di
Franco Astengo
E. Berlinguer |
Il direttore della
“Stampa” Massimo Giannini ha affrontato il 27 luglio, in un editoriale, il
tema della nuova qualità della “questione morale” ricordando il trentanovesimo
anniversario della celebre intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari da Enrico
Berlinguer nel corso della quale il segretario del PCI affrontava il tema della
degenerazione morale del sistema dei partiti esprimendosi, in un fondamentale
passaggio in questo modo: «I partiti di oggi non fanno più politica. Sono
soprattutto macchine di potere e di clientela, scarsa o mistificata conoscenza
della vita e dei problemi della società; idee, ideali, programmi pochi o vaghi;
sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i
più contraddittori, talvolta anche loschi, senza perseguire il bene comune... I
partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, gli enti locali,
gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti
culturali, gli ospedali, le università, la Rai... Molti italiani si accorgono
benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è
sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi o sperano di riceverne, o temono di non
riceverne più...».
Se si rilegge quell’intervista confrontandoci con l’articolo di
Giannini si ravvedono prima di tutto i temi della complessità che oggi la “questione morale” presenta: ad esempio nel testo viene prestata
particolare attenzione al tema del ruolo della magistratura che sempre, non
solo sotto questo fondamentale aspetto specifico della “questione morale” ma
anche dal punto di vista più propriamente legislativo, ha svolto un ruolo di
supplenza rispetto ai vuoti presenti nel sistema politico.
Per rafforzare questo discorso pensiamo alla funzione svolta
dalla Corte Costituzionale in materia elettorale in un’opera di vera e propria
sostituzione legislativa (in verità sotto questo aspetto si è mossa molto,
negli ultimi anni, anche la Presidenza della Repubblica).
È necessaria una premessa: dall’intervista rilasciata da
Berlinguer a oggi sono mutati alcuni punti fondamentali sia al riguardo della
“finalità generale” espressa dall’agire politico, sia nell’insieme della
strutturazione delle relazioni sociali. Vale
la pena allora ricordare che la diversità tra l’allora e l’oggi si sta
esprimendo proprio nelle motivazioni generali di fondo che muovono l’azione
politica: una differenza che si colloca tra “finalità universalistiche” ed
espressione di “single issue”. È anche necessario rammentare come gli
alfabeti politici del secolo scorso fossero materia ardua. Venivano frequentati
a lungo, prima di imbracciarli. Cattolici, laici, libertari e comunisti
camminavano con lentezza dentro le parole della politica imparando a
trasformarle in azioni. Prima nei quartieri, poi nei comuni poi nei vasti
collegi elettorali. Fino al teatro della politica nazionale che era selezionato
al netto degli scandali, delle trame e della corruzione che pure esisteva,
intendiamoci bene. Era un lavoro, quello dell’esercizio dell’azione politica
che impegnava la giovinezza, le passioni, l’esperienza. Era apprendistato prima
che comando.
Queste affermazioni non debbono suscitare semplicemente la (legittima) nostalgia per il passato ma anche sollecitare una proposta di riflessione per l’oggi e soprattutto per il futuro.
Nell’oggi emerge una domanda: che fine ha fatto il progetto di estensione verso il basso del meccanismo del potere tramite il livellamento sociale che si pensava il web avrebbe finito con il produrre all’insegna dell’“uno vale uno”?
Queste affermazioni non debbono suscitare semplicemente la (legittima) nostalgia per il passato ma anche sollecitare una proposta di riflessione per l’oggi e soprattutto per il futuro.
Nell’oggi emerge una domanda: che fine ha fatto il progetto di estensione verso il basso del meccanismo del potere tramite il livellamento sociale che si pensava il web avrebbe finito con il produrre all’insegna dell’“uno vale uno”?
L’“uno vale uno” sembra ridotto ormai a veicolo
per il conseguimento di unico obiettivo “il potere” (di uno scranno, di una
toga, di una divisa).
In tempi non sospetti per definire questa situazione ci era capitato di elaborare la formula dell’ “individualismo competitivo”.
In tempi non sospetti per definire questa situazione ci era capitato di elaborare la formula dell’ “individualismo competitivo”.
La competizione individualistica sta, infatti, non soltanto alla base della costruzione delle nuove formazioni politiche, ma anche dell’insieme della costruzione della rete delle relazioni e degli scontri di potere nell’insieme della società (per restare ai temi affrontati nel citato articolo di Giannini, pensiamo alle correnti nella magistratura). Torno all’analisi delle nuove formazioni politiche non più formate da militanti collegati attraverso un collettivo, ma da singoli che intrecciano “cordate” (cerchi e/o gigli magici) finalizzate a spingere personaggi singoli verso l’acquisizione di posizioni di, più o meno, presunto potere.
Sotto questo aspetto va ripresa una ricerca , partendo da una domanda “È questa di oggi la politica con l’individualismo competitivo come forme dominante?” oppure era politica quella del ‘900 dei grandi partiti di massa e della “fatica dell’appartenenza”?
Per rispondere efficacemente occorre ritornare alla sostanza delle cose che riguardano l’umana coesistenza, quando questa assume l’aspetto consapevole di un’identità collettiva.
Una identità collettiva che deve essere considerata tanto dal punto di vista del Potere, quando dal punto di vista del Conflitto.
In questo suo duplice aspetto di Potere e di Conflitto la politica è pensabile come un’Essenza, rintracciabile attraverso la risoluzione di alcune questioni:
1) Qual è l’origine della collettività
e quali i suoi fondamenti di legittimità?
2) Quale
rapporto c’è tra l’energia originaria delle forme politiche e le loro realtà
istituzionali?
3) Quali
sono i soggetti dell’azione del potere politico, cioè chi agisce, chi comanda
che cosa a chi?
4) E
questo comando come avviene, con quali limiti, a quali fini?
5) Quali
sono i confini dell’ordine politico, come e da chi sono individuati, chi
includono e chi escludono?
Le concrete risposte a queste domande possono
arrivare soltanto attraverso una riflessione sulle forme storiche della
politica e sono determinate soltanto dalle modalità con cui le categorie che
abbiamo fin qui indicato, conflitto, ordine, potere, forma, legittimità, sono
di volta, in volta organizzate praticamente e pensate teoricamente. Non si può
sfuggire a questo livello di analisi semplificando tutto all’interno di una
sola categoria: quella del potere. Della politica, infatti, fa parte anche il
modo con cui essa viene discorsivamente mediata e criticata dai suoi soggetti e
dai suoi attori: la politica è una pratica che deve essere sempre
un’elaborazione intellettuale e valutativa. Le “armi della critica” rimangono
fondamentali, non alienabili. È il caso di ripetere la nostra domanda: ciò che
accade, da molti anni, all’interno del sistema politico italiano può essere
considerato “politica” oppure semplicemente lotta per un potere indefinito, al
di fuori da qualsiasi riferimento sistemico a valori, progetti, programmi?
Insomma: si è cercato e si cerca di esercitare il potere al di fuori da
qualsiasi possibile visione del mondo esaltando, proprio nello specifico del
“caso italiano”, l’antica categoria del “trasformismo”. Dal nostro punto di
vista la domanda è retorica e la risposta scontata: non ravvediamo tracce di politica
nell’agire sulla base dell’individualismo competitivo. Tanto più che va
aggiunta una considerazione: nonostante che si tenti, come sta accadendo o
forse è già accaduto, di ridurre così la politica a “simulacro del comando” non
sarà possibile cancellare l’idea del conflitto sociale. Così
ridotto l’esercizio del potere inteso come frutto dell’affermazione
individualistica sarà sempre arbitrario ed eccederà
sempre la norma: in questo modo la “questione morale” sarà sempre direttamente
connessa con l’arbitrarietà e l’eccesso. Il punto di fondo dell’interrogativo
che si intende porre in questa occasione rimane allora quello del come,
attraverso i meccanismi della democrazia, si possa riuscire a limitare
l’eccesso del potere rispetto alla norma e portare il conflitto dentro la
politica.
Sicuramente come dimostrano le vicende attuali interne al sistema politico italiano non ci si riuscirà limitandoci a un’espressione dell’angoscia di sé con l’obiettivo rivolto a provocare una lotta destinata soltanto a determinare l’esclusione degli “altri” in nome della propria solitaria “affermazione di potere”.
Si tratta della grande questione che riguarda la possibilità dell’”inclusione collettiva” attraverso l’espressione dell’intermediazione politica svolta in funzione della rappresentanza sociale: un tema che nel ’900 si affrontò nello scontro tra totalitarismi e organizzazione democratica fondata sui partiti di massa e che oggi, toccato con mano che “la storia non è finita”, dovrà essere ripreso in termini nuovi sui quali però non pare essere ancora partita una adeguata riflessione.
Sicuramente come dimostrano le vicende attuali interne al sistema politico italiano non ci si riuscirà limitandoci a un’espressione dell’angoscia di sé con l’obiettivo rivolto a provocare una lotta destinata soltanto a determinare l’esclusione degli “altri” in nome della propria solitaria “affermazione di potere”.
Si tratta della grande questione che riguarda la possibilità dell’”inclusione collettiva” attraverso l’espressione dell’intermediazione politica svolta in funzione della rappresentanza sociale: un tema che nel ’900 si affrontò nello scontro tra totalitarismi e organizzazione democratica fondata sui partiti di massa e che oggi, toccato con mano che “la storia non è finita”, dovrà essere ripreso in termini nuovi sui quali però non pare essere ancora partita una adeguata riflessione.