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CONVERSAZIONE CON ALESSANDRA PAGANARDI
Alessandra Paganardi (Foto di Alessando Magherini) |
La regola dell’orizzonte
ODISSEA: Vorrei che situassi La regola dell’orizzonte nel tuo percorso poetico che oramai comprende un significativo numero di titoli.
PAGANARDI: Non sempre l’ultimo libro è il più amato da un autore: nel caso, se può valere qualcosa il mio giudizio, questo lo è. La nota di Giancarlo Pontiggia parla di “interiorità vigile e a volte allarmata”. Di sicuro non è stata una stesura semplice e ancor più tormentata è stata la decisione di pubblicare il quarto libro: ero quasi orientata, per una certa sfiducia nei mezzi di comunicazione culturali tradizionali, o semplicemente per rompere le fila dell’abitudine, a distribuire i miei versi in forma di e-book o di self-publishing. Sentivo infatti che quest’opera aveva segnato uno stacco nel mio percorso: pur curando come sempre molto la struttura formale e la musicalità, avevo lasciato che le immagini irrompessero e disgregassero alcuni dei miei amati endecasillabi o settenari. Erano più spesso i ritmi, ora, ad essere asserviti alla visione, molto più che nei libri precedenti, in cui le soluzioni formali finivano sempre per assoggettare a sé la “fanopea”. Mi sembrava un segnale forte, comunque si giudicasse il risultato, e avrei voluto rimarcare il cambiamento anche sul piano del comportamento nel diffondere il libro. Però non riesco ad essere molto disinvolta nel mondo della Rete e non sapevo davvero come. La proposta di uscire nella collana Ancilia, pregiata sia sul piano grafico che del profilo editoriale, mi ha convinto a pubblicarne un nuovo.
ODISSEA: La distanza che separa La regola dell’orizzonte dalla precedente raccolta La pazienza dell’inverno, copre un arco di temporale abbastanza ampio.
PAGANARDI: Per molto tempo, dopo la conclusione del precedente La pazienza dell’inverno (uscito nel 2013), mi ero occupata unicamente di prosa nelle tre declinazioni che ho finora coltivato a vario titolo: la narrativa breve, la saggistica e l’aforistica. Mentre la saggistica ha sempre convissuto per me con il fare poetico, la narrativa ne è in qualche modo il laboratorio e l’aforistica ne costituisce quasi il muscolo antagonista: nel senso che nei periodi, brevi o lunghi che siano, in cui scrivo aforismi, non scrivo mai poesie. Poi (nel corso del 2016) è accaduto qualcosa che non saprei descrivere e ho ricominciato a scrivere versi, molti versi, particolarmente notturni. Per mesi non ho più scritto altro che versi, che andavano situandosi quasi da soli in contenitori da subito abbastanza definiti, poi divenuti sette sezioni. Ma quando ho capito che i testi erano finiti, soltanto allora ho cominciato un lavoro di revisione delle singole poesie, che è culminato nell’ultima di circa centoventicinque stesure successive. Dopo circa centoventicinque stesure è nata La regola dell’orizzonte. Non è la prima volta che la poesia per me subisce visitazioni ed eclissi di questo tipo: anche adesso mi trovo in questa situazione. L’intermittenza sta a ricordarci che la poesia è un dono, non un esercizio né tantomeno un compito. Un dono da coltivare ponendosi in ascolto costante della poesia degli altri, affinché l’orecchio interiore rimanga affinato a sufficienza per captare l’arrivo di ispirazioni nuove e genuine. Che la si chiami Musa o Duende, la poesia ha pieno diritto di visitarci quando vuole e di tacere quando crede. Non si compera, non si merita, non si guadagna a nessun prezzo. Forse è quanto di più simile a ciò che i credenti chiamano “grazia”.
ODISSEA:
Emergono, in questi versi, i luoghi di una “mitologia” personale tutta
letteraria, mi sbaglio?
PAGANARDI:
Non tutta letteraria, a dire il vero. A parte la sezione dedicata ad
Antonia Pozzi (il cui monogramma, appunto, è casualmente identico al mio, AP),
a parte la Parigi della fine di Celan e la Lisbona del “male di universo”
pessoviano (due città comunque amate), gli altri scenari sono reali e
corrispondono a esperienze esistenziali, che naturalmente restano sullo sfondo:
c’è molto mare, in particolare quello ligure, ci sono due memorabili viaggi in
Galizia e in Islanda, ci sono le ondulazioni preappenniniche delle estati della
mia infanzia e moltissima Milano, la città in cui sono nata e in cui tutto
sommato mi piacerebbe (si fa per dire) morire.
ODISSEA:
Chi sono gli angeli guardiani che una sezione della raccolta evoca, ma che al
lettore restano piuttosto indecifrabili?
PAGANARDI:
Sono gli accompagnatori ideali dell’angelo della storia di Klee, che va
avanti con la testa voltata indietro, ma proprio per questo va avanti. Sono i
nostri spiriti-guida, non naturalmente nel senso ingenuo del termine, ma in
senso psicologico o, se vogliamo, esoterico: sono le nostre ossessioni, i
traumi oscuri che ci hanno reso ciò che siamo, con le nostre fragilità ma anche
con la nostra unicità. Tutto il libro, ma in particolare questa sezione (che è
stata definita la più onirica ed ermetica) fa i conti con i traumi e gli errori
a cui siamo stati tutti, chi più chi meno, esposti dalla brutalità della vita;
ciò che propone è esattamente uno scatto di energia attraverso la scrittura:
una scrittura che non deve essere fragile come eventualmente lo è l’autore, non
deve fargli da “terapia” (concezione orribile e mortificante sia per la poesia
che per il poeta), non deve consolarlo. Deve attraversarlo come un marchio,
nella piena accettazione di sé, del dolore, del passato, di ciò che è
irreparabile. È il poeta deve accettare di esserne attraversato, marchiato,
ustionato (diceva Maria Zambrano). Soltanto se esce dalla logica della
mediazione e del bilancio, per entrare in quella della nudità e del destino, la
scrittura può sperare di affrancarsi dalla limitata biografia dell’autore e
cominciare a immettersi nel flusso delle vicende universali: quelle che, senza
essere raccontate, trapelano dai versi dei poeti che amiamo ancora rileggere,
anche anni dopo la loro morte. Io non dico certamente di esserci riuscita e
neppure, forse, di aver cominciato. Ma so che questo è il compito della poesia
e credo che riuscire a chiarirlo a se stessi, quand’anche non scrivessimo mai
più un solo verso, sia di per sé una preziosissima bussola intellettuale e
interiore.
ODISSEA:
A parte i testi della sezione “Il resto della vita” e di “Monogramma”
contrassegnati da numeri romani, le altre sezioni che compongono il volume
“Mare apparente”, “Angeli guardiani”, “Il codice del vetro”, “Il peso del
vento” e “A termine”, non hanno alcun titolo. Come mai questa scelta?
PAGANARDI:
Tutte le sette sezioni del libro sono nati come “poemetti”, anche se non
amo la parola, e sono state scritte ciascuna in un arco di tempo concentrato,
con una specie di fissità e quasi di ossessione ispirativa a un gruppo di idee
e immagini. Fra un “poemetto” e l’altro c’era sempre uno stacco di alcuni
giorni ed ero ben consapevole di ciò che stava passando via via per gli schermi
interiori: perciò ho ideato i titoli contemporaneamente alle sezioni. Nessuna
delle poesie singole, di contro, ha un titolo e i numeri progressivi si trovano
soltanto in due sezioni fortemente dedicate, che chiamerei addirittura dialogiche:
e l’etimologia stessa di dialogo, con
il dià dell’attraversamento, suggerisce anche una diacronia, che andava
rimarcata. Nelle altre cinque sezioni, pur egualmente compatte, i testi sono
autonomi e non hanno come focus una
figura umana o letteraria con cui dialogare, ma un grappolo, una concrezione
convergente di immagini di
riferimento.
ODISSEA:
A parte l’uso delle lineette, in verità un uso molto parco, i segni di
interpunzione sono del tutto inesistenti. Puoi spiegare il perché di questa
scelta?
PAGANARDI:
Ha a che fare con ciò che dicevo prima: la compattezza delle sezioni e
la scelta di piegare spesso la sintassi all’immagine. Anche questo ha segnato
un passaggio, una svolta, che non necessariamente resterà stabile. I testi
scritti ultimamente, ad esempio, privilegiano la forma chiusa e sono tornati
alla punteggiatura, all’endecasillabo, all’enjambement.
Le ragioni, è presto anche soltanto per ipotizzarle. Forse, se ci sarà, potrà
provare a farlo il prossimo libro.
La copertina del libro
[Intervista a cura di Angelo Gaccione]