orizzonte del declino definitivo della
nostra civiltà. Non sto ripetendo le categorie di Splenger di cento anni fa, e
tanto meno, la giustificazione della comunità di violenti che nella crisi
leggevano la loro legittimità.
Naturalmente ci sono copisti e copisti. I più validi sono
quelli che analizzano la realtà di oggi e ci mettono di fronte alla catastrofe delle
concezioni acquisite sessant’anni fa invitandoci a nuove forme di pensiero.
Molto meno interessanti sono i “copisti” che non sanno di esserlo, e propongono
scelte per il futuro che ripetono proprio i valori che sono in crisi: un’ironia
tautologica. Il rischio è quello di tentare di pensare il presente con
categorie che vengono dal passato. In questo cerchio catastrofico avremmo
almeno però, almeno nella teoria, gli strumenti per evitare il peggio, ma non
c’è il soggetto che possa renderli attivi. Chi dirige (e anche le popolazioni)
resuscita lo Stato ottocentesco quando Ricardo non voleva l’esportazione della
moneta inglese. Che a costoro tocchi l’egemonia è un’ironia storica che deriva
da molti motivi ma anche dall’invecchiamento delle istituzioni, che vuol dire
la loro prevalenza formale. Ora dovrei parlare del “popolo” alla Rousseau, o
all’opposto, di Nietzsche. Ma non sono le dottrine che contano e, ovviamente
anche i loro ripetitori, spesso chiusi in queste gabbie vanamente “elevate”. I
valori “teologici” del mercato elaborati dalla cultura del capitalismo
informatico, hanno occupato la scena attuale nell’euforia e, oggi, nella paura
e nella depressione. Potevamo essere di ostacolo a questo processo. Ciascuno
cerchi di rispondere onestamente. Quello che ho scritto non mi piace anche se
voleva essere solo un tentativo (alla Lessing) di avvicinamento alla “verità”.
Alla fine ha un sapore di mandorle amare.