I TEDESCHI DEL DANUBIO
di Christian Eccher
Apatin
Il Corso di Apatin, intitolato
ai Sovrani Serbi, è ampio, fiancheggiato da case a un piano che si nascondono
dietro a un filare di alberi dai rami ancora spogli. Qua e là compare qualche
germoglio verde ad annunciare la primavera. Come ogni centro urbano della
Voivodina, anche Apatin ha una struttura regolare, caratterizzata da vie
perpendicolari. Il Corso è pedonale, per cui a meno di cento metri di distanza
è stata aperta la via Tucović, molto trafficata, che collega la città a Sombor
e a Novi Sad. Apatin coglie alla sprovvista chiunque arrivi da est, vale a dire
dalla Pianura Pannonica, da Belgrado o dall’Ungheria, da Sombor o da Vrbas. Una
manciata di case interrompe la monotonia dei campi arati, dietro alle loro
corti si nasconde la via Tucović e all’improvviso compare il centro, con la sua
Chiesa cattolica barocca, la scuola musicale e l’elegante casa in mattoncini
rossi dell’industriale Johann Mayer. L’effetto per chi raggiunga il Corso è
straniante: fino a pochi minuti prima c’erano solo la periferia, le strade non
asfaltate e i campi fumanti ai primi tepori di marzo, sui quali corrono lepri
impaurite e vagano cani randagi. Ai caffè siedono ragazze molto truccate e
uomini che parlano al cellulare. I pochi passanti mattutini si affrettano verso
l’edificio comunale o si perdono nelle vie che si ramificano dal corso, fra i
palazzi socialisti dietro ai quali si stringono case dai tetti a spiovente e
dalle tegole ricoperte di muschio. Basta percorrere una di queste stradine, che
di sera odorano di carbone e legna bruciata a impregnare di fumo le giacche e i
capelli, per arrivare al Danubio. Il fiume scorre imponente, indifferente,
solcato da grandi navi e chiatte da trasporto che vanno dal Mar Nero
all’Austria. Al di là del fiume è già Croazia: il confine di Stato è in realtà
incerto e segue il corso del Danubio di 200 anni fa, quello riportato dai libri
catastali di Vienna, per cui alcune zone che dovrebbero trovarsi in Serbia sono
in Croazia e viceversa. I governi di Belgrado e Zagabria preferiscono non affrontare
la questione, ma il territorio conteso potrebbe un domani portare a serie
tensioni e forse anche a nuove guerre. Il Museo dei tedeschi del Danubio
In una strada tranquilla a poche centinaia di metri dal
Danubio, lì dove la via si biforca per ospitare uno spiazzo verde adibito a cimitero,
ai lati di una chiesa in stile neobarocco, c’è una casa elegante, a un piano,
con la grondaia che sporge dal tetto per incanalare l’acqua piovana oltre il
marciapiede in mattoncini che costeggia le abitazioni. Era la casa
parrocchiale, quella dove abitava il prete della vicina chiesa cattolica. All’interno,
nell’unica stanza riscaldata da un’antica stufa a legna, su un enorme tavolo
scuro troneggiano pile di libri da catalogare. Lungo i muri, invece, sono
disposti scaffali ricolmi di volumi già catalogati. L’edificio, in cui ha
abitato il reverendo cattolico Adam Berenz, ospita adesso l’associazione il
museo dei tedeschi (o Svevi) del Danubio. A gestirlo, con estrema cura e con
invidiabile passione, è Boris Mašić, che di professione fa l’albergatore e
gestisce una nave da crociera la quale, prima della pandemia, mostrava le
bellezze del Danubio ai turisti di tutta Europa. Adesso è ormeggiata al porto
di Apatin, che si trova lungo un meandro del fiume, e Boris ha tempo di
occuparsi del museo. Alto, occhi chiari, un fisico da sportivo, Boris è dedito a
raccogliere l’eredità del suo popolo. La madre di Boris è una delle poche
tedesche rimaste in Voivodina e una delle ultime persone a parlare il dialetto
di queste zone. Il destino alla rovescia dei tedeschi del Danubio
I tedeschi arrivarono in Voivodina nel ’700, quando Maria
Teresa d’Austria decise di bonificare le paludi danubiane e di trasformarle in
una fertile pianura. A emigrare erano soprattutto famiglie povere, per le quali
la Pannonia simboleggiava quello che per gli italiani rappresenterà l’Australia
agli inizi del XX secolo, vale a dire la possibilità di ricevere della terra,
di lavorarla e di sopravvivere. I tedeschi sono stati per due secoli l’anima
della Voivodina, sempre una spanna avanti rispetto agli altri popoli con cui
convivevano: alcuni erano da secoli presenti in queste zone, come i serbi, i
croati e gli ungheresi, altri arrivarono come coloni, proprio come i tedeschi.
Fra i tanti, ricordiamo i russini (ucraini), gli italiani (esperti nell’allevamento
del baco da seta) e gli slovacchi. I tedeschi, al contrario dei serbi e delle
altre nazionalità, accettavano e applicavano senza pregiudizi e timori le nuove
tecniche agricole che venivano sviluppate in Europa e per questo erano ricchi,
più ricchi degli altri. Nella regione geografica della Bačka, dove si trovano
Apatin e Sombor, si stanziarono tedeschi cattolici, mentre nel Banato e nello
Srem abitavano prevalentemente protestanti. Non furono però la differenza di
classe o la religione a sancire il triste destino di questo popolo, ma la
Seconda guerra mondiale. Boris ricorda che fino al 1944 la Bačka era un
protettorato ungherese; dopo la capitolazione dell’Ungheria, passò sotto
diretta occupazione tedesca. Dei 350.000 Svevi che abitavano la Voivodina, la
metà partì volontariamente al seguito dell’esercito della Wehrmacht. Fra coloro
che decisero di andarsene, c’erano i sostenitori di Hitler che si erano
macchiati di crimini tremendi nei confronti delle altre nazionalità presenti in
Voivodina. Fra i rimasti c’erano invece contadini, proprietari terrieri,
commercianti, costruttori di navi che non avevano avuto nulla a che fare con il
nazismo. Adam Berenz
Non solo: ad Apatin, Adam Berenz aveva fondato un
movimento che si opponeva apertamente a Hitler e all’occupazione dell’esercito
tedesco. Un evento unico, se si considera che tutti le altre organizzazioni di
opposizione, e non solo nella ex Yugoslavia, erano clandestine. Il Movimento di
Berenz si riuniva attorno alla rivista “Die Donau”. Lo stesso Berenz aveva già
intuito nel 1942 a cosa avrebbe portato la guerra: all’esodo e allo sterminio
del suo popolo. Dal ’36 in poi Apatin, che era una città a livello etnico
completamente tedesca, era divisa in due: da un lato c’erano i seguaci di
Berenz e di “Die Donau”, dall’altro i simpatizzanti di Hitler, raccolti intorno
al giornale “Batschkaer Zeitung”. Nonostante gli sforzi di Berenz, dei suoi
parrocchiani e dei suoi amici, non ci fu niente da fare: nel 1944, una nota
AVNOJ (Consiglio antifascista di liberazione popolare della Yugoslavia)
proclamò tutti i tedeschi presenti sul territorio yugoslavo liberato nemici del
popolo. Dal 1946 al 1948 furono organizzati veri e propri pogrom: i tedeschi
venivano sistematicamente arrestati e portati in villaggi a loro volta trasformati
in lager. Nessuno tornò a casa. Berenz si salvò soltanto grazie alla protezione
che gli garantì l’arcivescovo József Grősz, ma
non fece mai più ritorno ad Apatin, dove, nel frattempo, arrivavano serbi dalla
Lika, che non avevano nulla contro i tedeschi; non potevano però opporsi alla
decisione dell'AVNOJ e con dolore guardavano alle famiglie che lasciavano le
proprie case per essere deportate a Garakovo, Jarak e Kruševlje nella Bačka e a
Molin e Kničanin nel Banato: i prigionieri venivano ammassati in gruppi di 100
nelle case e morivano di stenti o giustiziati. Alla fine dei pogrom, Kruševlje venne
completamente raso al suolo: è rimasto solo il cartello che segnala l'ingresso nel
paese. I tristi anni ’90
La distruzione dell’eredità tedesca è continuata per anni
fino alla totale rimozione di ogni pietra che potesse ricordare la presenza di
questo popolo in area danubiana. Negli anni Novanta del secolo scorso, gli
uomini della milizia paramilitare di Željko Ražnatović detto “Arkan” - al
servizio del Presidente Slobodan Milošević - saccheggiarono e distrussero la
chiesa cattolica barocca di San Giovanni (Sveti Ivan) a Prigrevica, un paese non
lontano da Apatin e fondato proprio dai tedeschi: Boris è riuscito a recuperare
una scultura in legno di scuola tirolese che ornava il pulpito abbattuto. Le
restanti opere d’arte presenti nel luogo sacro sono state vendute a
collezionisti senza scrupoli dagli uomini di Arkan; la chiesa è ancora senza
tetto e all’interno crescono cespugli e un albero fa capolino dai muri ormai
screpolati. Boris è riuscito anche ad ottenere delle fotografie che attestano
il momento della distruzione della Chiesa. Le aveva scattate un signore che si
trovava sul posto e che si è deciso a regalarle a Boris dopo averle nascoste per
anni a causa della paura di ritorsioni.
Boris le ha pubblicate sul proprio profilo Facebook e ha ricevuto
montagne di insulti e di minacce, a testimoniare che i tedeschi del Danubio
sono in Serbia ancora un tabù. Salvare la memoria, salvarsi dalla memoria Lo scopo di Boris è quello di recuperare, conservare i
libri e tutto ciò che possa testimoniare il passato dei tedeschi del Danubio.
Un’operazione colossale, dato che non riguarda soltanto la biblioteca, ma anche
la salvaguardia di cimiteri e cappelle tedesche, edifici e monumenti. Ogni
giorno, Boris riceve decine di libri, alcuni anche molto rari, risalenti
addirittura al XVI secolo. Conserva anche le foglie e i fiori che trova
all’interno, un vero patrimonio per i biologi, non solo per gli storici. Sono volumi
rimasti per anni in solai privati, nelle madie di qualche famiglia serba che
aveva preso possesso di una casa tedesca, nelle biblioteche ecclesiastiche. Un
lavoro titanico, che ha come unico scopo solo quello di recuperare la memoria
negata di un popolo. Boris salva la memoria, ma si è già salvato da essa: non
pensa a vendette, si sforza di capire la complessità della regione in cui vive,
non giudica chi si è macchiato di genocidio contro il suo popolo. Anni fa, è
venuto a sapere l’identità dell’uomo che aveva ucciso suo nonno, il padre di
sua madre, subito dopo la guerra. È stata la nonna a fargli capire che quel
delitto non richiedeva rivalsa, che era necessario uscire dal circolo vizioso
della Storia. Che bisognava salvare la memoria per poi salvarsi dalla memoria,
come amava ripetere Predrag Matvejević. Boris cerca anche di recuperare il retaggio di un altro
popolo voivogiano sterminato completamente, quello ebreo. È proprio Boris colui
che ha le chiavi della Sinagoga, ormai abbandonata, e che ha salvato diversi
volumi in lingua yiddish. Non tutti apprezzano il suo zelo e per alcuni
abitanti di Apatin sono incomprensibili le ragioni che lo spingono a occuparsi
anche della memoria ebrea. Il Comune di Apatin e l’Ambasciata tedesca a
Belgrado aiutano il museo dei tedeschi del Danubio con finanziamenti e
donazioni. Il lavoro titanico di Boris salverà tutto ciò che resta di un popolo
dimenticato. Grazie alla ferrea volontà di una sola persona, i tedeschi di Apatin
e del Danubio si sono salvati, almeno dall’oblio.
Intervista a Boris Mašić
Odissea: Quando
è stata aperta l’associazione dei tedeschi di Apatin “Adam Berenz”? Mašić: L’associazione
è nata nel 2001 ed è la terza associazione tedesca sul territorio serbo. Lo
scopo è quello di superare i pregiudizi che ancora esistono sui tedeschi
danubiani e di salvare il patrimonio da loro lasciato. O: Ci
sono ancora i tedeschi in Voivodina? M: Ci
sono solo i discendenti, che si sono assimilati e non conoscono più neppure la
propria lingua e la propria cultura, per cui non possiamo parlare di una vera e
propria componente nazionale tedesca. La ragione è il genocidio che ha avuto
luogo fra il 1946 e il 1948: in 70 anni c’è stata una vera e propria pulizia
etnica. Del popolo tedesco sono rimaste solo delle tracce e proprio quelle
tracce noi cerchiamo di conservare per il futuro.
O: L’associazione
è intitolata ad Adam Berenz, non per caso... M: Il Kulturbund,
l’organizzazione culturale dei tedeschi del Danubio fondata da Berenz stesso
nel 1933 ad Apatin, non era orientata verso gli ideali nazisti, almeno
all’inizio. A poco a poco, però, Hitler ha utilizzato questa organizzazione per
indottrinare i giovani. Per questa ragione, Berenz decise di fondare l’Azione
Cattolica e successivamente nacque la rivista “Die Donau”. Berenz non era certo
comunista, ma si era reso conto che i valori che ispiravano Hitler erano
contrari a quelli cristiani e vedeva che il popolo marciava anziché andare a
messa e comportarsi in maniera civile. Fra le due parti in lotta, si è arrivati
anche allo scontro fisico. Berenz era grasso e i nemici raccolti intorno al
giornale “Batschkaer Zeitung” lo rappresentavano nelle caricature come un
maiale. Gli ungheresi invece lo difendevano, ma nell’aprile del 1944, quando Budapest
capitolò, la Gestapo lo fece arrestare. Berenz era destinato a essere deportato
ad Auschwitz insieme agli ebrei rastrellati per la Voivodina. L’arcivescono di
Kalocsa (in Ungheria) József Grősz, che
era quel giorno per puro caso a Sombor, andò in prigione e liberò Berenz.
C’erano ancora le guardie ungheresi a presidiare il carcere - i tedeschi non
erano ancora riusciti a prendere il controllo di tutte le istituzioni - e permisero
a Grősz di prendere Berenz, di caricarlo in macchina e di nasconderlo a Kalocsa.
Berenz è poi diventato un monaco ed è morto nel 1968.
O: Come
sono i rapporti con la città e con gli abitanti di Apatin? M: La
città fa tutto ciò che può per aiutarci. Dalla fine della Seconda guerra
mondiale in poi non ci sono stati scontri fra serbi e tedeschi. Il problema è
che i popoli si identificano spesso con i crimini accaduti del passato. Per
esempio, se io critico il fatto che sia stata distrutta una chiesa,
automaticamente si sottintende un attacco al popolo a cui appartengono coloro
che hanno commesso il crimine. Anche i tedeschi hanno spesso fatto questo errore
riassumibile nell’affermazione: “I serbi ci hanno cacciati”. Ciò non è vero. Negli
squadroni che perseguitavano i tedeschi c’erano i peggiori teppisti: c’erano rom
e addirittura tedeschi che erano stati nazisti e speravano di farla franca. C’era
la feccia della società, indipendentemente da quale nazione appartenesse.
C’erano anche quelli che sono diventati partigiani l’ultimo giorno di guerra:
gli han messo un fucile in mano e loro terrorizzavano tutti quanti. O: Esattamente
come in Istria... M: Sì,
è la stessa matrice ovunque. Sempre, all’ultimo momento, viene fuori la feccia.
Per questo a me dà fastidio quando i tedeschi affermano che i serbi li hanno
cacciati. La Serbia è l’unico Paese in Europa che restituisce la terra confiscata
dai comunisti agli stranieri, non solo a coloro che hanno la cittadinanza. La
Croazia ha restituito gli immobili ai vecchi proprietari a patto che avessero
la cittadinanza croata. L’Ungheria anche. Ad Apatin è avvenuta la prima
restituzione di un terreno a uno straniero, ed è stato un momento storico. Io
difendo sempre questa Paese; in me c’è una parte serba e non permetto che mi
critichino senza fondamento. Emotività c’è da entrambe le parti. Si sa chi ha
commesso i crimini, ma ci sono stati uomini come Berenz, e insieme a lui
migliaia di persone nel movimento antinazista forse più grande d’Europa. La mia
famiglia è rimasta qui perché era contro la guerra, noi volevamo solo lavorare.
Quelli che erano nelle SS se ne sono andati e noi abbiamo pagato, come gli
italiani in Istria. Chi era col Duce se n’è andato subito e a chi è rimasto è
stato presentato il conto.
Nota Sulla distruzione della chiesa di Sveti Ivan, di cui
parlo nell'articolo, sono state scattate numerose foto all'inizio degli anni ’90 da un signore che vuole rimanere anonimo perché ha paura di ritorsioni.
Boris le ha pubblicate sul suo sito Facebook e riceve una valanga di insulti. [C. Eccher]
Il Corso di Apatin, intitolato
ai Sovrani Serbi, è ampio, fiancheggiato da case a un piano che si nascondono
dietro a un filare di alberi dai rami ancora spogli. Qua e là compare qualche
germoglio verde ad annunciare la primavera. Come ogni centro urbano della
Voivodina, anche Apatin ha una struttura regolare, caratterizzata da vie
perpendicolari. Il Corso è pedonale, per cui a meno di cento metri di distanza
è stata aperta la via Tucović, molto trafficata, che collega la città a Sombor
e a Novi Sad. Apatin coglie alla sprovvista chiunque arrivi da est, vale a dire
dalla Pianura Pannonica, da Belgrado o dall’Ungheria, da Sombor o da Vrbas. Una
manciata di case interrompe la monotonia dei campi arati, dietro alle loro
corti si nasconde la via Tucović e all’improvviso compare il centro, con la sua
Chiesa cattolica barocca, la scuola musicale e l’elegante casa in mattoncini
rossi dell’industriale Johann Mayer. L’effetto per chi raggiunga il Corso è
straniante: fino a pochi minuti prima c’erano solo la periferia, le strade non
asfaltate e i campi fumanti ai primi tepori di marzo, sui quali corrono lepri
impaurite e vagano cani randagi. Ai caffè siedono ragazze molto truccate e
uomini che parlano al cellulare. I pochi passanti mattutini si affrettano verso
l’edificio comunale o si perdono nelle vie che si ramificano dal corso, fra i
palazzi socialisti dietro ai quali si stringono case dai tetti a spiovente e
dalle tegole ricoperte di muschio. Basta percorrere una di queste stradine, che
di sera odorano di carbone e legna bruciata a impregnare di fumo le giacche e i
capelli, per arrivare al Danubio. Il fiume scorre imponente, indifferente,
solcato da grandi navi e chiatte da trasporto che vanno dal Mar Nero
all’Austria. Al di là del fiume è già Croazia: il confine di Stato è in realtà
incerto e segue il corso del Danubio di 200 anni fa, quello riportato dai libri
catastali di Vienna, per cui alcune zone che dovrebbero trovarsi in Serbia sono
in Croazia e viceversa. I governi di Belgrado e Zagabria preferiscono non affrontare
la questione, ma il territorio conteso potrebbe un domani portare a serie
tensioni e forse anche a nuove guerre.
Il Museo dei tedeschi del Danubio
I tristi anni ’90
Mašić: L’associazione
è nata nel 2001 ed è la terza associazione tedesca sul territorio serbo. Lo
scopo è quello di superare i pregiudizi che ancora esistono sui tedeschi
danubiani e di salvare il patrimonio da loro lasciato.
O: Ci
sono ancora i tedeschi in Voivodina?
M: Ci
sono solo i discendenti, che si sono assimilati e non conoscono più neppure la
propria lingua e la propria cultura, per cui non possiamo parlare di una vera e
propria componente nazionale tedesca. La ragione è il genocidio che ha avuto
luogo fra il 1946 e il 1948: in 70 anni c’è stata una vera e propria pulizia
etnica. Del popolo tedesco sono rimaste solo delle tracce e proprio quelle
tracce noi cerchiamo di conservare per il futuro.
O: L’associazione
è intitolata ad Adam Berenz, non per caso...
M: Il Kulturbund,
l’organizzazione culturale dei tedeschi del Danubio fondata da Berenz stesso
nel 1933 ad Apatin, non era orientata verso gli ideali nazisti, almeno
all’inizio. A poco a poco, però, Hitler ha utilizzato questa organizzazione per
indottrinare i giovani. Per questa ragione, Berenz decise di fondare l’Azione
Cattolica e successivamente nacque la rivista “Die Donau”. Berenz non era certo
comunista, ma si era reso conto che i valori che ispiravano Hitler erano
contrari a quelli cristiani e vedeva che il popolo marciava anziché andare a
messa e comportarsi in maniera civile. Fra le due parti in lotta, si è arrivati
anche allo scontro fisico. Berenz era grasso e i nemici raccolti intorno al
giornale “Batschkaer Zeitung” lo rappresentavano nelle caricature come un
maiale. Gli ungheresi invece lo difendevano, ma nell’aprile del 1944, quando Budapest
capitolò, la Gestapo lo fece arrestare. Berenz era destinato a essere deportato
ad Auschwitz insieme agli ebrei rastrellati per la Voivodina. L’arcivescono di
Kalocsa (in Ungheria) József Grősz, che
era quel giorno per puro caso a Sombor, andò in prigione e liberò Berenz.
C’erano ancora le guardie ungheresi a presidiare il carcere - i tedeschi non
erano ancora riusciti a prendere il controllo di tutte le istituzioni - e permisero
a Grősz di prendere Berenz, di caricarlo in macchina e di nasconderlo a Kalocsa.
Berenz è poi diventato un monaco ed è morto nel 1968.
O: Come
sono i rapporti con la città e con gli abitanti di Apatin?
M: La
città fa tutto ciò che può per aiutarci. Dalla fine della Seconda guerra
mondiale in poi non ci sono stati scontri fra serbi e tedeschi. Il problema è
che i popoli si identificano spesso con i crimini accaduti del passato. Per
esempio, se io critico il fatto che sia stata distrutta una chiesa,
automaticamente si sottintende un attacco al popolo a cui appartengono coloro
che hanno commesso il crimine. Anche i tedeschi hanno spesso fatto questo errore
riassumibile nell’affermazione: “I serbi ci hanno cacciati”. Ciò non è vero. Negli
squadroni che perseguitavano i tedeschi c’erano i peggiori teppisti: c’erano rom
e addirittura tedeschi che erano stati nazisti e speravano di farla franca. C’era
la feccia della società, indipendentemente da quale nazione appartenesse.
C’erano anche quelli che sono diventati partigiani l’ultimo giorno di guerra:
gli han messo un fucile in mano e loro terrorizzavano tutti quanti.
O: Esattamente
come in Istria...
M: Sì,
è la stessa matrice ovunque. Sempre, all’ultimo momento, viene fuori la feccia.
Per questo a me dà fastidio quando i tedeschi affermano che i serbi li hanno
cacciati. La Serbia è l’unico Paese in Europa che restituisce la terra confiscata
dai comunisti agli stranieri, non solo a coloro che hanno la cittadinanza. La
Croazia ha restituito gli immobili ai vecchi proprietari a patto che avessero
la cittadinanza croata. L’Ungheria anche. Ad Apatin è avvenuta la prima
restituzione di un terreno a uno straniero, ed è stato un momento storico. Io
difendo sempre questa Paese; in me c’è una parte serba e non permetto che mi
critichino senza fondamento. Emotività c’è da entrambe le parti. Si sa chi ha
commesso i crimini, ma ci sono stati uomini come Berenz, e insieme a lui
migliaia di persone nel movimento antinazista forse più grande d’Europa. La mia
famiglia è rimasta qui perché era contro la guerra, noi volevamo solo lavorare.
Quelli che erano nelle SS se ne sono andati e noi abbiamo pagato, come gli
italiani in Istria. Chi era col Duce se n’è andato subito e a chi è rimasto è
stato presentato il conto.
Sulla distruzione della chiesa di Sveti Ivan, di cui
parlo nell'articolo, sono state scattate numerose foto all'inizio degli anni ’90 da un signore che vuole rimanere anonimo perché ha paura di ritorsioni.
Boris le ha pubblicate sul suo sito Facebook e riceve una valanga di insulti. [C. Eccher]