A
TRE VOCI
Una parità ambigua
Marilisa D'Amico
Dis-parità
certa
di
Annalina Molteni
Come
una conferma, ammesso che ce ne fosse bisogno, alla lettura di Una parità ambigua. Costituzione e diritti
delle donne di Marilisa D’Amico si sono sovrapposti in questi giorni i dati
Istat sull’occupazione: su 101mila lavoratori che hanno perso il posto di
lavoro tra luglio e novembre 2020, 99mila sono donne. Una percentuale mostruosa,
come se la pandemia avesse impresso un’accelerazione all’ineguaglianza di
genere e le donne, come afferma l’autrice nell’ultimo capitolo interamente
dedicato all’emergenza Covid, sembrano di
nuovo sospinte indietro e, pensando al "dopo" (Fattore D, lo
definisce), saranno le più esposte alle conseguenze che l’inevitabile crisi
economica impatterà sul mercato del lavoro e rischierà di colpire tante lavoratrici, statisticamente la categoria
più fragile.
Il
lockdown ha fatto dunque venire a
galla, anche esacerbandole, discriminazioni e parità negate, e non solo nello
stretto ambito familiare dove le donne hanno sopportato il peso maggiore di una
quotidianità difficile, dovendo conciliare cura dei figli e smart working, agendo da fattore di
equilibrio e di mediazione in convivenze obbligate, sovente in spazi ristretti.
Praticamente assenti negli apici istituzionali che gestiscono la crisi, minoritarie
nei comitati scientifici nonostante, tanto per citare due semplici esempi, sia
stato un medico donna dell’ospedale di Codogno, Annalisa Manara, a intuire che
c’era qualcosa di diverso nella "sindrome influenzale" di quello che
sarebbe diventato il Paziente Uno e l’équipe
dello Spallanzani, che ha isolato la prima sequenza del 2019 n-Cov, sia diretta
da una donna, Maria Rosaria Capobianchi. Ricordarlo non significa voler
affermare una supremazia, che ci farebbe scadere nella sfida infantile del chi
è più bravo, ma ribadire una parità di competenze, esempi più che banali di
quanto sia sciocco, per non dire scioccamente tendenzioso, lo stereotipo della razionalità maschile contrapposta all’istintività
femminile. Una distinzione che appartiene alle origini della nostra civiltà,
nel mondo greco secondo il quale, sono parole di Eva Cantarella, le donne avevano una mente diversa da quella maschile
(…) non possedevano il logos. La sola
ragione che potevano possedere era la metis (…) un’intelligenza bassa, che non era astratta, non classificava, non
costruiva categorie (…) si rivolgeva
al caso singolo, al problema specifico. Un’intelligenza da onesta massaia,
che acquisisce dalla sola pratica, mi verrebbe da dire.
Marilisa D'Amico |
Opera di Mario Bracigliano
È
molto interessante il capitolo che D’Amico dedica all’origine delle discriminazioni
di genere nel mondo classico, che danno ragione di molti stereotipi ancora
attuali rimandandoli ai miti, alla tragedia, alla filosofia, ma sostanzialmente
constatando, e ancora cita la Cantarella, che si tratta di ricavare elementi da pagine fatte di silenzio (…) la storia è scritta da uomini, parla di una
società prevalentemente maschile ed è rivolta soprattutto a uomini. Vero,
ma è innegabile quanto possa "parlare" il mito della curiosa (vizio
tipicamente femminile!) Pandora che, aprendo il vaso, diventa la responsabile
della propagazione dei mali nel mondo o il matricida Oreste di Eschilo non
colpevole perché considerato figlio del solo padre, relegando la madre al ruolo
di incubatrice, un utero in affitto, per usare una definizione attuale. Lo
sguardo dell’autrice è molto ampio e molteplici sono gli ambiti nei quali la
"parità ambigua" è indagata: Costituzione, politica, lavoro, libertà
procreativa, maternità surrogata, aborto, violenza, ma vorrei ricordarne uno in
particolare, il cui titolo è una domanda: Multiculturalismo pericoloso?
Per
un paese di immigrazione recente come l’Italia, le risposte del Legislatore a
molti problemi suscitati dal multiculturalismo, inteso come integrazione di culture
diverse senza che nessuna rinunci alla propria identità, hanno alla base la domanda su quale deve essere il limite che le
società occidentali non possono superare nel tollerare culture che non
riconoscono i diritti delle donne oppure li riconoscono, ma in modo molto
circoscritto. Fino a che punto è quindi accettabile un comportamento
punibile per l’ordinamento del paese d’immigrazione in nome della cultural defense di matrice
statunitense, che introduce la nozione di
reato culturalmente motivato che assegna alla cultura il ruolo di movente della
condotta criminale, e tra le evenienze che hanno la ricaduta più drammatica
sulle donne stanno i matrimoni imposti e precoci e le mutilazioni genitali.
L’autrice
constata la sostanziale impreparazione della società italiana ad assorbire l’impatto
migratorio, complicato dalla presenza di culture diverse e spesso in
antagonismo tra di loro, e punta il dito sulla scuola che dovrebbe essere luogo
privilegiato di incontro e di integrazione e invece non ha ancora sviluppato programmi adeguati a una società multietnica,
in assenza dei quali, oltre che di obbiettivi chiari, l’incontro fra culture diverse si sviluppa in modo poco armonico e
spesso sfocia in veri e propri conflitti o in espressioni di razzismo. Pagine
importanti queste, nelle quali è massima la tensione etica che pure percorre
l’intero volume e che, unita agli excursus
storici e culturali, lo rende interessante anche per un lettore comune che poco
o nulla sa di Diritto, qual è chi scrive.
***
Orientamento
unidirezionale
di Roberto Bramani Araldi
È
di questi giorni il lancio del libro All in di Billie Jean King,
ritenuta la più grande tennista del secolo scorso, vincitrice dei maggiori
tornei mondiali, fondatrice della WTA - Women’s Tennis Association - tuttora l’associazione
mondiale che regola il tennis femminile, ma, soprattutto e incredibilmente,
nota per la “battaglia dei sessi”. Nel 1973, il 20 settembre, andò in scena nel
Texas la sfida contro Bobby Riggs, cinquantacinquenne, tennista dal grande
passato, il quale affermava che una donna non avrebbe mai potuto sconfiggere un
uomo a tennis nel campo professionistico. L’evento, in pratica circense, venne
propagandato con un battage pubblicitario eccezionale, come la “battaglia dei
sessi”. Vinse la King che dichiarò: “Ho pensato che saremmo tornati indietro di
50 anni se non avessi vinto quella partita. Avrebbe fatto perdere l’autostima a
tutte le donne”. E la King si batté e si batte ancora oggi per l’affermazione
dei diritti delle donne nella Società. Il parallelismo sgorga quasi spontaneo
approcciando la lettura del libro Una parità ambigua di Marilisa
D’Amico, naturalmente non nei contenuti, bensì per l’antitesi con il sesso
maschile che costituisce il filo conduttore dell’analisi che l’autrice compie
nei vari settori che lo costituiscono. Stabilito fuori da ogni dubbio che la
parità di genere non debba essere posta in discussione, ma deve rappresentare,
qualora non conseguita, un punto d’arrivo incontestabile, è altrettanto certo
che l’impegno per giungere al traguardo non deve sconfinare nell’instaurare un
conflitto fra i sessi, quanto mai inopportuno e fautore di quelle divisioni e
discriminazioni che si vorrebbero se non abolire integralmente, almeno limitare,
per raggiungere una posizione di sostanziale equilibrio. Gli argomenti nei
quali è suddivisa l’opera sono naturalmente esaminati a partire da questo
asserto e sulle sue fondamenta è costruito l’edificio di approfondimento
conseguente, che è indirizzato in una direzione univoca. Prendiamo il capitolo relativo
alle “Donne e politica”, nel quale si constata che per retaggio culturale delle
società a impronta quasi esclusivamente maschile, l’accesso alla politica della
componente femminile era praticamente inesistente e da qui il processo evolutivo
verso una sempre più marcata consapevolezza della necessità che le legislazioni
dei Paesi si trasformassero in modo tale d’assicurare una congrua presenza
femminile negli organismi istituzionali di qualsiasi livello. L’esame dei
modelli, come sono catalogati dall’autrice, profonda e documentata nei tempi
dell’emissione delle norme e nei contenuti, è affrontato con uno spirito
critico di notevole finezza, seppure soffra della visione esclusiva che conduce
inevitabilmente al concetto delle “quote rosa”. È chiaro che la battaglia per
il superamento di comportamenti riconducibili ad atteggiamenti discriminanti
dovesse essere condotta al superamento delle barriere sia manifeste, sia
sotterranee, inerenti il concetto di donna solo dedita alla famiglia, quindi
preclusa al mondo della politica ritenuto di pertinenza della sola componente
maschile, tuttavia il ritenere che l’unico sistema - si badi bene non solo a
livello Italia, bensì quasi generalizzato - sia quello di assicurare una
presenza di genere prescindendo dalla capacità, diventa un percorso a senso
inverso verso la ghettizzazione. Quando D’Amico afferma che “a Costituzione
invariata è impossibile per il legislatore ordinario introdurre norme di
qualsiasi tipo miranti a favorire l’accesso delle donne alla competizioni
elettorali” si immette un pensiero discriminante, poiché il termine favorire ha
in sé il senso di ledere una visione paritaria dove nessuno deve essere
favorito, ma tutti devono partire con pari opportunità. Sarebbe come se in una
gara atletica di mezzofondo si facessero partire i contendenti scaglionati, in
funzione di una qualsivoglia valutazione: all’arrivo il risultato finale
sarebbe inficiato, mentre invece la genuinità della competizione impone che
vincano i più bravi.
Del resto la selezione di una classe dirigente dovrebbe
avvenire in funzione della capacità del singolo, sicuramente non appurabile a
priori, né conferita a un genere: l’unico elemento che differenzia il genere
umano è l’intelligenza, non può essere il colore della pelle, il taglio degli
occhi oppure la sua conformazione fisica. Solo il suo livello intellettuale, la
sua capacità di affrontare i problemi e di risolverli dovrebbe rendere un
individuo eleggibile a una carica pubblica e non l’appartenenza a un genere,
femminile o maschile che sia. Una donna dovrebbe sentirsi umiliata dal fatto di
accedere a un ruolo solo perché le è stato riservato in quanto donna e non
perché è brava, capace, intelligente. Considerazioni analoghe possono essere
tratte sul capitolo “La donna e lavoro”. Il tema è trattato con dovizia di
dettagli legislativi, con notevole precisione e serietà: il corso degli eventi
legislativi è ben tracciato, tanto da consentire al lettore di seguire senza
alcuna difficoltà l’evolversi delle normative. A questo indubbio merito si
unisce anche la visione critica nei riguardi del legislatore per la lentezza
nel varare norme atte a favorire l’elemento femminile, che continua a essere
pesantemente svantaggiato, soprattutto nelle funzioni direttive. Si citano i
Consigli d’Amministrazione e i Collegi Sindacali delle Aziende, nei quali è
diventata obbligatoria la presenza femminile - o più precisamente del genere
meno rappresentato - alla quale è riservato un terzo dei posti come rimedio a
una preclusione culturale che impediva di fatto l’accesso ai ruoli apicali, ma
la patologia non è stata ancora debellata e il rinnovamento culturale non si
produrrà o si produrrà molto tardi. Tutto l’argomento è pervaso da una visione
pessimistica e comunque da lotta dei sessi, “il delicato equilibrio che il
legislatore italiano ha compreso e sta provando a realizzare” avviene faticosamente,
oppure “che della mera enunciazione dell’eguaglianza formale non corrisponde a
parità effettiva il legislatore si è finalmente reso conto”. Infine, da quando le
donne hanno fatto ingresso nei consigli di amministrazione delle società si è
alzato il livello qualitativo dei profili e si è più attenti a merito e
competenze: pareri rispettabili, ma che avrebbero necessità di verifiche
approfondite, mentre così possono avere valenza solo come opinione. In sintesi
un lavoro perfettamente svolto dal punto di vista documentale nel settore
giuridico, apprezzabile, seppur discutibile in alcuni passaggi, per le giuste istanze
delle pari opportunità dei sessi. Perché discutibile? Ma è evidente: occorre
battersi per superare le diseguaglianze, non per creare favoritismi in
sostituzione delle medesime: in questo modo si sviluppano mondi antitetici che,
invece, dovrebbero integrarsi, non perfettamente, sarebbe utopico, bensì nel
modo migliore compatibile con la fattibilità umana. Alessandro D’Avenia nel suo
L’appello afferma: “La donna spesso è usata come oggetto del desiderio
per l’occhio che la vuole possedere e così facendo le toglie vita. Finché
l’occhio non guarisce da questa volontà di dominio non riusciremo più a vedere
le cose e a sentirne il respiro. Riavremo il mondo solo quando smetteremo di
volerlo dominare.” Forse questa visione si attaglia come un abito confezionato
su misura alla Parità ambigua di Marilisa D’Amico?
***
Parità
vantaggiosa?
di
Gabriele Scaramuzza
Vinicio Verzieri
"Prerogativa del sentimento" 2021
Di
grande interesse, e non solo per chi vi è direttamente coinvolto, è il recente Una
parità ambigua di Marilisa D’Amico. Di suo conoscevo solo I diritti annegati,
scritto con Cristina Cattaneo, su un problema tra i più coinvolgenti oggi,
quello dei “morti senza nome del Mediterraneo” (così suona il sottotitolo). Ma di
recente ho anche assistito al suo intervento alla Casa della Cultura per la
presentazione dello sconvolgente Destini di donne nella Germania nazionalsocialista di
Vincenzo De Lucia (pure recensito pochi giorni fa su “Odissea” da Annalina Molteni).
Considero
Una parità ambigua uno degli esiti più convincenti del lungo percorso
intrapreso dalle donne per chiarire a sé stesse, e denunciare, il proprio modo
di essere nella storia. Una condizione che ha radici lontane ma non è oggi estinta,
e che D’Amico ripercorre in modo avvincente, rifacendosi per l’antichità anche
agli studi di Eva Cantarella. Il libro è ricco, insegue il tema della parità
nei suoi più svariati risvolti, da ampiamente culturali a specialistici. Ed è condivisibile
l’idea della donna che vi traspare: come persona, in senso giuridico e ampiamente
umano; l’idea in base alla quale si può parlare di “parità ambigua”, e si può operare
una rivendicazione della dignità delle donne, in qualsiasi contesto.
Personalmente
mi ha fatto piacere ritrovare su queste pagine la sociologa Bianca Beccalli, “la
più importante studiosa di problemi di genere” (p. 13), mia compagna di
università, mai più incontrata dopo gli anni pavesi. Mi hanno coinvolto poi le righe (a p. 239) dedicate
a Liliana Segre e ai vergognosi e insulti antisemiti rivolti soprattutto a lei
donna. La complessità
del testo si evince poi già dall’intervento di Annalina Molteni e di Roberto
Bramani Araldi. E d’altronde non è il caso qui di offrirne alcuna rassegna del
testo: la nostra presentazione non può valere che come invito alla lettura, con
la speranza che almeno stimoli qualche curiosità.
Vinicio Verzieri "Prerogativa del sentimento" 2021 |
Venendo
a me, per motivare il mio interesse verso Una parità ambigua, e per
trovare conferme alle mie prime impressioni di lettura, ho ripreso un articolo
scritto tempo fa, su invito di Chiara Zamboni: Anni ’60 (per la rivista on-line
“Diotima”, settembre 2011). Una parità ambigua attualizza e arricchisce
un discorso che per me ha preso l’avvio in anni ormai lontani.
Tuttora
mi indispone il discredito che da più parti si cerca di gettare sugli anni
Sessanta; le ragioni maturate in essi hanno agito in profondità, producendo effetti
a loro modo liberatori; ne resta qualche nostalgia persino. Perché avevano
finalmente voce realtà che toccavano da vicino, e in cui aveva grande spazio la
realtà femminile, incontri in essa che “lasciano il segno”. Realtà prima
inibite, censurate, lasciate macerare nel mondo di cose inespresse, e che tanto
più opprimono quanto più sono private della possibilità di dirsi.
Ci
sono voluti anni prima che ci si sentisse in diritto di prender la parola; tanto
di più da parte delle donne. Prender la parola, letteralmente: mi accorgo ora
di quanto l’espressione sia pertinente. La pressione dell’ambiente, remore
interiori, nocivi pudori, si opponevano a che si dessero nomi a stati d’animo inconfessabili,
ma che trovavano vie più impervie per esprimersi; quasi fosse un’illecita
forzatura sulle cose riferir loro dei termini. Era diffusa una sorta di ritegno
a sbrigarsela con tanta riprovevole leggerezza (le parole, appunto), con le
situazioni che si attraversavano: una prevaricazione inosabile in certi ambienti,
quasi le parole usurpassero la realtà, e le cose semplicemente non le
reggessero. C’è voluto molto tempo a sentirsi autorizzati a dire, a conquistarsi
anzi il diritto/dovere di dire.
Questo
riguarda in prima linea esperienze personali, certo; in nessun caso ci si può
presumere portavoce di altri. Eppure già allora si intuiva che altri si riconoscevano
in quanto andavamo maturando. Lo spostarsi dell’accento sulla soggettività era
un dato culturale significativo per chi come noi, si riconosceva in una certa
versione della fenomenologia, quella filtrata da Enzo Paci o, sullo sfondo allora,
da Jean-Paul Sartre. E nello spazio della soggettività avrebbero trovato posto,
in primo luogo, il tema della soggettività femminile, ma poi anche della
soggettività operaia (per me il nome da fare qui è quello di Renato Rozzi) e,
in seguito della soggettività maschile, su cui ha posto l’accento Duccio Demetrio
(di cui ho prontamente fatto mia la distinzione tra “uomo” e “maschio”). Nel
nostro mondo maschile giocavano un grande ruolo amici, padre, conoscenze,
fratelli, “maestri”. Ma ci aveva parte tutt’altro che trascurabile (occorre
dirlo?) il variegato mondo femminile - amicizie, sorelle, figlie, madri, semplici
conoscenze, amori - con cui la forza delle cose induceva a confrontarsi, e in
modi e con esiti non di poco conto, in positivo o in negativo. Era solo ipocrisia,
diffusa, il vivere “l’altra metà del cielo” sotto il segno di una scontata
irrilevanza, o di una garantita impermeabilità - quasi si trattasse di un
ambito solo privato e casuale, scisso dal resto della vita.
Colpiva
certa ambivalenza: l’esibito understatement (quando non sottovalutazione delle
doti “spirituali”, o pratiche, o altro che fossero) della donna, e l’essere di
fatto poi non di rado pesantemente condizionati dal mondo femminile con cui si
aveva a che fare. Diffuso (e tutt’altro che scomparso) era il valutarne i ruoli
secondo moduli prefabbricati, a senso unico: quante volte si attribuivano alle donne
futili comportamenti, ritenuti tipicamente femminili, ma chiaramente non meno
attivi (e in modi non più lievi) nel mondo maschile. Anche se certo non mancava
per contro nella propria cerchia chi fosse per sua natura incline a trovare
nelle donne (e talvolta più che negli amici maschi) interlocutrici aperte e
sensibili, su un piano di parità; quando non a cercarvi vie di rifugio e di
salvezza -incongruamente, o forse no, a seconda dei casi (“fai troppo conto
dell’aiuto altrui, in specie di quello delle donne”, così il sacerdote redarguisce
Josef K. in Il Processo).
Più
a portata di mano nella comune esperienza maschile erano le differenze interne
al mondo femminile, più che non la differenza di genere, che sfumava in un
orizzonte tutto sommato enigmatico; quando non si limitava a genericità fisio-psicologiche,
o in tipi ideali astratti presto costretti a ridimensionarsi nei fatti. Figure differenti,
tipologie precostituite e conflittuali, mitologie inconsapevoli dominavano
l’esperienza del femminile. Un campionario dei tipi più incombenti era
disponibile nel lessico corrente, confermato magari da figure vive nel mondo
del cinema, di letture frequentate, del teatro musicale, di immagini incombenti
nel nostro quotidiano, nella pubblicità… E non si potrà certo affermare di aver
mai incontrato donne in carne e ossa che corrispondessero a tipi invalsi; che
agivano come comodi pregiudizi, o come scontato criterio di orientamento in un
contesto sicuramente complesso. E tutto questo in un mondo che imponeva (e
impone) con sotterranea, ma inaudita, violenza, modelli di femminilità, di
affettività, di rapporti tra i sessi, univoci, e tali da generare più disagio e
infelicità di quanto si fosse disposti ad ammettere. Non credo che tutto questo
sia scomparso: il cap. 8, ma non solo, di Una parità ambigua lo testimonia
ampiamente. Sono tuttora infastidito dalla pubblicità, trovo irritante l’immagine
artefatta della donna che vi appare.
Kafka di Max H. Sauvage
Non
a caso già da quegli anni si era portati a leggere con passione interessata
libri “femministi”; non molti peraltro, devo ammettere, nel mio caso. La prima
lettura, di quelle che non lasciano indifferenti, è stata Il secondo sesso;
Simone de Beauvoir per prima dava risalto a quanto si poteva sospettare: cioè
che l’immagine del mondo femminile incombente nella vita non fosse un dato di
natura, ma costruito nel tempo della storia. Ci si rendeva conto delle disparità
di destino createsi in un lungo percorso culturale, fatto di privilegi
storico-sociali acquisiti. Si avevano sotto gli occhi già nella cerchia più
prossima malesseri che inquietavano il mondo femminile, e inevitabilmente si
ripercuotevano nel mondo maschile circostante; una prima liberazione stava
nelle parole che finalmente sentivamo pronunciare. Parole oggi consumate dal tempo,
scontate per generazioni successive. A torto date per ovvie: le pagine di D’Amico
testimoniano (in contesto ovviamente diverso) anche questo. Qualcosa (fatte
salve le innegabili differenze) riguardava anche il modello di maschio che
dominava: e le pressanti richieste di adeguarvisi. Per questo ha fatto epoca
nelle mie letture Maschio per obbligo di Carla Ravaioli (del 1973), che
non a caso prendeva spunto esplicitamente dalla Lettera al padre.
La lettura poi di Antonia Pozzi mi ha reso particolarmente evidente con quanta
violenza “dogmatica” fossero costruiti i ruoli, anche in mondi che si proclamavano
esenti da ogni forma di assolutizzazione indebita.
Vale
tuttora l’esortazione di Kafka a Janouch: sostituire alla reazione scomposta la
“comprensione attiva”, la reazione intelligente; passare dal lamento improduttivo
alla testimonianza di situazioni esistenziali scottanti, e “oggettive”. Sperando
che altri si rendano conto, si interroghino e prendano le distanze. Tutto questo
può essere scontato, ma testimonia le radici del mio apprezzamento del libro di
Marilisa D’Amico.
La copertina del libro
Marilisa D’Amico
Una parità ambigua.
Costituzione e diritti delle donne
Raffaello Cortina Editore 2020
Pagg. 345. € 27,00.
La copertina del libro |