di
Fulvio Papi
Arthur Koestler |
Non so proprio chi oggi potrebbe essere un lettore attento alle trame politiche e psicologiche che intessono l’importante romanzo di Koestler Arrivo e partenza, scritto nel 1942-43. La difficoltà deriva tutta dalla difficile sintonia morale con l’opera che nasce in uno sfondo storico nel quale ogni personaggio trova aspetti della sua identità con un effetto complessivo di possibile intellezione pedagogica. Il lettore contemporaneo probabilmente rischia di essere un involontario traditore dell’autore poiché, naturalmente, si può leggere l’opera come un libro di avventure dove l’effetto realistico della fiction diviene un elemento di interessante intrattenimento, e non ha più una identificabile relazione con un momento storico, e con una vicenda che, nel suo tratto etico, propone una sua riflessione pedagogica. Scivola direttamente in quello scaffale privilegiato che è la storia della letteratura dove la temporalità si estenua e rivive in una dimensione “spirituale”. Le scene del nostro teatro sono straordinariamente veloci, qualcuna più, altra meno, ma a tutte è riservato questo silenzio e questa rinascita che il lettore, capace di interpretare la soluzione di questo destino, comprende nel repertorio della sua identità. La storicità deriva da una circoscritta temporalità che va dall’inizio dell’aggressione nazista alla Polonia, il primo settembre del 1939, all’attacco tedesco all’Unione sovietica nel giugno del ’41. Due anni molto difficili che mettevano a dura prova le coscienze di fronte ai successi della Germania hitleriana. È infatti il tempo militarmente dominato dalla occupazione tedesca che attraversa l’Europa, dalla Francia alla Norvegia e, dal punto di vista delle relazioni diplomatiche tra le grandi potenze dal patto di non aggressione tra la Germania e l’URSS che, nella parte segreta, stabiliva i criteri di spartizione della Polonia. Fu un patto che traumatizzò in Europa le coscienze che militavano nell’area comunista e socialista, consolidate nella loro certezza che il nazismo fosse, per la sua natura politica e ideologica, il nemico irriducibile dell’Unione sovietica, interpretata come la sola forza statale in grado di competere con la forza all’espansione nazista in tutta l’Europa.
Ci fu naturalmente una parte dei militanti comunisti, comunque fedeli
all’Unione sovietica, cementata dai lunghi anni di dipendenza politica della
III Internazionale, che ubbidì, con qualche difficoltà, alle nuove direttive
che provenivano da Mosca. Per dare un’idea molto semplice ma corretta basta
pensare alla posizione dei comunisti francesi che, nella loro coscienza come
nel loro giornale, per quasi due anni dovettero tacitare la loro storica
opposizione al fascismo e considerare senza una pregiudiziale ostilità
l’occupazione tedesca di Parigi. Una smobilitazione per i comunisti di fedeltà
staliniana che ebbe il suo peso nella organizzazione della resistenza dopo
l’aggressione tedesca all’URSS, mentre già da più di un anno l’opposizione ai
nazisti era guidata da Londra dal generale De Gaulle, interprete inflessibile
dell’onore antinazista del paese. Qui la storia confina con la narrazione di
Koestler, ma era opportuno per riprodurre il clima politico e morale che fa da
sfondo alla narrazione, altrimenti si rischia di non comprendere il senso
storico che è l’invisibile sfondo dal punto di vista romanzesco. Posso solo
aggiungere che la valutazione del patto di Mosca e Berlino divideva nettamente
a sinistra coloro che ritenevano che la politica dello stato sovietico fosse
comunque, la guida del movimento comunista internazionale, e coloro che pensavano
che il comunismo dal punto di vista ideologico ed educativo dei suoi militanti,
doveva, in ogni caso rimanere l’opposizione più radicale ai nazisti. Si può
solo aggiungere che quando le armate tedesche da Nord e Sud invasero il territorio
russo, questo malore incredibile delle sinistre ebbe il suo epilogo. E, per
ricordare la Francia, il partito comunista si autoidentificò come “il partito
dei fucilati”.
A. Koestler |
Ma perché, e questa domanda introduce alla richiesta intorno al
senso che percorre tutto il libro, un uomo sacrifica l’unica cosa che possiede
veramente, la sua vita, a un ideale e alla sua affermazione storica? Quale
colpa nascosta nella sua esistenza gli dà il coraggio per questa definitiva
espiazione? O quale ideale sociale e storico dà un senso obiettivo alla sua
vita che non sia limitato dal perimetro della propria individualità? Vedremo
che nel libro il senso di colpa che conduce alla autopunizione di se stessi e
la dimensione ideale che proietta la propria vita in uno spazio ideale e
progettuale che vale per una comunità, sono in realtà due aspetti analitici di
un comportamento che aderisce nel presente secondo le possibilità che esso
offre come apertura verso il futuro e, nello stesso tempo, costituisce una
sintesi attiva del proprio passato che è altra cosa da una “liberazione”
psicoanalitica della propria storia dominata dalla colpa che, nella presunzione
della sua terapia, restituisce solo un soggetto che rischia di divenire solo la
finalità vera di se stesso. Questo riassunto essenziale mi pare sia
l’insegnamento pedagogico dell’opera che va individuato in ogni momento del
racconto. Un insegnamento pedagogico va sempre indirizzato a chi si trova ai
suoi margini, o addirittura nella sua ignoranza, e tuttavia è in grado di
recepire la lezione come un’apertura nel mondo che arricchisce non la vita (che
è un poco astratto), ma le sue possibilità di vita. Se non si riesce a
stabilire un rapporto di questa natura, l’intento pedagogico di un romanzo, di
una poesia, o di una filosofia, diviene solo un documento del passato che
ritrova la sua realtà solo nell’ordine di un sapere storico che, contrariamente
alla famosa tesi sulla contemporaneità di ogni storia, rievoca, come
conoscenza, situazioni di un passato che mostra quelle che sono state
condizioni di vita che ora non hanno ripetizioni possibili, fa rinascere nelle
narrazioni non solo fatti che non esistono più, ma figure umane chiamate a
forme, dilemmi, speranze, scelte che non appartengono più al presente che
“informa” la nostra vita.
C. De Gaulle |
Come hanno insegnato valorosi studi di cinquant’anni
a questa parte, la figura antropologica che prevale nella contemporaneità è
quella che si riconosce in un individualismo dominante che cerca il proprio
soddisfacimento in modelli sociali che derivano dal suo ruolo di consumatore.
Un personaggio della nostra cultura occidentale che su questo terreno gioca il
suo desiderio e la sua identità e, qualora essi siano frustrati per qualsiasi
ragione, fa esplodere il suo risentimento con la contingente ricerca di un
“capro” sul quale proiettare ogni colpa che deriva da una deformazione
individualistica che è l’attuale conclusione storica della occidentale
tradizione umanistica. Viviamo una supposta innocenza della sufficienza del “se
stesso” dove socialmente domina un diritto collettivo ispirato da questo
criterio. Secondo una nobile tradizione è il risultato della scomparsa
dell’orizzonte della colpa che la vocazione ideale deve riscattare (il noto
modello di Nietzsche). Oppure, se vogliamo un’altra versione, possiamo parlare
della diffusa ideologia di una sempre immanente giustificazione di se stessi
che ha la sua moderna radice nella propria figura di consumatore omogenea alla
positività della veloce riproduzione del capitale.
Hitler |
Se
è valida questa sin troppo veloce generalizzazione, l’orizzonte d’attesa del
lettore contemporaneo è estraneo al libro di Koestler che diventa un documento
di una archeologia letteraria. E la nostra frequentazione è una ricerca di un
aspetto fondamentale dell’esistenza che è declinato al passato, una memoria che
la letteratura rappresenta come successo della vita di personaggi che sono
esistiti: un’epica minore della modernità. Peter Slavek è un giovane di
ventidue anni, probabilmente iugoslavo, che ha nel suo passato come comunista
tre anni di prigione, una larga parte dovuta al regime reazionario del suo paese
e in seguito all’occupazione tedesca. Riesce tuttavia a fuggire nascosto nella
stiva di una nave che avrà la sua destinazione a Neutrolandia. Un paese
“europeo” si dice nel testo, anche se le descrizioni dell’ambiente hanno
qualche somiglianza con quelle algerine di Camus. In ogni caso il luogo è
popolato di fuggiaschi, ebrei, politici, comunisti, in attesa di ottenere un
visto dal consolato americano per imbarcarsi per gli Stati Uniti e porre così
in salvo la propria esistenza. Non è il caso di Slavek che invece chiede il
visto dal consolato inglese per continuare la guerra nella Royal Air Force. Il
tempo per i visti è tuttavia molto lungo e bisogna trovare una vita in
Neutrolandia con la povertà dei propri mezzi, gli artifici della sopravvivenza,
le occasioni degli incontri, la propria desta disponibilità per l’attrazione
amorosa. Slavek è ideologicamente solo, ha abbandonato il partito causa il
patto di Mosca con i nazisti; ha tuttavia le sue certezze che gli danno un
proposito di giustizia nella guerra contro Hitler, un proposito tacitato, reso
quasi estraneo alla propria concreta esperienza che, come sempre capita, è
tuttavia aperto a nuove esperienze. Tre sono le più rilevanti: l’incontro con
la giovanissima Odette che apre un nutrito capitolo d’amore, la cordiale
ospitalità della dottoressa Sonia, l’incontro con un funzionario nazista,
probabilmente un informatore o una spia che gli espone la delirante filosofia
della storia nazista: la unificazione europea sotto il dominio della politica e
della ideologia naziste. Ma non è questo il punto centrale. In fondo la spia
(colta ed educata) di Hitler gli espone obiettivi storici contro i quali, se
pure in un ostinato silenzio dell’incertezza, egli ha già preso posizione.
Stalin |
Il
centro è la cura psicoanalitica cui la dottoressa Sonia sottopone Slavek a una
analisi che ripercorre il passato del giovane. L’analista vuole trovare nella
sua memoria il luogo da cui nasce irresistibile il senso di una colpa,
inestinguibile fino a quando essa, nelle sue metamorfosi ideali, condizionerà
tutte le scelte punitive o autodistruttive cui Slavek sottopone se stesso. A
cominciare dal disagio di un intellettuale schierato con il proletariato, ma
socialmente un borghese privilegiato. Un tema piuttosto comune in Francia,
prima e dopo la guerra. I colloqui dell’analisi di Sonia (non discuto qui il
senso e il metodo della sua psicoanalisi) hanno successo. Slavek, al termine
della terapia riconosce (o sembra riconoscere) l’origine delle sue scelte
sempre autopunitive, in una colpa originaria che ora domina lo stile della sua
esistenza. E libero da se stesso, può ricominciare. Ma si può ricominciare se
stessi? Può essere la prospettiva dell’amore con Odette e la certezza di una
vita dedicata a se stesso l’obiettivo che gli era sempre sfuggito, obliato
dalla colpa? Il visto per gli USA, la prenotazione per la nave in partenza,
possono apparire come il lieto fine di Slavek. Ma all’ultimo momento la libertà
dell’analisi, la promessa di Odette, il conformismo di tutti gli emigranti gli
appaiono come la grande menzogna della vita. All’ultimo momento abbandonerà la
nave in partenza, andrà a ritirare al consolato inglese il visto per la Gran
Bretagna dove continuerà la guerra contro i nazisti, non come una verità da
raccontare nel cielo della gloria, ma come il senso che era sedimentato nella
sua esistenza. Sarà arruolato dagli inglesi, verrà paracadutato come
informatore nella zona iugoslava da cui proveniva. La sua vita diviene una
storia coerente: il “se stesso” cresce solo in una oggettività, in uno scopo
che non diventa un idolo, ma, nel limite e nell’occasione, restituisce una
propria identità. Slavek ha attraversato un tempo necessariamente doloroso per
trovare la propria libertà. Così dopo aver raccontato la storia e riprendendo i
temi iniziali possiamo pensare se esistano oggi esperienze di questa qualità. E
se non esistono il lettore di oggi dirà: “è solo letteratura di una volta”.
Archeologia.