N. Chomsky |
In quest’intervista, Chomsky parla della portata senza
precedenti delle proteste nate dall’omicidio di George Floyd e degli effetti
devastanti della politica di Trump sul disastro climatico, sulla gestione della
pandemia e sulla democrazia statunitense.
Nessun intellettuale pubblico è stato più influente negli Stati Uniti
nell’ultimo mezzo secolo di Noam Chomsky, leggendario linguista, analista
politico e attivista, nonché autore di decine di libri. All’età di novantun’anni,
Chomsky ha ancora un’agenda ricca di impegni e appuntamenti per interviste, compresa
questa con Michael Brooks*.
N. Chomsky |
Cosa pensi del movimento sorto dopo le uccisioni di George Floyd e Breonna Taylor per mano della polizia?
La prima cosa che mi viene in mente è la portata vasta e senza
precedenti di partecipazione, impegno e consenso di massa. I sondaggi sono da
togliere il fiato. Il consenso sia per Black Lives Matter sia per i
manifestanti va molto al di là di quello che aveva, ad esempio, Martin Luther
King all’apice della sua popolarità, all’epoca del discorso «I have a dream».
Va anche molto al di là delle reazioni pubbliche ai precedenti omicidi
perpetrati dalla polizia. Potrebbe forse somigliare alla reazione al pestaggio
di Rodney King a Los Angeles. Lo picchiarono fin quasi ad
ammazzarlo. La maggior parte degli aggressori fu liberata dalla Corte senza
accuse. Ci fu una settimana di proteste; sessanta persone furono uccise, e
dovettero chiamare le truppe federali per sedare la rivolta. Ma in quel caso si
trattava di Los Angeles. Adesso la protesta è ovunque. E non riguarda soltanto
le uccisioni della polizia, riguarda questioni di fondo. Si sta trasformando in
interesse, approfondimenti e proteste per le cause profonde che fanno sì che si
verifichino eventi del genere. Questa crescita nella coscienza collettiva è
aiutata dalla consapevolezza sempre maggiore di quattrocento anni di
repressione feroce.
Polizia in azione |
Da cosa pensi che dipenda la portata di quanto sta accadendo?
Credo che sia il risultato di molti anni di intenso attivismo. Per
esempio, anni fa il New York Times richiamò l’attenzione su una
serie importante, «1619», sulla storia del razzismo negli Stati Uniti - «1619»
perché quello fu l’anno in cui gli schiavi neri iniziarono a essere deportati
in gran numero. Una cosa del genere non sarebbe stata pensabile qualche anno
fa. È uno dei molti segnali che spero diventino cambiamenti significativi, e
sembra essere un tributo a gruppi come Black Lives Matter e altri che hanno
portato questi problemi all’attenzione pubblica e costretto le persone a
rifletterci. E la reazione odierna è davvero importante. È diverso dai tempi
di Ronald Reagan quando, all’apertura della sua campagna elettorale a
Philadelphia, Mississippi, vennero uccisi tre lavoratori attivisti per i
diritti civili; il messaggio era molto chiaro, ma la risposta fu quasi nulla.
C’è molta più risposta adesso, e ogni confronto lo rende
particolarmente evidente. È molto difficile farsi un’idea di quanto sta
succedendo, perché c’è una gran varietà di fonti, disinformazione, eccetera, e
bisogna essere cauti. Ma uno come te, che per certi versi fa parte dalla
tradizione anarchica, cosa ne pensa della zona temporaneamente autonoma di
Seattle?
È uno dei numerosi sviluppi estremamente interessanti a cui stiamo
assistendo, in parte reazione alla pandemia, in parte all’omicidio di George
Floyd. Creare delle strutture di mutuo soccorso e cooperazione che liberino le
persone dalle strutture governative, che si sono dimostrate totalmente
inadeguate nell’affrontare problemi specifici, come garantire l’acqua a tutti e
tutte, o altri problemi più gravi ancora che spiegano come mai siamo stati così
disperatamente impreparati per questa crisi. La zona autonoma è un esempio
interessante di questa tendenza. È anche impressionante vedere il supporto che
arriva da persone come il sindaco di Seattle, e l’enorme sostegno popolare,
che sta facendo impazzire Trump e Fox News. È un segnale positivo, una cosa
importante. Credo che sia una manifestazione del fatto che iniziamo a pensare
di poter prendere il controllo delle nostre vite, di non poterle lasciarle
nelle mani delle autorità che si presentano come nostri padroni. Dobbiamo
farcene carico noi.
D. Trump |
È importante inquadrare meglio quest’aspetto: che qualcosa può
sorgere, e persino concludersi, come un «fallimento», ma che lì dentro c’è
comunque qualcosa da imparare, e che, se si esprime un certo tipo di impulso
verso la giustizia, non deve per forza essere misurato secondo la logica rigida
di successo o fallimento?
Successo e fallimento sono cose complicate. Qualsiasi lotta seria
avrà momenti di arretramento. Le cose non funzionano come ti aspetti, e così
prendi quello che c’è, vai avanti a partire da lì. Qualsiasi cosa ti venga in
mente - diritti civili, diritti delle donne, abolizionismo, etc. - tutto è un
processo. Prendi, ad esempio, la campagna di Bernie Sanders. Ricevo molte
lettere o vedo post in giro che dicono: «Siamo stanchi, siamo perduti, è
finita, me ne vado». Non è così. È stato un successo incredibile, senza
precedenti. Nulla del genere era mai accaduto nella storia politica degli Stati
Uniti, in realtà, quasi mai, a parte il primo movimento veramente popolare, il movimento dei contadini radicali, represso con la
forza. Lo spettro della discussione si è notevolmente spostato. Le cose che non
erano in agenda poco tempo fa ora sono al centro del dibattito: la sanità
pubblica gratuita è divenuta una richiesta diffusa e corroborata dal disastro
della pandemia; il Green New Deal è il risultato dell’attivismo serio di un
piccolo gruppo di giovani che hanno occupato gli uffici del Congresso; e sullo
sfondo il successo di Sanders, e dei giovani membri del Congresso che sono
arrivati fin lì per supportarlo. Sanders ha preso una decisione tattica che
alcuni criticano ma che io ritengo corretta, ossia unirsi alla campagna di Joe
Biden e spingerla a sinistra. I suoi collaboratori stanno lavorando nelle commissioni
urbanistiche e, in realtà, se guardi al programma che sta venendo fuori, è
molto più a sinistra di qualunque cosa dopo Roosvelt. Offre un sacco di
opportunità. Tutto questo non è successo per magia. Come per il Green New Deal,
è successo grazie all’attivismo e alla pressione costante dal basso. È così che
la sinistra deve concepire le elezioni. Il punto non è premere un bottone per
un candidato. È ampliare la gamma di scelte, questioni, politiche possibili
attraverso l’attivismo costante. Non si vince schioccando le dita. Alcune cose
funzionano, altre no; si prende quello che c’è e si riparte da lì.
A proposito della libertà di parola: a me sembra che questa idea
stia perdendo consensi a sinistra. Come ti relazioni a questo problema?
Prima di tutto, dovremmo ripassarne un po’ la storia. Perché
questo problema si sta presentando adesso? È nuovo? No. È stato la norma per
decenni, ma è andato sempre a danneggiare la sinistra, e così nessuno ci ha
fatto caso, anche per episodi ben più gravi di quelli che stanno succedendo
adesso: incontri violentemente interrotti; conferenze cancellate; libri
distrutti. Così, per esempio, La fabbrica del consenso, il primo libro che ho
scritto insieme a Ed Herman, uscì nei primi anni Settanta e fu pubblicato da un
editore molto famoso; ne vennero stampate ventimila copie. La casa editrice era di
proprietà di una grande azienda, e quando uno degli executive vide il libro ne
restò inorridito, e chiese che l’editore lo ritirasse dagli scaffali. Quando si
rifiutò, distrusse l’intera casa editrice. Distrusse l’intero magazzino, per
impedirgli di distribuire quel libro degli errori. Importò a qualcuno? Per pura
curiosità, portai la questione all’attenzione di libertari di spicco, come Nat
Hentoff e l’Aclu, ma non riuscivano a vedere dove fosse il problema. Non è
censura di Stato se un’azienda decide di distruggere una casa editrice e il suo
magazzino per impedirgli di far uscire un certo libro. Anzi, era difficile
trovare qualcuno che ci vedesse qualcosa di sbagliato. Ma non fu l’unica volta.
Potrei farti altri esempi di miei libri ritirati dal commercio, di cui mi
chiesero indietro l’anticipo, perché avevano qualche contenuto politico che
all’editore non piaceva. Altre persone furono licenziate, membri di facoltà
fatti fuori, eccetera. Non gli importava. Non era censura - era diretta contro
la sinistra, ben al di là di quello che sta succedendo oggi. Ora, questo non
giustifica quello che sta succedendo oggi. Prima di tutto, non vorrei davvero
chiamarla sinistra - quando il New York Times censura un
editoriale, cosa che non penso avrebbe dovuto fare, è molto difficile definirla
sinistra. Quando un gruppo di giovani decide di cacciare un relatore, credo che
stia commettendo un errore, anche da un punto di vista tattico. Ci sono modi
assai più efficaci di affrontare la questione: puoi dare vita a un
contro-seminario, dove spieghi cosa sta succedendo e la sfrutti come
un’opportunità educativa. Credo che sia sbagliato sia in linea di principio sia
tatticamente. È un regalo alle destre; loro adorano queste cose.
Una delle tue battaglie che ho apprezzato tantissimo è stata
quella in difesa del Presidente Lula da Silva in Brasile, quando era
prigioniero politico. Gli hai fatto visita in prigione a Curitiba. Puoi dirci
perché secondo te il Presidente Lula è un leader così importante?
Il Presidente Lula viene dalla working class, è stato un attivista,
nei giorni della dittatura, è riuscito a organizzare un’opposizione importante
e a candidarsi a presidente. Gli è stata rubata la vittoria un paio di volte,
ma alla fine è diventato presidente e ha dato il via a una nuova era della
storia brasiliana. Non ti fidare delle mie parole; fidati della Banca mondiale,
non proprio un’istituzione radicale. Nel 2016, un paio d’anni dopo la fine del
suo mandato, pubblicarono un lungo studio della storia economica brasiliana
recente. Hanno definito il periodo della presidenza Lula il «decennio d’oro»
della storia economica brasiliana. Un’incredibile riduzione del tasso di
povertà e aumento dell’inclusione, grosse fette di popolazione - neri, persone
marginalizzate e oppresse - comprese in politiche che miravano a dare alle
persone un po’ di controllo sulle proprie vite. Un successo incredibile. Il
Brasile era diventata una delle nazioni più rispettate del mondo, se non la più
rispettata. Guardalo adesso. È un pària, uno dei paesi più
condannati e ridicolizzati in tutto il mondo. Ci sono stati tanti problemi
durante il mandato di Lula. Uno è stato la tolleranza verso la corruzione, una
cosa a cui Lula non ha prestato mai attenzione. Ce n’era tanta nel Partido dos
Trabalhadores (Pt), è endemica in Brasile, in tutta la regione.
La cosa in cui la sua amministrazione ha veramente fallito è stato
far capire alle persone che erano parte di un sistema che si stava evolvendo. E
così ora è piuttosto strano chiedere alle persone che hanno tratto beneficio
dai programmi di Lula «Come è successo?», e sentirsi rispondere «È stato Dio»,
come fosse stato un caso. Non sanno che era parte del programma del Pt. Si è
davvero fallito nel coinvolgere le persone che vedevano che quelle cose «gli
arrivavano» in qualche modo senza esserne parte. È stato un gran fallimento. Ci
sono anche altre cose che si possono criticare. Il giudizio sul «decennio
d’oro», credo, è abbastanza giusto, il fatto che il Brasile sia arrivato in una
posizione di grande rispetto a livello internazionale, come voce del Sud del
mondo, è un dato estremamente significativo e in parte motivo della sua caduta.
I sistemi politici non amano i parvenu. Non si suppone che lo facciano. Le
élites in Brasile sono estremamente razziste e classiste. Ed ecco che arriva un
tizio di origini working class, che non parla nemmeno un portoghese «corretto»
e non è andato nelle scuole «giuste». Dovrebbe essere un tipo umile, grato per
quello che è stato fatto per lui, non certo dettare legge. Parlando con le
persone si percepisce l’amarezza e la rabbia, per questi motivi ancor più che
per le singole politiche. Un paio d’anni dopo l’estromissione di Lula dal
potere, venne tentato un colpo di stato soft contro il suo successore, Dilma
Rousseff. Questo ci ha portato alle elezioni dell’ottobre 2018. Lula era in
prigione; era il candidato più popolare, quello con più probabilità di vincere.
Era stato incarcerato con accuse molto fragili, ma era stato anche azzittito. A
differenza di un pluriomicida nel braccio della morte, non gli veniva permesso
di rilasciare dichiarazioni. È rimasto in silenzio per tutta la campagna
elettorale. Ora è aggrappato alla libertà vigilata mentre aspetta l’esito
dell’appello. Ma è stato tenuto fuori dalle elezioni. Dentro alle elezioni,
invece, c’è stato un fanatico dell’ultradestra, Jair Bolsonaro, che sta
distruggendo il paese.
J. Bolsonaro |
Potresti spiegare perché quello che Donald Trump sa facendo a
livello istituzionale è unico e è importante di per sé?
Può suonare forte, ma è vero: Trump è il peggior criminale della
storia, senza dubbio. Non c’è mai stata una figura nella storia politica che si
sia dedicata con tanta passione a distruggere i progetti per la vita umana
organizzata sulla terra nel prossimo futuro. Non è un’esagerazione. Le persone
ora sono concentrate sulle proteste; la pandemia è abbastanza seria da farci
uscire da questo periodo pagando un prezzo terribile. Il prezzo è enormemente
amplificato da quel gangster che sta alla Casa Bianca, che ha ucciso decine di
migliaia di Americani, rendendo questa nazione il posto peggiore del mondo a causa del Coronavirus. Usciremo dalla pandemia, ma, non riusciremo a uscire da un
altro crimine commesso da Trump, il riscaldamento globale. Il peggio sta per arrivare,
e noi non riusciremo a cavarcela. Le calotte polari si stanno sciogliendo; non
torneranno sane. Questo ci porterà a un aumento esponenziale della temperatura
terrestre. I ghiacciai artici, ad esempio, potrebbero inondare il mondo. Studi
recenti indicano che, con l’attuale progressione degli eventi, in circa
cinquant’anni la gran parte del mondo abitabile sarà inaccessibile. Non si
potrà vivere in molte parti dell’Asia del sud, del Medio Oriente e degli Stati Uniti.
Stiamo ritornando a 125 mila anni fa, quando il livello del mare era di circa 7
metri e mezzo più alto di adesso. Ed è ancora peggio. Lo Scripps Oceanographic
Institute ha appena rilasciato uno studio che stima che ci stiamo
minacciosamente avvicinando a dove eravamo tre milioni di anni fa, quando il
livello del mare era dai 15 ai 25 metri più alto di oggi. In tutto il mondo, i
paesi stanno cercando di fare qualcosa. Ma c’è una nazione guidata da un
presidente che vuole peggiorare la crisi, correre verso l’abisso, massimizzare
l’utilizzo dei combustibili fossili, inclusi i più pericolosi, e smantellare
l’apparato di regolamentazione che ne limita l’impatto. Non c’è alcun crimine
pari a questo nella storia umana.
C’è un solo, unico individuo. E non è che non sappia cosa sta
facendo. Certo che lo sa. Se può trarre più profitto per le sue tasche e per le
tasche dei suoi ricchi collegi elettorali, che gli importa del fatto che il
mondo scomparirà fra un paio di generazioni? Per quanto riguarda il governo,
stiamo assistendo a qualcosa di davvero interessante. La democrazia
parlamentare è in circolazione da circa 350 anni, iniziata in Inghilterra nel
1689 con la cosiddetta Gloriosa rivoluzione, quando la sovranità venne
trasferita dalla Corona al Parlamento. L’inizio della democrazia parlamentare
negli Stati Uniti è di più o meno un secolo dopo. La democrazia parlamentare
non si basa soltanto sulle leggi e sulle costituzioni. La costituzione inglese
conterà sì e no una dozzina di parole. Si basa sulla fiducia e sulla buona
fede, la convinzione che le persone si comporteranno da esseri umani. Prendi
Richard Nixon. Era davvero un pessimo soggetto, ma quando arrivò il momento di
lasciare l’incarico se ne andò tranquillamente. Nessuno si aspetta una cosa del
genere da Trump.
Non si comporta da essere umano. È completamente fuori di testa.
Non è nemmeno in grado di nominare cariche che il Senato possa confermare.
Perché preoccuparsene? Non mi piace qualcuno, lo sbatto fuori. Una
repubblicana, Lisa Murkowski, ha osato avanzare un piccolo dubbio sulla sua
integrità, e lui le si è scagliato contro come una furia: “Ti distruggerò”. Non
è fascismo. È quello che ho detto prima: un dittatore da due soldi di una
piccola nazione dove ogni due anni c’è un colpo di stato. Questa è la mentalità.
Il Congresso, il Senato, sono in compagnia della sua anima gemella, Mitch
McConnell, per molti versi il vero genio del crimine di questa amministrazione,
votato a distruggere la democrazia da ben prima di Trump. Quando Barak Obama è
stato eletto, McConnell disse in pubblico, apertamente: «Il mio principale
obiettivo è far sì che Obama non combini nulla». Okay. È come dire: «Voglio
distruggere la democrazia parlamentare», che si basa, come ho detto, sulla
buona fede e la fiducia nello scambio. Il Senato, il cosiddetto corpo
deliberativo più grande del mondo, è ridotto a passare delle leggi che
arricchiscono i più ricchi, danno più potere al settore corporativo, e fanno
nomine giudiziarie per intasare il settore con giudici giovani, di ultradestra
e per lo più incompetenti, che possono assicurarsi che per almeno una
generazione non importa cosa vuole il popolo, loro saranno in grado di
fermarlo. È l’espressione di un odio profondo e di una paura della democrazia.
Non è una cosa rara tra le élites, che non amano la democrazia per ovvie
ragioni. Ma stavolta è diverso. È la ciliegina sulla torta della pandemia,
della crisi climatica, della crisi nucleare, ugualmente grave. Trump sta
smantellando l’intero regime di controllo delle armi, incrementando enormemente
il rischio di distruzione, invitando virtualmente i nemici a sviluppare per
distruggerci armi che non saremo in grado di fermare. Trump sta prendendo gli
aspetti peggiori del capitalismo, soprattutto della versione neoliberista del
capitalismo, e li sta amplificando.
Prendiamo la pandemia. Perché c’è una pandemia, in primo luogo?
Nel 2003, dopo l’epidemia di Sars, un altro Coronavirus, gli scienziati lo
capirono bene e lo dissero chiaramente: «Guardate che un altro Coronavirus, più
serio di questo, è più che probabile. Ecco cosa dobbiamo fare per prepararci».
Qualcuno doveva dargli retta. Be’, c’è l’industria farmaceutica, certo, ma gli
enormi e superattrezzati laboratori non potevano farlo: non si spendono soldi
in qualcosa che può forse rivelarsi utile da qui a dieci anni: fermare le
catastrofi future non è redditizio. Questa è la società capitalista. È il
governo ad avere le risorse necessarie, ad avere ottimi laboratori. Ma a quel
punto era già arrivata una cosa chiamata Ronald Reagan, agli albori
dell’assalto neoliberista alla popolazione, che andava dicendo che il governo è
il problema, non la soluzione, il che significa che dobbiamo togliere potere
decisionale al governo. Ma il governo è influenzato dalle persone. Ora invece
mettiamo le decisioni nelle mani di istituzioni private prive di responsabilità
che non subiscono alcuna influenza da parte del popolo. Negli Stati Uniti,
questo qualcosa è chiamato libertarianismo. È l’inizio dell’assalto
neoliberista.
I Bush padre e figlio |
George H. W. Bush nominò un comitato scientifico consultivo. Obama
lo fece convocare, giustamente, il primo giorno della sua amministrazione per
chiedergli di preparare un protocollo in caso di allarme pandemico. Un paio di
settimane dopo, tornarono con un piano che andò a regime. Nel gennaio del 2017
arrivò il demolitore. Il primo giorno della sua amministrazione, Trump smantellò l’intero sistema di risposta anti-pandemica; iniziò a definanziare il
Cdc [Centers for Disease Control] e ogni altro elemento governativo legato alla
sanità, anno dopo anno. Eliminò i programmi degli scienziati americani che
lavoravano in Cina con gli scienziati cinesi per identificare possibili minacce
provenienti da Coronavirus e contrastarle. E allora quando il Coronavirus è
arrivato, gli Stati Uniti si sono trovati particolarmente impreparati: tutto
grazie al demolitore. E poi le cose sono peggiorate. Trump si è rifiutato di
reagire. Le altre nazioni stavano rispondendo alla situazione, alcune molto
velocemente e molto bene. È quasi fatta, è quasi sotto controllo. Ma non negli
Stati Uniti. Non gli interessava. Per mesi, l’intelligence Usa non è riuscita a
far dire alla Casa Bianca: «Questa crisi è seria». Alla fine, secondo i
rapporti, dopo aver visto che i mercati azionari colavano a picco, Trump ha
finalmente detto: «Dobbiamo fare qualcosa». E quel che ha fatto è stato il
caos.
Ma una gran parte del problema è pre-Trump. Perché gli ospedali
non erano pronti? Be’, perché seguono un modello aziendale. È il neoliberismo.
È la logica del just-in-time. Non vogliono perdere un centesimo. E così non ci
sono posti letto; bisogna essere certi che gli amministratori delegati degli
ospedali privati abbiano milioni di dollari all’anno di risarcimento. Non si
può avere un letto in più perché quel letto è stato tagliato. E così ogni cosa
è ripetuta a pappagallo dall’alto. Le case di riposo, che sono di proprietà
privata, gestite da un fondo di investimento, sono ridotte ai minimi termini,
perché in questo modo si possono fare più soldi. Ora possiamo contribuire alla
campagna di Trump così si fa un servizio fotografico con noi, dicendoci quanto
siamo bravi a distruggere le case di riposo, a uccidere gli anziani. I problemi
sono profondi e risalgono a ben prima di Trump, ma lui è un fenomeno unico: di
nuovo, il peggior criminale della storia umana, al punto che i suoi crimini
minori sono l’aver distrutto la democrazia statunitense e aver amplificato la
pandemia uccidendo centinaia di migliaia di persone. Ma queste per i suoi
standard sono quisquilie.
[*Michael Brooks è il conduttore di
The Michael Brooks Show
e conduttore di The Majority
Report. La traduzione è di Gaia Benzi]