CRONISTORIA BELLICA DI UN SUPERSTITE
di
Nicolino Longo
Il
soldato di Fanteria Mobile Giuseppe Longo, numero di matricola, 23745, è stato
uno dei pochissimi superstiti della battaglia di El Alamein.
I.
Nel
mio articolo sono trattati atti di sprezzante e raccapricciante autolesionismo,
ed i sacrifici affrontati da uno sprovveduto contadino, quale era mio padre, in
un contesto bellico, quello di El Elamein, altrettanto esiziale e
raccapricciante, che procurò la distruzione totale di diversi battaglioni
dell’esercito italiano e tedesco. Nel rileggermelo mi ha fatto piangere
veramente a dirotto. Pensavo che mi prendesse il terzo infarto.[Nicolino
Longo. 6 maggio 2021]
Come
da suoi racconti e foglio matricolare, Saluzzo, Chieti, Galatina, Galatone,
Molfetta, Brindisi, i luoghi in cui Giuseppe Longo (in forza al 44° Reggimento
Fanteria di stanza in Saluzzo, con predesignazione al I Battaglione Complemento
per il 260° Fanteria) prestò servizio militare, per poi sbarcare -avendo
usufruito, dappoiché nato il 29 luglio 1921, di un anno di rinvio per due
fratelli già al fronte- solo il 27 febbraio 1942, a bordo di un bimotore
decollato dalla Puglia, a Tripoli. L’atterraggio ebbe a concludersi -tanto per
cominciare - con un gran spavento per tutti gli aviotrasportati, essendo, in
fase di rullaggio, scoppiato uno pneumatico al velivolo. Di lì a poco, dovette,
comunque, assistere, “obtorto collo”, non solo a chi, in preda alla
tanatofobia, non riuscirà più a ingurgitare cibo, fino all’inanizione, ma anche
alle molteplici e truculente mutilazioni che talaltri suoi commilitoni, quali
cutter, si autoprocureranno “en cachette”, con le proprie armi, per farsi
rimpatriare: ci fu, infatti, chi si fece saltare un braccio, chi l’indice della
mano destra, e chi arrivò persino a rendersi
reo di edipismo, ossia di autolesionismo diretto sugli occhi (in specie,
quelli atti alla mira), ma anche chi si finse matto, per venire poi sottoposto,
ovviamente senza previa anestesia, a onicectomia, o ad altre torture
tendenti sempre allo smascheramento,
fino a rinsavire. Tutto questo per difetto di self-control, a causa
dell’eccessiva fobia bellica. Lui si propose, invece, di far rientro tutto
“intero” in patria, e se qualche “pezzo” (o tutto il corpo) avesse dovuto pur
perderlo, questo sarebbe dovuto avvenire solo ed unicamente per causa di
servizio, e bensì non per follia fobica autolesionistica. Non mancò però -come
poi racconterà- di affidarsi alla promessa di un voto, se, a fine conflitto, fosse rimasto vivo: recarsi a piedi nudi al
santuario della Madonna del Pettoruto, in San Sosti, CS: voto il cui
scioglimento poi, vuoi per motivi di riservatezza, vuoi per asperità dei
sentieri da attraversare, non sarà mai onorato da lui, se non con l’atto della
confessione auricolare in occasione della celebrazione, assieme ad Ada Ferraro,
delle sue nozze d’oro, 20 febbraio 2000, di cui avrà ad occuparsi, con dovizia
di particolari, Il Quotidiano della Calabria.
Come
da suoi racconti e foglio matricolare, Saluzzo, Chieti, Galatina, Galatone,
Molfetta, Brindisi, i luoghi in cui Giuseppe Longo (in forza al 44° Reggimento
Fanteria di stanza in Saluzzo, con predesignazione al I Battaglione Complemento
per il 260° Fanteria) prestò servizio militare, per poi sbarcare -avendo
usufruito, dappoiché nato il 29 luglio 1921, di un anno di rinvio per due
fratelli già al fronte- solo il 27 febbraio 1942, a bordo di un bimotore
decollato dalla Puglia, a Tripoli. L’atterraggio ebbe a concludersi -tanto per
cominciare - con un gran spavento per tutti gli aviotrasportati, essendo, in
fase di rullaggio, scoppiato uno pneumatico al velivolo. Di lì a poco, dovette,
comunque, assistere, “obtorto collo”, non solo a chi, in preda alla
tanatofobia, non riuscirà più a ingurgitare cibo, fino all’inanizione, ma anche
alle molteplici e truculente mutilazioni che talaltri suoi commilitoni, quali
cutter, si autoprocureranno “en cachette”, con le proprie armi, per farsi
rimpatriare: ci fu, infatti, chi si fece saltare un braccio, chi l’indice della
mano destra, e chi arrivò persino a rendersi
reo di edipismo, ossia di autolesionismo diretto sugli occhi (in specie,
quelli atti alla mira), ma anche chi si finse matto, per venire poi sottoposto,
ovviamente senza previa anestesia, a onicectomia, o ad altre torture
tendenti sempre allo smascheramento,
fino a rinsavire. Tutto questo per difetto di self-control, a causa
dell’eccessiva fobia bellica. Lui si propose, invece, di far rientro tutto
“intero” in patria, e se qualche “pezzo” (o tutto il corpo) avesse dovuto pur
perderlo, questo sarebbe dovuto avvenire solo ed unicamente per causa di
servizio, e bensì non per follia fobica autolesionistica. Non mancò però -come
poi racconterà- di affidarsi alla promessa di un voto, se, a fine conflitto, fosse rimasto vivo: recarsi a piedi nudi al
santuario della Madonna del Pettoruto, in San Sosti, CS: voto il cui
scioglimento poi, vuoi per motivi di riservatezza, vuoi per asperità dei
sentieri da attraversare, non sarà mai onorato da lui, se non con l’atto della
confessione auricolare in occasione della celebrazione, assieme ad Ada Ferraro,
delle sue nozze d’oro, 20 febbraio 2000, di cui avrà ad occuparsi, con dovizia
di particolari, Il Quotidiano della Calabria.
Longo al fronte in
Africa nel 1942
II.
Ridotta
Capuzzo, Sollum, Tobruch, Derna, Porto Said, Sidi Barrâni, Marsa Matruh,
Alessandria, Il Cairo, i toponimi libico-egiziani che rimarranno, invece,
tristemente (e maggiormente) impressi, per sempre, nella sua memoria di ex
combattente in forza al 61° Reggimento Fanteria Mobile, in Africa
Settentrionale. Come anche la morte vista in faccia nel Canale di Suez, nelle
cui acque fu catapultato, per scherzo, da un suo commilitone, ignaro del fatto
che non sapesse nuotare, e dalle cui profondità riemerse, dispnoico e
annaspante, dopo qualche minuto, solo per miracolo, o chissà quale legge fisica
(di Archimede?) o di sopravvivenza. Il luogo di cui più spesso, e
dolorosamente, avrà, comunque, a ricordarsi, sarà quello in cui fu fatto
prigioniero, El-Alamein. Qui, più che altrove, infatti, rischiò la vita sia
quando una scheggia di bomba ebbe a rasentargli un fianco, sia quando persino
un carro armato amico, arretrando, nottetempo, sotto il fuoco intenso e
travolgente dell’artiglieria inglese (che disponeva di blindati assai più robusti
e più veloci di quelli dell’ACIT), ebbe a passare, lasciandolo fortunosamente
illeso, proprio sulla trincea d’approccio da cui stava, col suo corredo
bellico, operando. Ed a proposito di carri armati, a lui non poté non rimanere,
per sempre, impressa nella memoria, anche l’astuzia del suo generale Rommel (la
volpe del deserto), che riuscì -racconterà- a far credere al nemico che
disponesse di migliaia di quei mezzi cingolati, col farne andare uno solo,
durante tutta una notte, avanti e indietro su tutta una vasta area del deserto,
in modo tale da farne lasciare una quantità enorme di tracce, che, al mattino,
costrinsero, gli inglesi -allibiti e terrorizzati- almeno per quella volta,
alla ritirata senza colpo ferire. E
fu in questo stesso villaggio egiziano di El-Alamein che rischiò anche la
fucilazione per esser rimasto, a resa avvenuta, in possesso di alcune bombe a
mano (che lui, proprio in qualità di ex contadino-pastore, riusciva a
scagliare, con precisione quasi millimetrica, a una distanza di gran lunga
superiore a quella dei suoi stessi istruttori). Se ne disfece, facendole cadere
ad una ad una in un cespuglio dietro di sé, infatti, all’ultimo momento,
proprio quando si convinse che la resa era ormai totale e che gli ufficiali
dell’VIII Armata britannica (quella stessa -poi riorganizzatasi- che, circa un
pentamestre prima, era stata sbaragliata dalle forze italo-tedesche) stavano
per fargli la rivista. Cessò di essere in zona operativa il 3 novembre 1942,
rimanendo, così, internato, quale prigioniero di guerra, in Egitto, dal 4 dello
stesso mese fino al maggio 1946. Si può dire che, con gl’inglesi, gli andò bene
anche quando, poi, si rifiutò, categoricamente, di lavorare a contatto con le
perniciose e nauseabonde esalazioni della catramatura. Rifiuto, questo, per cui
gli albionici lo condannarono, in nome della regina Elisabetta, a soli ventotto
giorni di “calaboose”, che scontò, “così, con prigionia nella prigionia”, a
pane e acqua, nel chiuso di una tenda.
III.
L’acqua
era, comunque, già tanto, se si pensa che, molte volte, lui e i propri compagni
avevano, per dissetarsi, dovuto bersi la propria urina, che veniva lasciata per
tutta una notte al sereno e tracannata poi al mattino. E gli andò, infine, abbastanza bene anche
quando, da un suo caposquadra italiano, in forte succubanza di quelli
britannici, incitato per mesi, freneticamente, a battere sempre più forte e più
celermente, con un maglio a due mani, sopra a dei paletti per palizzate, da
conficcare nel suolo, finì, per la troppa stanchezza, e quindi
involontariamente, dopo ore e ore di questo massacrante lavoro, sotto il caldo
intenso del deserto, per colpire, un giorno, la mano con cui questi reggeva,
verticalmente, uno di quei paletti, quasi a sfracellargliela, e facendolo così
“cantare” - come racconterà, scherzosamente, ma contrito, lui - anche di
giorno, dal momento che il malcapitato, zelante, burbero (sit venia verbo)
caposquadra si chiamava “Cantalanotte”: al quale si impetra perdono, adesso per
allora, se è ancora in vita, nonostante si fosse trattato, come dianzi
delucidato, di un mero e puro sinistro sul lavoro.C’è
da dire, a proposito di provvigione idrica, che, durante la permanenza di quasi
un quinquennio in Africa Settentrionale, lui vide piovere, usufruendone, solo
una volta. La cosa più terribile nel deserto era -diceva spesso-, proprio a
causa della canicolare siccità, la frequenza delle tempeste di sabbia,
alimentate dal famigerato vento libico, il ghibli. Ma anche la fame, se si
pensa che lui e i suoi compagni, quando in deficit di piastre, scorze di patate
crude o gatti (lui, però, detestava, in quanto pratica schifosa e nociva per la
salute, l’“ailurofagia”, anche a costo di digiunare per giorni), dovevano, pur consci di perpetrare un atto
fraudolento, ingegnarsi a confezionare pacchetti di sigarette con sabbia, per
poi barattarli con uova o cocomeri deserticoli in cui erano soliti commerciare
gli arabi, i quali, quando poi si avvedevano della frode, ritornavano presso le
loro tende, a domandare, imprecando, la restituzione del maltolto. Ma bastava -
diceva lui - mostrare loro un tocco di fune, con un cappio ad una delle
estremità, per dispergerli senza mai più rivederli: e ciò perché essi
credevano, in osservanza della metempsicosi della loro religione, che, morendo impiccati, e,
quindi, non bagnando del proprio sangue il terreno, non sarebbero potuti poi
più rinascere. E
quando si dice che “Non tutto il male viene per nuocere”, durante quel bensì diutino
periodo di cattività, grazie alla disponibilità e pazienza di alcuni suoi
commilitoni dotti in materie letterarie, lui ebbe anche modo di imparare a
leggere, a scrivere e a far di conto e, soprattutto, a far tesoro della saggia
e ferrea disciplina inglese, che osserverà, poi, coinvolgendone anche la
propria famiglia, vita natural durante: mangiare, senza mai ingozzarsi, sempre agli stessi orari; radersi la barba
ogni mattina; lavarsi ogni sera i piedi; le mani ogni volta prima di toccare
cibo; volgere sempre il petto, e mai le spalle, alle correnti d’aria quando si
era sudati; saltare sempre sulla punta dei piedi, e mai sui talloni, per
evitare di procurarsi l’ernia inguinale, ecc. Rientrò in Italia, sbarcando nel
porto di Napoli, nella primavera del 1946. Lasciandosi, così, una volta per
sempre, alle spalle quella terra che lui avrà, per tutta una vita, in astio,
definendola “maledetta” al punto che, per nessuna ragione al mondo, avrebbe
voluto più mai rivedere, anche se ne serberà, gelosamente, e per sempre, un
portafogli in pelle, una valigia in ciliegio (lì, fattasi costruire da un
commilitone reggino), e gli attrezzi per la barba, che utilizzerà fino alla
morte. All’atto del congedo, fu liquidato - per la partecipazione alle azioni
belliche e le incombenze onorate quale “prigioniero di guerra nel fatto d’armi
di Africa Settentrionale” - con una somma di lire quarantamila (€ 20,66 circa),
con cui acquisterà la sua prima casa (oggi toccata, in eredità, al suo
ultimogenito Antonio, ex assaltatore presso la Caserma Militare “Berardi” di
Avellino prima, ed ex bersagliere atleta presso la “II Compagnia Speciale”
omonima di Napoli poi, in forza alla
quale parteciperà, assieme a truppe speciali statunitensi, al recupero dei
superstiti sotto le macerie e all’installazione delle tende, nel terremoto
dell’Irpinia 1980). Era il 20 del mese di maggio, e, quando lui, il reduce dal
fronte d’Africa, rivide gli alberi e le ginestre in fiore, pianse di gioia.Ma
mentre il quarto fratello, Domenico, aveva evitato, solo d’un soffio, la guerra
in quanto nato nel 1924, e l’altro, Nicola, dal cappello con la penna alpina,
nato nel 1918, e in forza presso il 63° Reggimento Fanteria, I Compagnia
Vercelli, era rientrato, anche lui sano e salvo, dal confine italo-francese.Il
meno giovane, Angelo, che era nato nel 1916, e in forza presso il 69°Fanteria
CC.PM261/c, aveva, invece, immolato la propria vita per la patria, dilaniato da
una bomba inglese, nel 1943, in terra di Libia (bomba che precluse a lui, per
sempre, la possibilità di rivedere le “ginestre in fiore”). Era stato un
giovane contraddistinto da una salute di ferro, dotato, come nessun altro suo
coetaneo, di una forza erculea e un coraggio daddovero non comune che lo aveva
indotto a stare quasi sempre fuori dalle trincee, e a sfidare quindi a viso
aperto il nemico. Nel periodo prebellico, aveva dato prova, tra le altre cose,
anche di eccellere nell’arte orchestica, in cui si esibiva suonando
contemporaneamente l’organetto (con il quale parimenti dimestichezza avevano
anche i tre fratelli). In più - come racconterà un suo commilitone di Praia a
Mare, che lo aveva visto “ire ad patres”, in mille pezzi - era stato, in virtù
altresì della sua particolare intraprendenza e intelligenza, anche assai amato
e stimato dai suoi superiori, a tal punto che, in alcune incombenze, molto
spesso, importanti e delicate, nonostante il suo status di contadino non
alfabetizzato, era stato, da essi medesimi, anche chiamato a farsi supplire.
Lui,
Giuseppe, che fu, dunque, uno dei non molti superstiti dell’assai cruenta e
tragica battaglia di El-Alamein (in cui, gli eserciti italo-tedeschi, al
comando del feldmaresciallo Rommel, il 4 novembre 1942, dopo un’acerrima,
eroica resistenza in atto dal precedente 30 giugno - con perdite, negli ultimi
cinque giorni, gravissime, soprattutto per le divisioni italiane di fanteria,
in prima linea: Trento, Bologna, Trieste, Pavia e Brescia, nonché per la
paracadutisti Folgore, e, in particolare, per le due corazzate, Littorio e
Ariete, che vennero addirittura annientate -, dovettero capitolare di fronte
alle meglio equipaggiate e preponderanti - tre volte superiori a quelle del
Panzergruppe tedesco - forze di terra e dell’aria britanniche, al comando del
generale Montgomery), lui, Giuseppe, si diceva, assieme ai già defunti,
fratello Nicola e padre Nicolino (che aveva partecipato, nel I Conflitto
mondiale, o IV guerra d’Indipendenza che dir si voglia, alle due battaglie del
Piave), è stato, in data 4 novembre 1999, “a testimonianza del gran sacrificio
profuso in guerra”, insignito, da parte di una delle tante amministrazioni
comunali di San Nicola Arcella a guida del sindaco, prof. Domenico Donadio, di
Diploma con Medaglia. Angelo, unitamente agli altri caduti in guerra
sannicolesi nelle due Guerre, invece, è commemorato da un megacippo
litico-marmoreo, svettante, da parecchi decenni, all’interno del “Parco delle
Rimembranze” del paese natio. A
Carmela (nella foto con Giuseppe e che andò in isposa all’ex bersagliere
scaleota, Giuseppe Antonio Galiano, reduce da Città del Capo ove era stato
tradotto, quale prigioniero di guerra, dagl’inglesi) e agli altri fratelli,
oggi sopravvive solo la sorella Rosina (di anni 90), suocera dell’attuale
sindaco di San Nicola Arcella, rag. Barbara Mele, e vedova dell’ex combattente,
Rodolfo Laino, deceduto, poco più che cinquantenne, per i postumi dei pregressi
malanni contratti nell’esiziale algore del fronte russo.
Africa nel 1942