SUL “MESTIERE”
DI SCRITTORE
di Angelo Gaccione
Angelo Gaccione foto di Stefano Merlini Bejart (Milano, 2018) |
Dunque, io sarei quel che si dice un
maledetto scrittore, (non uno scrittore maledetto,
questo è bene chiarirlo subito). Il mio amico Vincenzo Pardini ha scritto che quello
dello scrittore non è un mestiere (io l’ho sempre definito un insano mestiere), ma “una vocazione”. Come
fare il prete? (no, questa è una chiamata
mistica), come curare i lebbrosi? (nemmeno, questa è una missione), come un
maratoneta? (ancora no, questa è semmai una passione). La vocazione è qualcosa
di più indefinito, qualcosa di più ambiguo, di più sfuggente e non
riconducibile ad una oggettiva concretezza, anche se il risultato, l’esito di
questa vocazione, produce un “prodotto” (la parola è orribile) concreto e
oggettivo: in genere un libro fatto di fogli di carta, materiale ricavato dagli
alberi, che foglie (al femminile) ne producono davvero, e che hanno una vita
concreta che più concreta non si può. Io non so se è una vocazione o una
passione, questo “non” mestiere; per me è stata una dannazione, questo posso
affermarlo con assoluta certezza. Dannazione per gli esiti non sempre ritenuti
felici da quello spietato e severo tiranno ipercritico che si è annidato in voi
e non vi dà tregua, anche quando i vostri scritti sono stati ben accolti. Dannazione
per l’insoddisfazione che sempre vi divora, tesi come siete verso una
impossibile perfezione. Dannazione per i giorni e giorni spesi su un concetto,
una frase, una singola parola. E poi delusione per come siete stati fraintesi,
delusione per il silenzio su uno scritto che non l’avrebbe meritato, delusione
per la superficialità dimostrata verso un lavoro che ha richiesto anni di
fatica, di sacrifici, di solitudine, di tempo sottratto al riposo, allo svago,
agli affetti, alla salute. Senza contare il disagio per le figure con cui siete
costretti ad entrare in contatto, molte volte lontanissime dal vostro sentire,
dalla vostra visione di mondo, esseri spesso insopportabili e, diciamolo pure,
ripugnanti. Se poi avete conservato un briciolo di dignità morale, questo “non”
mestiere che vorrebbe costringervi ad ingoiare rospi di ogni tipo, ad adulare
personaggi disgustosi, a diventare servi, ad essere perbenisti, conformisti,
insomma a mangiare merda, vi renderà la vita molto amara. Se avete un animo
ribelle, come l’ho avuto io, non vi conviene avventurarvi lungo questo impervio
sentiero, e se lo farete, dovete prepararvi ad avere spalle larghe e stomaco
robusto per incassare e nello stesso tempo ribattere colpo su colpo. È facile
che vi troverete ad essere stranieri in patria, a suscitare invidie, rivalse, maldicenze,
a rimanere isolati. Se il cinismo non ha anestetizzato del tutto i vostri sentimenti,
e se la vostra anima è ancora capace di commuoversi davanti al disumano
sociale, vi farete molti nemici. La nobiltà di questo mestiere (ma non è la sola
nobiltà) consiste proprio nella sua strenua resistenza al disumano. E dunque
dovete scegliere da che parte stare, se non volete diventare una canaglia del
potere. Ovviamente potete seguire la via più facile, quella più comoda e
remunerativa, quella più opportunisticamente gratificante, ma a patto che non
abbiate una sola idea che sia vostra, personale, pericolosa; che le vostre idee
non abbiano alcun valore, e che siate già parte integrante del branco. Ma in
questo caso voi stessi, come il mestiere che avete umiliato, non valete nulla.
Dovete poi mettere in conto che non vi basterà una vita per impararlo fino in
fondo, questo mestiere: è possibile che il bilancio di un’intera esistenza di
scrittura sarà stato vano e che non vi sarà rimasto, alla fine, che un magro
bottino. Tutto quello che ho imparato io da questa oramai lunghissima pratica,
non è come scrivere, ma come non devo scrivere. È il mio misero
bottino, non è poca cosa e non me ne lamento. Non è un mestiere pericoloso
(come lavorare in miniera, ad esempio), ma può tuttavia diventarlo: non
dimenticate che i suicidi sono molto frequenti fra la categoria, e l’ansia, il
senso di vuoto, di fallimento, di malinconia, di ineffabile silente disperazione,
non vi abbandoneranno mai. Saranno perennemente in agguato, pronti per
ghermirvi.