Incontri
NEL TREMORE DEGLI ANNI
Conversazione con Filippo Ravizza
Filippo Ravizza nel suo studio
Nato a Milano nel 1951, Filippo
Ravizza compirà quest’anno 70 anni. Li festeggerà con la sua nona raccolta di
poesia dal titolo Nel tremore degli anni uscito presso le edizioni di
Puntoacapo. I lettori vi troveranno delle note critiche di approfondimento di
Gianmarco Gaspari, Giuliana Nuvoli e Ivan Fedeli. Abbiamo colto l’occasione per
rivolgergli alcune domande.
Odissea: Nove raccolte poetiche in circa
35 anni, mentre ti avvii nel pieno della maturità. Puoi tracciare un breve
bilancio di questo tuo percorso poetico?
Ravizza: La mia prima raccolta, "Le
porte" è uscita nel novembre del 1987; da quasi 35 anni,
effettivamente. Ma ad essa va cronologicamente sommato un intenso lavorio, una
costante attività appassionata della parola poetica che va retrodatata almeno
al 1979, anno in cui iniziai a scrivere di poesia nella redazione milanese del
quotidiano "la Repubblica", che allora si trovava in Via
Turati, all'inizio di Via Turati, quasi nella piccola Piazza Cavour. Quegli
anni, dal 1979 al 1986, furono molto intensi: riuscii a diventare in tempi
brevi il critico di poesia delle pagine milanesi di "la Repubblica",
un po' anche perché gli altri giovani accorsi a collaborare con quelle pagine,
dopo attenta selezione di Giampiero Dell'Acqua, burbero maestro intelligente di
tutti noi, avevano altre specializzazioni e altra vocazione. Un po' anche
perché proprio allora (1979, fine Anni Settanta) iniziava a prendere piede
anche in Italia (vedi Festival di Castelporziano a Roma, proprio nel 1979)
l'abitudine, fino allora prevalentemente nord-europea, russa e nord-americana,
dei "readings", cioè delle letture in pubblico, da parte dei
poeti, delle proprie poesie. Una coincidenza fortunata, quest'ultima,
indubbiamente. In quegli anni portai avanti anche collaborazioni con riviste;
ricordo "Schema", pubblicazione partita da un gruppo di ragazzi di
Milano, che arriverà ad avere redazioni in tutte le principali nazioni
europee, fondata da Franco Manzoni, a cui collaborai per lunghi periodi, anche
a tratti co-dirigendola insieme a Manzoni; ma anche altre testate come
"Post-Scriptum", "L'Ozio Letterario", "Confini",
"In Folio", "Margo" di cui fui co-direttore con Mauro Germani
e Federico Battistutta. Prima ancora, nella prima metà degli Anni Settanta,
avevo partecipato alle riunioni, in Via Rosales, dalle parti di Porta
Garibaldi, della redazione di "Niebo": un altro folto gruppo
di giovani milanesi riuniti intorno alla figura del fondatore, Milo De
Angelis. È da lì, è questo il retroterra già in qualche modo assestato da cui
arrivo quando escono "Le porte", nel 1987. Da lì parte un
cammino, che visto riavvolgendo il nastro del tempo, mi pare coerente su alcuni
capisaldi e che arriva, attraverso nove titoli, centinaia di articoli e qualche
saggio critico, al 2021. Vi sono infatti, dentro a questo percorso letterario
ed esistenziale, tematiche che io riconosco essere scaturigine e nerbo di tutta
la mia produzione poetica: la riflessione sui rapporti tra vero poetico e vero
storico, sull'enigma del tempo; sul destino e sulla mancanza di un destino; sul
"grande mai più" ovvero l'annientamento che ci attende. A livello
formale ho sempre cercato di far sì che, nei miei versi, fosse sempre
avvertibile l'andamento ritmico, la cadenza timbrica che deve distinguere
la parola della poesia, che deve continuare ad essere diversa ed altra rispetto
alla parola della prosa.
Filippo Ravizza
Odissea: Qual è il filo conduttore che
lega un itinerario che è rimasto fedelissimo alla parola poetica e come lo spieghi?
Ravizza: Qui ci sono, mi pare, due
risposte possibili che possono però essere date anche in contemporanea, nel
senso che una non esclude l'altra. La prima è che magari ci si ritiene poco
idonei ad altre forme espressive. Io, per esempio, non credo di essere capace
di scrivere un romanzo e comunque ho sempre desiderato avvertire la musicalità,
la componente musicale delle parole e le loro sinergie timbriche. E qui, entra
in campo la seconda delle risposte possibili, quella che - confesso - ritengo
giusta nel mio caso: la vocazione. Da vocàtus, chiamato, participio passato di
vocàre, chiamare. La vocazione i
vocabolari la definiscono anche come "un movimento interiore" per cui
ci si sente chiamati. Sono d'accordo, e dico addirittura che forse nel mio caso
questo "movimento interiore" è diventato amore, amore per la parola
poetica. Amore per cui ho poi anche accettato di pagare dei prezzi, a dirla
tutta, perché l'amore per la parola della poesia, non è mai stato
particolarmente funzionale al buon andamento del sistema capitalistico; ma qui
il discorso si fa sterminato e non posso quindi svilupparlo di più.
Odissea: L’Europa e la razionalità mi
sembrano due motivi forti all’interno della tua visione di poeta.
Ravizza: Per iniziare a risponderti cito
gli ultimi sette versi di una mia poesia contenuta nella raccolta "Nel
secolo fragile" uscita nel 2014: "[...] ti penserò nelle
notti/ attraversate dalle automobili/ in faccia alle tue mille e mille/ vetrine
alle tue merci al/ tuo destino che ormai sta tutto/ nella mancanza acuta e
forte/ di un destino." La poesia che qui ho appena citato si chiama
"Europa Europa" ed è una sorta di riflessione su questa grande
piattaforma continentale, oggi ormai affacciata sul vuoto, come un fragile e
poroso contrafforte, esposto pericolosamente su un abisso: l'abisso della
perdita di qualsiasi orizzonte, dello smarrirsi di qualsiasi cammino capace di dare senso e
funzione nella Storia a questo nostro continente, ormai incapace di svolgere un
compito, ossia privo di destino o meglio denotato da un destino tragico: il
destino di non avere più alcun destino. È una situazione storica determinatasi
gradualmente negli ultimi decenni che pone tutta la cultura europea in una
situazione di stallo e realizza, oggi, con e attraverso il tramonto che
parrebbe definitivo, di tutte le grandi narrazioni novecentesche, da un lato la
fatalistica resa ad una supposta "realtà delle cose" che ci ha fatto
dimenticare come la realtà sia solo un prodotto delle idee degli uomini,
soggetta quindi sempre ad essere cambiata se solo gli uomini non perdessero la
consapevolezza di esserne i soli e unici artefici; dall'altro (realizza) il
dominio pervasivo e totalizzante - al
punto di non aver più bisogno neppure di essere proclamato -
dell'ideologia che dice che è finita
l'epoca delle ideologie: la più infame e falsa di tutte le ideologie. Tutto ciò
che costituisce il reale viene dalle idee degli uomini, calate dialetticamente
dentro al tempo della Storia. Tutto ciò che è avvenuto in ogni epoca è avvenuto
perché rapporti di forza hanno determinato la prevalenza di alcune idee su
altre. In questo senso, ci ha insegnato Hegel, nulla di quanto si invera, nulla
di quanto si concretizza (anche il male! Anche Auschwitz! Anche Hiroshima!)
sfugge ad un "sistema razionale di pensiero", razionale nel senso di
conseguenziale e prevedibile all'interno dei propri (infami, nei casi citati)
meccanismi percettivi. La poesia è chiamata a diffondere consapevolezza di ciò;
può contribuire alla battaglia globale di autoaffermazione di una coscienza
pacifica e solidale e soprattutto egualitaria, del mondo.
Odissea: Nella tua recentissima raccolta
Giammarco Gaspari nelle pagine che la introducono, insiste su un paio di motivi
forti: il nulla e il vuoto. Puoi tornare su questi due postulati
che mi sembrano fortemente esistenziali oltre che apertamente filosofici?
Ravizza: Sì, nulla e vuoto, ma anche il
niente. Sono parole-concetto (ammesso e non concesso che si possa
concettualizzare veramente il nulla) che ricorrono in tutta la mia produzione
poetica, direi se non sin da "Le porte" (1987), sicuramente a
partire almeno da "Vesti del pomeriggio" la mia seconda
silloge, uscita da Campanotto Editore nel 1995. Noi, noi esseri umani, siamo,
dice Martin Heidegger ed io concordo con lui in pieno, brevi archi di tempo
"tra un non ancora e il grande mai più". C'è una mia poesia, "Sciolto
nell'aria", contenuta nella raccolta "Nel secolo fragile"
uscita nel 2014 per La Vita Felice Editore, in cui cerco di dire perché il
nulla, il niente da cui veniamo e a cui torneremo mi sembra uno snodo teoretico
fondamentale nell'esistenza di ogni persona: "[...] Di/ colpo, sai,
spariremo per sempre,/ di colpo, sai, morirà la memoria/ che noi abbiamo di
noi, che io/ ho di me, che tu hai di te.../ dopo un secondo, un solo secondo/
dopo, il mondo, tutto il mondo, non sarà/ mai esistito, unico essente il
niente/ bucata vacuità su cui siamo scivolati/".
Filippo Ravizza
Odissea: Giuliana Nuvoli in postfazione
ha ripreso il concetto di nulla facendolo precedere da un aggettivo altrettanto
denso e impegnativo come verità. “Verità del nulla” scrive Nuvoli della
tua poesia e lo rapporta alla sconsolata verità leopardiana.
Ravizza: Qui citi Giuliana Nuvoli,
precedentemente hai citato Gianmarco Gaspari. Ti ringrazio perché cogli, citandole,
l'importanza che hanno, nell'economia generale di questo mio ultimo libro, di
"Nel tremore degli anni", queste due splendide, acute ed
empatiche, compartecipi riflessioni sul mio lavoro di questi due valorosi
amici, valorosi letterati e critici. E aggiungo anche la bella e centratissima
"quarta di copertina" firmata da Ivan Fedeli. Venendo allo specifico
della tua domanda, tento per prima cosa una risposta diretta, asciutta: il
nulla per me è la morte, ma attenzione: è la morte che tracima dai propri "confini"
e, come una forza sotterranea che si espande sotto superficie, impronta di sé
la qualità e la natura della superficie stessa connotandola di una ben precisa
identità: la superficie di questo terreno (l'esistenza) una volta impregnata da
questa corrente sotterranea, diviene una
"superficie-destinata-al-nulla". E questa dell'annientamento che ci
attende è forse l'unica vera "verità" che può essere scritta con la
"V" maiuscola e l'articolo determinativo davanti; "la Verità del
Nulla", per l'appunto. Questo improntare di sé l'esistenza, da parte della
morte, può apparire, di primo acchito, un dato sommamente tragico. In realtà,
esso può essere la chiave dell'unica autenticità possibile per l'essere
umano, quello che Martin Heidegger chiamava "essere-per-la-morte",
una sorta di liberazione da tutti i condizionamenti tutte le vacuità di
superficie che il contesto sociale pone per farci dimenticare a cosa siamo
destinati. Se riusciamo a sedimentare nel profondo tutta la consapevolezza di
essere solo "un breve arco di tempo" possiamo porre come obiettivo
del nostro agire solo quello di realizzare la nostra identità più profonda,
puntare solo ad essere quello che sentiamo di essere, imporre al mondo la
nostra natura sino a raggiungere quell'universale riconoscimento che Georg
Wilhelm Friedrich Hegel ne "La filosofia della storia universale"
(Volume primo, parte II, capitolo 2) definisce felicità: "Esso (l'individuo,
nota mia) si vuole secondo la determinazione della sua finitezza, della sua
particolarità, vuole che un altro gli stia di fronte [...] gli individui
vogliono l'esserci della loro finitezza [...] se hanno attuato questa
armonia nella misura in cui si sono conciliati, allora li si definisce felici;
si definisce infatti felice colui che si ritrova in armonia con sé, che si gode
nel suo esserci. È pertanto qui la giusta collocazione della felicità". Hegelianamente
quindi, la felicità dell'individuo è la condizione in cui
l'individuo riconosce sé stesso nel giudizio, nell'immagine che egli stesso ha
di sé e ne constata la coincidenza, direi addirittura la sovrapposizione, con
quella (l'immagine) che gli altri hanno di lui. Giacomo Leopardi mi è
particolarmente caro per la potenza e l'asciuttezza dello sguardo, per
l'acutezza con cui ha presentito ed individuato "La Verità del Nulla"
e la sua pervasività dentro alla nostra esistenza individuale. Giuliana Nuvoli
parla di "comune sentire" tra me e il grande recanatese;
effettivamente nella radicalità spietata con cui Leopardi analizza la natura
dell'esistenza io mi sono sempre ritrovato; grato e commosso, consapevole di
essere di fronte ad un grande pensatore, un grande poeta e un autentico
Maestro.
Giacomo Leopardi |