Sei assi per un poker vincente
di Chiara Pasetti
Genova Teatro Duse. Dal 28 dicembre al 5 gennaio 2019
Una scena dello spettacolo |
Patrick Marber,
già autore di Notes on a Scandal
(candidato all’Oscar nel 2006) e del pluripremiato Closer, nel 1995 firma Poker
(titolo originale Dealer’s Choice),
che la Compagnia Gank porta in scena al Duse di Genova dal 28 dicembre al 5
gennaio. Recensito da Cordelli sul Corriere della Sera come «lo spettacolo più
coinvolgente visto da molto tempo a questa parte», la dark commedy si svolge in
una notte domenicale dal crepuscolo all’alba, all’interno di un ristorante. Sul
tavolo, o meglio sui tavoli, si cucina, si cena, si beve (molto), si ride, si fanno
i conti, in senso non solo letterale, e naturalmente si gioca a poker (grande
passione dell’autore). Nel primo atto i tavoli reali e metaforici scelti dalla
raffinata ed efficace regia di Zavatteri sono due. In uno il cuoco (uno
strepitoso Alberto Giusta) prepara il menù del ristorante, intrecciando
dialoghi tra il surreale e lo spietato con il cameriere Pollo, ingenuo e
sognatore (l’ottimo Enzo Paci) e il cameriere cinico, scafato e donnaiolo
(perfettamente interpretato da Fabio Fiori); nell’altro tavolo, che fa da
contraltare e da eco al primo rimbalzandone umori, battute e tensioni, un padre
(il padrone del ristorante, Federico Vanni, che conferma ancora una volta la
sua bravura e l’importante presenza scenica) e suo figlio (il giovane e
talentuoso Daniele Madeddu) riversano le reciproche frustrazioni e conflitti,
principalmente basati sulla preoccupazione paterna nei confronti di un ragazzo
promettente e tuttavia senza progetti concreti per il futuro. E si scopre che
il padre perpetua l’appuntamento settimanale in fondo soltanto per avere il
pretesto di poter vedere suo figlio. Sullo stesso tavolo dove avviene lo scontro
generazionale a un certo punto comparirà comodamente e sfacciatamente seduto
per cenare un sesto, sordido personaggio (brillante e incisiva prova attoriale
di Massimo Brizi) alla ricerca di riscatto non solo, forse, da un debito di
gioco… Per dirla con Flaubert, ci sembra che «tutta l’amarezza dell’esistenza [ci] venga scodellata davanti, sul piatto, insieme
al vapore del bollito» (in questo caso di un carpaccio). A unire con un fil
rouge (quasi sempre noir) i due
tavoli il tema del denaro, in cui confluiscono i sogni e le ambizioni di
ciascun personaggio, e quello della passione-ossessione che tutti lega pur
nelle differenze caratteriali (molto ben delineate nel testo e in scena): il
gioco del poker. Che è sogno e vittoria, ma molto più spesso scacco e
sconfitta. Non a caso, nel secondo atto, i due tavoli diventano uno solo, quello
dove a notte fonda si disputa la partita a carte. Lo spettatore non si trova
più nel ristorante bensì nel suo scantinato, metafora della discesa nelle
profondità dell’anima di questi sei uomini e della loro insana eppur umanissima
compulsione nei confronti del panno verde. Insieme alle carte si svelano qui le
paure più inconfessabili, i segreti, le banalità, la solitudine e la sofferenza
di ognuno dei protagonisti, impegnati da sempre in una partita più con se
stessi e con i propri demoni che con gli avversari. Una partita in cui alla
fine non ci sono vincitori né vinti, e nemmeno un riscatto, e che ciclicamente
pare destinata, in una sorta di beffardo «eterno ritorno», a ripetersi
all’infinito. Un comico e al contempo doloroso voyage au bout de la nuit in cui si ride e si riflette, ci si
emoziona e ci si ritrova tutti, un po’, in ognuno di loro. Sei assi del teatro,
per un Poker decisamente straordinario.