PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
Comunione
In greco (koinòs) κοινός: di
tutti, universale, comune (inizialmente: comune a tutti,
successivamente: in comune), nel processo formativo dell’essere, rimanda
allo stare in grembo, che è di tutti e che si manifesta con il segno gravidico.
Da koinòs si ebbe cenobio (vita comunitaria) e cenobita.
Bisogna, però, ricordare che, dall’aggettivo di che trattasi, si formò il verbo
(koinòo) κοινόω: rendo comune, rendo noto, comunico.
Si spiega facilmente il significato di: rendo
comune; invece, per giustificare i significati di: rendo noto, comunico,
bisogna pensare al grembo più o meno pronunciato, che dà all’esterno notizie
dello stato della creatura. Da questo si desume che la parola, talvolta, non
solo dice, ma mostra quel che avviene nei processi di natura, acquisendo una
forza espressiva deittica.
I latini coniarono, dapprima, omnis omne: ogni,
ognuno (di ognuno), un aggettivo similare a koinòs, attraverso questa
perifrasi: è ciò che riguarda la creatura che rimane nel grembo per
acquisire quanto le manca. Da tale simbolo verbale dedussero: riguarda ogni
creatura.
Gli italici coniarono comune, come omologo di koinòs, nel senso di ciò che tutti hanno,
che appartiene a tutti (il destino comune o il senso comune, come
buon senso), in quanto in comune, ma, anche, ciò che è molto diffuso
tra la gente. Inoltre, come da koinòo i greci dedussero comunicare,
gli italici dedussero lo stesso concetto da comune.
I latini, coniando communis
commune (con-munis): comune a, patrimonio comune,
rappresentarono un altro aspetto del processo di riproduzione: la madre che,
legando a sé la creatura, condivide con lei il cibo, che fa crescere entrambe.
Madre e figlio hanno tutto in comune e l’espressione in commune si
rende: spartire a metà. Il sostantivo neutro commune si traduce bene
comune, da condividere in due, tra tanti (una comunità), con tutti i
componenti di uno Stato, tra tutti gli umani. Pertanto, da communis fu
dedotta communitas: comunanza, che indica il gruppo di persone
che hanno un bene in comune, e, per traslato, condizione comune, una
sorte comune.
Il significato di communis
si coglie meglio esaminando la parola con/m-unio con/m-unionis,
che è ciò che consegue, nel perdurare (decodifica del simbolo: m)
l’unione durante la gestazione (con). L’unione simbiotica vera e
propria tra madre e figlio dura fino al parto, per cui durante la gestazione
dividono e condividono il nutrimento e, in questo periodo, la creatura si
sostanzia e si transustanzia della madre. La communio dei latini
indica l’uso in comune di un bene, escludendo, in senso stretto, il
concetto di proprietà, in quanto di un determinato bene spetta solamente
la fruizione.
Il concetto di comunione,
come legame tra madre e figlio, fu espresso dai greci, meglio dai
cristiani, quando coniarono eucaristia, che è parola omofona. Infatti, i
greci per indicare: grazia, nel senso, anche, di grande dono,
usarono il sostantivo (eu-khàreia) εὐ-χάρεια εὐ-χάρειας, che
contestualizza lo stato d’animo di riconoscenza (gratitudine) della
creatura, che ha ottenuto la vita, perché la madre l’ha legata a sé. Da questo sostantivo
fu dedotto il verbo (eu-kharistèo) εὐ-χάριστέω: sono grato,
sono riconoscente, quindi, da εὐ-χάριστέω fu
dedotto il nome: εὐ-χάριστία (eu-kharistìa):
ringraziamento, riconoscenza, gratitudine, che è altra
cosa da (eukh-aristìa) εὐχ-αριστία, parola formata dalla radice (euk) εὐχ (da tradurre: dall’ho
il passare, cioè: durante la gestazione) e dal sostantivo: ἄριστον: pranzo.
Da questo nuovo contesto fu dedotta: εὐχ-άριστία, che è il nutrimento della creatura, anzi: il
buon nutrimento, dato alla sua creatura dalla madre, con cui la
sostanzia, che si fa figlio, in altri termini, si transustanzia.
Infatti, la trasformazione di ἄριστον: pranzo in άριστία
indica un altro passaggio logico: quel pranzo, meglio quel cibo
dall’ho il passare diventa carne della creatura, che è in formazione.
I greci, per indicare ciò che è pubblico,
in modo manifesto, si avvalsero dell’immagine del grembo, coniando (faneròs)
φανερός,
che rimanda a (fàino) φαίνω: faccio
apparire, faccio vedere, mostro, verbo che, senza ombra di
dubbio, richiama ciò che fa la gravida. D’altra parte, per indicare ciò che
appartiene al popolo, ciò che è pubblico, usarono il neutro (demòsion) δημόσιον,
che è ciò che è del popolo, in greco, appunto: demo.
Publicus dei latini è,
senz’altro, l’omologo di faneròs, nel senso di visibile a tutti, per,
poi, diventare ciò che è di tutti, che appartiene a tutti,
diventando res pubblica, dove res rei (dallo scorrere genera
il legare) è da intendere come bene cui tutti concorrono a formare.
Il legame tra madre e figlio fa crescere la res. Il legare è
anche la metafora della fatica per far crescere i beni. Pertanto, in res
pubblica si rinvengono questi concetti essenziali: 1) cade sotto gli
occhi di tutti, per cui gli atti dello Stato devono essere trasparenti; 2) è
bene comune, in quanto la res pubblica è realizzata con il concorso di
tutti. Allora la res pubblica è
la metafora del grembo, dove si riesce a realizzare qualcosa di grandioso: la
creatura, ma, in questo caso, con il concorso di tutti, per cui tutti traggono
dei vantaggi. Quindi, questi sono i germi che promanano da res pubblica,
da cui scaturisce anche la superiorità della res pubblica sulle res
privatae.
I greci per indicare
ciò che è privato, che interessa il privato cittadino, si avvalsero di
(oikéios) οἰκεῖος, ad indicare tutti gli atti in favore della propria
casa, della propria famiglia e di (ìdios) ἴδιος: privato, proprio, personale,
che indicano l’impegno, la fatica per sopperire ai bisogni, a produrre ciò che
manca, a costituire un patrimonio proprio. Infatti, da ìdios fu dedotto (idìoma)
ἰδίωμα, che acquisì anche il significato di: proprietà.
I latini coniarono prima privus: il
singolo, da cui dedussero privatus, individuale, personale,
privato, proprio. Quindi, le res privatae attengono agli
interessi dei singoli, a quelli della singola persona, a quello che è mio
proprio. Da ricordare che proprius è da collegare a πρίαμαι: compero, ma, nel linguaggio del pastore, il
proprio indica, espressamente, ciò che contribuisco a far nascere.
Quindi, il privato opera per sé e quanto produce è suo ed è giusto che sia suo.
Il legare per
sé, che è il lavorare per sé, fa capire che il legame sociale, che è del civis,
è molto importante, perché porta alla salvaguardia dei suoi beni, appetiti,
talvolta, dai violenti e dagli ingiusti, per cui il consociarsi, come res
publica, diventa bene prioritario.