RIPENSARE LA CITTÀ
di
Maria Carla Baroni
Città
metropolitana e co-pianificazione dopo la pandemia.
Che
fare?
Da
qualche mese a Milano si ricomincia a parlare della Città Metropolitana
Milanese, di come rilanciarla per farla diventare quello che sarebbe
indispensabile fosse, mettendo in soffitta il guscio vuoto realizzato a seguito
della famigerata legge Del Rio (legge56/2014) e dando corpo alle finalità
adeguate a un ente di governo del territorio di area vasta, titolare della
pianificazione strategica e della pianificazione territoriale/ambientale. La
legge istitutiva prevede come compito principale delle Città Metropolitane, definite
enti territoriali di area vasta, la “cura dello sviluppo strategico del
territorio metropolitano”, anche se poi di fatto ne impedisce, con le sue
prescrizioni, lo svolgimento. Lo statuto della Città Metropolitana Milanese la
definisce, all’art. 1, “ente finalizzato alla cura della popolazione e allo
sviluppo strategico e sostenibile del territorio metropolitano”. Non si
potrebbe scrivere meglio. Ma la realtà dice tutt’altro.
La prima cosa da ottenere è l’elezione a
suffragio universale sia del sindaco o sindaca (diverso/a da quello/a del
Comune principale), sia del Consiglio metropolitano. Un’elezione di secondo
livello ha comportato il disinteresse delle forze politiche, della cittadinanza
attiva, dei media nei confronti della Città Metropolitana: evidentemente ciò
che si voleva ottenere. Con la configurazione data alle Città Metropolitane
dalla legge Del Rio e con il depotenziamento (fin quasi alla sparizione di
fatto) delle Province, cui la grande legge 142/1990 aveva attribuito compiti
che avrebbero consentito di superare la frammentazione comunale nell’uso e nella tutela del suolo, si era voluto dare un colpo
mortale proprio alla concezione del territorio come risorsa fondamentale non
riproducibile e quindi da utilizzare con grande lungimiranza, a vantaggio delle
generazioni attuali e di quelle future.
Si
è talora detto che il territorio è un
bene comune, il che nella sostanza è vero, ma l’uso sempre più esteso del
concetto di bene “comune” porta a mio parere a svilirlo, a renderlo
inefficacie, oltre che lontano dalla realtà: il suolo, infatti, a differenza dell’aria e
delle acque, è soggetto al diritto di proprietà, il terribile diritto di cui
aveva scritto Stefano Rodotà nel 1981 e, prima ancora, nel XVIII secolo, Cesare
Beccaria.
Preferisco
allora considerare il territorio come basamento sia di tutte le forme di vita
(anche gli uccelli - per una parte del loro tempo - si posano nei nidi, sugli
alberi e sulle rocce), sia di tutte le attività umane, e anche come continuità
vivente nonostante il susseguirsi delle singole porzioni di suolo assoggettate al diritto di proprietà
e ai diversi usi che i singoli proprietari ne fanno. In un recente e
interessante incontro organizzato da Emilio Battisti e dal gruppo di lavoro
“Milano dopo la pandemia”, Giuseppe Longhi ha indicato - come uno dei modi per
ottenere una metropoli a bassa entropia - la necessità di definire l’ambito
metropolitano in base a spazi biotici e non politico/amministrativi. In teoria
questa proposta potrebbe non fare una grinza, ma il territorio della Città
Metropolitana Milanese fa parte di un’unica estesa pianura alluvionale, ricca
di acque costituenti il bacino del Po e tutte correnti verso il Mar Adriatico,
scarsissima di venti, in cui l’aria inquinata dalle attività umane ristagna per
lunghi periodi in misura tale da rendere la pianura padana una delle aree più
inquinate dell’intero pianeta.
In
base al criterio di Longhi dovremmo considerare - in base a spazi biotici
sostanzialmente omogenei - un’unica metropoli, a questo punto non più milanese
ma padana. Dovremmo quindi ipotizzare come ente di governo del territorio
un’unica istituzione politica padana di area quasi sconfinatamente vasta?
A
parte l’assonanza con una proposta antistorica e secessionista di qualche
decennio fa, una istituzione di tali dimensioni sarebbe concretamente
ingovernabile, a partire proprio dal punto di vista territoriale e ambientale
per la salute umana e per il mantenimento della vita sul pianeta. Già vari decenni
fa Giovanni Astengo considerava anche la dimensione regionale incompatibile, in
quanto troppo ampia, con una vera e propria pianificazione, contenente
strategie, priorità e prescrizioni vincolanti.
Inoltre
una metropoli, un’area metropolitana si forma durante processi storici, nel caso
milanese più che bimillenari; nel nostro caso è da molto tempo un’area - troppo
- densamente costruita, densamente abitata da una molteplicità di persone,
usata per scopi e attività differenti e in evoluzione, connessa da intense relazioni
sociali, produttive, culturali, politiche, anch’esse dinamiche. I confini
politico/amministrativi sono quindi frutto di queste stratificazioni e
modificarli sarebbe un’impresa quasi impossibile. A che pro’, poi? Indispensabile
sarebbe invece un accorpamento per riparare all’improvvida separazione della
Provincia di Monza e Brianza dall’allora Provincia di Milano: i territori di
entrambe costituiscono una continuità urbanizzata e densamente abitata, che nei
prossimi anni verrà collegata con il proseguimento della linea rossa della
metropolitana fino all’ospedale San Gerardo di Monza. Con questa scelta infrastrutturale,
sia pure molto tardiva (scelta che oserei dire di semplice ed elementare buon
senso), si è preso atto di una realtà incontrovertibile: il passo successivo,
coerentemente, deve essere il far rientrare la Provincia di Monza e Brianza
nell’attuale Città Metropolitana Milanese; lasciando ovviamente alla città di
Monza le sedi dei servizi pubblici e privati, degli enti e istituzioni che vi si
erano insediati a seguito della separazione. Basterebbero la volontà politica e
un provvedimento legislativo statale, semplice e veloce.
Ripartiamo
quindi - per avanzare le nostre proposte di tutela della salute e della vita -
dalla Città Metropolitana Milanese ricomposta in base alle sue effettive
caratteristiche antropiche, con i suoi confini politico/amministrativi
ricomposti: sapendo però che non si tratta di un’isola, ma di una porzione di territorio
che fa parte di aree molto più estese, con cui è connessa in molti modi;
sapendo che i confini politico/amministrativi non possono - non devono - essere
muri, barriere, e che, oltre i confini di ogni istituzione, altri enti
territoriali - confinanti - esplicano analoghe funzioni su altre porzioni di
territorio su cui hanno competenza di scelta e decisione.
Le
istituzioni politico/amministrative locali sono indispensabili per dare corpo
al principio - che è sia dell’ambientalismo sia del movimento delle donne -
“pensare globalmente, agire localmente”.
Ma
la maglia degli imprescindibili confini politico/amministrativi costituisce in
un certo senso una frammentazione del territorio in quella estesa pianura
alluvionale che chiamiamo padana, in quello spazio biotico per vari aspetti
omogeneo. Alla discrasia tra la continuità del territorio e l’imprescindibilità
dei confini per circoscrivere gli ambiti in cui ogni singola istituzione di
area vasta deve esercitare scelte di governo può però essere posto rimedio in modo
efficace: un primo modo potrebbe essere l’utilizzare adeguatamente l’Autorità
di Bacino del Po come ente di monitoraggio, di studio, di ricerca, di
indirizzo in merito alle politiche per il
riassetto idrogeologico a partire dalle zone collinari e montane a corona della
pianura, alla cura del territorio e delle acque in ogni loro aspetto, magari
abbinando alle attuali competenze sulle acque competenze sulle politiche per il
risanamento dell’aria. Autorità da dotare di adeguate risorse umane, tecnologiche,
finanziarie, in modo da farla diventare autorevole, che elabori con le Regioni
linee di indirizzo, poi fatte proprie dalle Regioni (anche adattandole a
eventuali specificità territoriali) e che servano a loro volta a indirizzare la
pianificazione strategica e la pianificazione territoriale/ambientale delle Città
Metropolitane e delle Province. Autorità che solleciti proposte e valorizzi e
diffonda eventuali progetti pilota da parte degli enti territorialmente più
ristretti. Come funziona attualmente l’Autorità di Bacino del Po? Svolge questi
compiti? Non se ne legge mai nulla, non dico sulla stampa quotidiana, ma
neppure nei periodici a tematica ambientale.
Un
secondo modo potrebbe essere una modalità di pianificazione congiunta o
intrecciata o reciproca tra istituzioni territoriali confinanti, che chiamerei
copianificazione. Istituzioni confinanti possono avere in comune elementi più o
meno “naturali” (rilievi, fiumi, boschi, parchi, coltivazioni, ecc.), gli
ambiti serviti da strutture di secondo livello (grandi ospedali, plessi
scolastici, grande distribuzione organizzata, poli logistici, ecc.) e
infrastrutture di mobilità (strade, autostrade, ferrovie).
Su
territori confinanti con elementi in comune istituzioni differenti potrebbero
voler perseguire politiche divergenti o comunque non correlate, vanificando gli
interventi l’una dell’altra o addirittura contrastandoli, o comunque politiche
tali da scaricare sui territori confinanti effetti indesiderati. Un caso
emblematico potrebbe essere quello di un fiume che attraversi da nord a sud il
territorio di più istituzioni: se una istituzione a valle volesse risanare le
acque del suo tratto di fiume, tale politica sarebbe compromessa se
l’istituzione a monte non praticasse le stesse modalità di intervento.
La
copianificazione potrebbe fornire soluzioni, nel senso che ogni istituzione o
ente territoriale di secondo livello dovrebbe far conoscere, prima dell’adozione,
lo schema dei propri piani a tutte le istituzioni confinanti, chiedendone una
valutazione e una discussione congiunta, in modo da poter unificare obiettivi e
rendere efficaci le rispettive politiche. In caso di disaccordo lieve,
eminentemente attuativo, le soluzioni potrebbero essere individuate in sede
tecnico/progettuale, anche approfondendo l’analisi di alcune questioni
controverse. In caso di disaccordo sostanziale sugli obiettivi di
pianificazione occorrerebbe allargare la discussione alle forze politiche e
alla cittadinanza attiva di entrambi i territori congiuntamente e coinvolgendo
la stampa, generalista e specializzata, e gli altri media. Questa modalità
allungherebbe i tempi di elaborazione dei piani, ma ne migliorerebbe
enormemente l’efficacia. Un’ individuazione partecipata fin dall’inizio degli
obiettivi di pianificazione andrebbe attuata – ovviamente - anche in merito a
ogni singolo piano di ogni singolo ente territoriale, per adeguarlo alle
esigenze della popolazione, ma risulta ancora più importante per rendere
compatibili tra loro i piani degli enti contermini.
Intendo
la copianificazione territoriale/ambientale finalizzata unicamente a un
consistente risanamento del suolo, delle acque e dell’aria, per cui non è
sufficiente che sia contenuta in una legge. Una norma statale che la prevedesse
(basterebbe un solo articolo da inserire in una legge già esistente, ad es.
nella indispensabile modifica della legge 56/2014) sarebbe molto utile come
sponda all’agire, ma essa dovrebbe diventare frutto soprattutto di una
maturazione diffusa riguardante la cura del territorio, dell’ambiente, del clima,
in definitiva della salute, degli umani e di tutti gli esseri viventi.
Già
solo il proporre questa modalità pianificatoria con le finalità indicate, così
come riproporre una Città Metropolitana concretamente in grado di adempiere ai suoi essenziali
compiti scritti sulla carta, è un modo per contribuire a quella trasformazione
radicale dell’organizzazione delle attività umane sul territorio, del modo di
produrre e, quindi, di consumare, abitare e muoversi, che chiamiamo trasformazione ecologica e che
la pandemia da Covid 19 ci ha dimostrato essere indispensabile.
Per
portare avanti queste proposte occorre costituire un soggetto collettivo, un
comitato che potremmo chiamare Comitato Città Metropolitana Milanese - C.C.M.M.
- senza costi, senza pratiche amministrativo/giuridico/notarili, solo con un
po’ di entusiasmo e di volontà di contribuire alle scelte riguardanti il
territorio che abitiamo: costituito non solo da urbanisti/e, ma anche da
cultori/trici di altre discipline - attinenti o meno il territorio -, da
esponenti del mondo della cultura e di forze politiche e sindacali di vario
orientamento, anche da soggetti collettivi più o meno strutturati come ad es.
associazioni ambientaliste e culturali, comitati di cittadini e cittadine, periodici
anche online, ovviamente non solo milanesi ma di tutti gli altri Comuni costituenti
la Città Metropolitana, purché accomunati/e dalla stessa volontà di rianimare
la Città Metropolitana come effettivo
ente di governo del territorio democratico
e partecipato, in grado di tutelare il
mantenimento della vita sulla nostra porzione di pianeta.
Nel
2005, con un apposito appello, era stata avviata la costituzione di un “Comitato
per la Città Metropolitana” promosso da Valentino Ballabio, Giuseppe Boatti,
Luigi Lusenti, Giuseppe Natale e Ugo Targetti; per quel che ricordo poi non
concretizzata, ma da riprendere e portare a buon fine. Nel dicembre 2015 il
Forum Civico Metropolitano di Giuseppe Natale aveva organizzato un’iniziativa
pubblica centrata sulla domanda: “Quale Città Metropolitana Milanese?”. È arrivato
il momento - per “merito” della pandemia - di riaggregare idee, volontà e
forze. Se non ora, quando?
Nulla
vieta poi che il Comitato milanese prenda contatti con soggetti analoghi
operanti in altre realtà metropolitane e che da Milano parta un movimento
nazionale basato su un Manifesto che individui i contenuti trasformativi comuni
a tutte le Città Metropolitane (eventualmente da puntualizzare poi in base a
specificità locali) e alla revisione profonda della legge Del Rio.
Tale
revisione dovrà affrontare anche la questione della finanza locale, per rendere
effettivo il funzionamento degli enti territoriali sia di primo livello (i
Comuni), sia di secondo (Città Metropolitane e Province). Non è più accettabile
che tale funzionamento sia subordinato alle trappole del debito pubblico ( di
cui gli enti territoriali sono responsabili solo in misura irrisoria), del patto di stabilità interno, del pareggio di
bilancio, del continuo assottigliamento dei trasferimenti di risorse dallo
Stato agli enti locali iniziato decenni fa: tutti strumenti per giustificare
l’esternalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici, soprattutto
comunali, e l’assenza di operatività di Città Metropolitane e Province, con
l’abbandono di fondamentali attività pubbliche, soprattutto in ambito
territoriale e scolastico. A maggior ragione in questa fase, in cui la pandemia
si è fatta pesantemente sentire anche per quanto riguarda le entrate degli enti
locali.
Si
tratta in sostanza di estendere alle Città Metropolitane la proposta che Attac
Italia ha avanzato nel 2018 per quanto riguarda i Comuni e le città non meglio
identificate e cioè il rivendicare, al posto del pareggio di bilancio finanziario,
il “pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere, ovvero una spesa
pubblica locale necessaria e incomprimibile, finalizzata al riconoscimento dei
diritti individuali e sociali”. Proposta che richiede, come prospettato da anni
sia da Attac sia da altri soggetti sociali anche milanesi, la
ripubblicizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, ridestinandola al suo
iniziale compito di erogatrice di finanziamenti agli enti locali a tassi
agevolati, in modo da consentirne gli investimenti.