PAROLE E LINGUA
di Nicola Santagada
Il
ricordo e la memoria
Parole
che attengono alla facoltà della mente come sapere, conoscere
e ricordare sono mutuate dal processo di riproduzione. Quando i
latini coniarono sap-io, dissero alla lettera così: fa dal mancare
ciò che si genera, deducendone: io so. La conoscenza profonda di cui
il pastore greco e latino aveva consapevolezza era la seguente: nel processo di
riproduzione animale e vegetale, ciò che si realizza, vuoi il grano, vuoi la
creatura in grembo, avviene attraverso il mancare, che, in primis, è il
seme che si dissolve per poter crescere e che, poi, lega, determinando un altro
mancare, che è l’acquisizione graduale di quanto necessita alla creatura per la
sua formazione completa. Il mancare, che, sicuramente, rimanda alla
formazione dell’essere e, quindi, al segno della gravida, è continuamente
presente nell’identificazione del reale. Quindi, i latini aggiunsero che l’uomo
che ha questa consapevolezza non solo sa, ma è anche sapiente ed
è depositario della sapienza.
Il pastore greco, quando coniò ὁραω: guardo, osservo, vedo, comprendo, ragionò
così: durante i nove mesi (mentre scorre il tempo del legare e mancare,
con la comparsa del segno), io esercito la capacità visiva, sebbene se
ne servisse sempre, e capisco ciò che sta avvenendo. Poi, si avvalse di
un'altra radice ιδ (genera il mancare, che indica il
mancare del grembo) da cui formulò l’aoristo 2: (eidon)εἶδον: vidi (quella volta, mi resi conto). Da ιδ fu ricavata:
(idea) ἰδέα: vista, aspetto, forma, idea
di Platone, forma ideale, concetto astratto. Quindi, il pastore fece
un’altra considerazione da (ε) ιδ deduco per me
e coniò (eidomai)
εἴδομαι: appaio, mi mostro, sembro, fingo, sono
simile. Da eidomai fu estrapolato il deverbale εἶδος: aspetto, immagine, forma,
quindi (eidolon) εἴδ-ωλον: simulacro,
ritratto, statua, feticcio, idolo.
Poi, quella creatura divenne tutto, fino ad essere
idolatrata. Dedusse ancora (eidullion) εἰδ-ύλλιον: forma
letteraria di piccole dimensioni (piccole scene bucoliche), l’idillio
teocriteo, quello bucolico di Virgilio, quello di Leopardi,
quello fra due innamorati. Inoltre, il pastore da ιδ dedusse: οἶδα, per cui pensò: tutte le volte che vedo quel segno io
so. I latini, per dire: io so, coniarono anche scio, da
rendere: il mancare genera il passare (durante la gestazione), per cui
lo sciente non solo è colui che sa, ma ha anche verificato e comprovato le
sue conoscenze che hanno valore scientifico. Il pastore latino attribuì
valore di scienza al processo di riproduzione, in quanto, dati alcuni presupposti,
tutto si verifica con costante regolarità e necessità.
La radice ιδ passò nella
cultura latina, determinando vιδ-eo: vedo,
che è ciò che consegue al pastore, quando la creatura manca, perché in
formazione. Quindi, se io manco (in questo caso: non ho) di
qualcosa che desidero, provo invidia, deducendo il verbo in-video.
Poiché nell’occhio si riscontra il mancare, gli occhi hanno un
potere malefico, in quanto il maleficio della superstizione, oltre agli
intrugli, avviene anche attraverso gli occhi. Quel vedere mi porta anche a prevedere:
a prefigurare tutto il decorso e a stabilire la data della nascita, a provvedere,
nel senso e di provvedere a quanto necessita alla creatura che nascerà e nel
senso di acquisire ciò di cui manco e di cui, quindi, ho bisogno. Dal
participio presente provvidente fu dedotto il nome astratto provvidenza
e anche la Provvidenza: Dio vede e provvede.
Inoltre, i
latini coniarono, come omologo di eidomai, il verbo deponente: videor:
appaio, sembro (mi sembra), per indicare un’accentuazione
del grembo che può preludere ad una gravidanza. Il pastore italico, che aveva
acquisito il significato originario di σῆμα: segno del grembo ingravidato, coniò: sembrare,
assembrare, assemblare, insieme ecc.
Prima di
concludere queste considerazioni sulla radice ιδ, mi piace fare
delle considerazioni sul verbo divido: divido, separo, distribuisco,
ripartisco. I significati desunti (separo e distribuisco) non hanno
nulla in comune, perché la perifrasi contenuta in divido legge due
contesti diversi. La madre, legando, divide il nutrimento con
l’unico nascituro o lo ripartisce ai più (quando sono più di uno),
mentre il separare legge il momento successivo alla nascita, quando il
legare causa un mancare necessario, che è il distacco del cordone
ombelicale.
Colui che i latini
avevano definito sapiente e sciente e gli italici saggio,
deducendolo da sa (dal mancare avviene il processo di formazione dei
viventi) e, quindi, da un probabile prestito greco: σάω: io vaglio, precedentemente, era stato definito dai greci (sofòs)
σοφός: dotto, sapiente, assennato, esperto, idoneo,
desumendolo da questa perifrasi: è colui che legando (avvalendosi
dell’inventiva e della capacità manipolativa) fa nascere il mancare (ciò
che necessita). Quindi, da (sofòs) σοφός fu dedotta la
parola (sofia) σοφία: conoscenza, sapere, scienza, abilità,
destrezza. Mi piace concludere queste considerazioni su scienza, soffermandomi
su ἐπιστήμη (episteme), dedotta
dal verbo medio ἐπίσταμαι: so, conosco, che ha dato luogo nel linguaggio moderno a episteme,
a epistemico a epistemologia.
Continuando a
fare delle considerazioni su il sapere e la conoscenza, bisogna
dire che la conoscenza precede il sapere e, quindi, ciò che il pastore
osservava era alla base delle sue conoscenze e, successivamente, del suo sapere. Infatti, è d’uso l’espressione: so per
conoscenza diretta.
Con (gignosco)
γιγνώσκω: osservo, prendo conoscenza, conosco, riconosco,
il pastore greco dedusse quanto riportato da questa considerazione: osservando
e riconoscendo il grembo
della gravida. Quindi, coniò (gnome) γνώμη: segno,
contrassegno, facoltà conoscitiva, intelletto, sentenza,
giudizio, poi, da sentenza e giudizio ricavò gnomico.
Inoltre, estrapolò (gnosis) γνῶσις: cognizione,
ricavata da ciò che è conosciuto (in latino cognitio), conoscenza,
mezzi per conoscere. Da ghignosco fu ricavato (gnostòs) γνωστός: conosciuto, intellegibile, poi: gnostico e il
contrario agnostico, ad indicare che alcune conoscenze sono precluse
alla mente umana, mentre altri dissero che su alcune conoscenze è opportuno
sospendere il giudizio.
I latini con la
forma arcaica gnosco e con nosco noscis, novi, notum,
noscere: osservo, esamino, imparo a conoscere, conosco
ricalcarono γιγνώσκω. I greci, come già detto, avevano coniato, da ghignosco,
(gnotòs) γνωτός con la variante gnostòs: conosciuto, noto,
così come da nosco i latini dedussero noto, che, per eccellenza,
è il grembo ingravidato. Da noto furono ricavate: nozione, notizia
e nota. La nozione, che si ricava da ciò che è noto, è fondativa
del sistema delle conoscenze e dei saperi. Senza nozioni la mente è vuota. Il
noto produce la notizia (la creatura è nata), che, per come riporta Il
Treccani, è: “conoscenza, come acquisizione o
possesso di una cognizione, relativamente a cose, fatti o persone ecc. “. Il
noto si fa notare (denoto, annoto, connoto, prenoto) e determina la nota,
quella che porta il contrassegno, come aggiunta di altre notizie. Faccio osservare
che, se (gnotòs) γνωτός è conosciuto
(come segno della gravida), quello che è all’interno è i-gnoto.
Come chiosa a queste considerazioni, bisogna
ricordare che non c’è vera conoscenza senza la comprensione di ciò che si conosce
e riconosce. Questa funzione è svolta dall’intelletto, che fu dedotto
dal participio passato di intellego, che indica colui che ha capito/compreso.
Inoltre, tutto il processo, che portò a intelligente, intelligenza,
intelletto, parte da lego: leggo, che, inizialmente,
indicò la lettura del segno della gravida. Colui il quale fa tutte le
deduzioni (interpreta quel segno) capisce, anzi: è intelligente ed è
dotato d’intelletto.
Da
annotare che il (nus) νοῦς (intelletto) fu
dedotto da (noeo) νοέω: mi accorgo/capisco. Il
pastore greco, con νοέω, affermò: dal rendermi conto
della gravidanza, capisco, per cui se uno capisce è dotato del νοῦς.
Il pastore greco coniò il verbo medio (mimneskomai) μιμνήσκομαι: mi ricordo, frutto di questo ragionamento: quando
la creatura è in grembo, a me spetta tenere a mente la data del
concepimento; poi, da questo verbo dedusse (mneme) μνήμη: memoria, ricordo, che è la capacità
di tenere ben legato ciò che è importante: degno di memoria. Da chi è
senza memoria si genera colui che dimentica, da cui la dimenticanza (anche
dei torti) e, quindi, l’amnistia. I latini coniarono, dal modello greco mneme,
il verbo difettivo memini: io ricordo (meglio: io ho memoria),
da cui: memore, immemore memoria, smemorato, commemoro.
Oltre i coni appena detti, mutuati dalla cultura
greca, i latini elaborarono il verbo deponente recordor: io ricordo,
da cui gli italici ebbero il ricordo. Per prima cosa occorre
sfatare che ricordo rimandi a cuore, perché è sempre l’intera perifrasi
che dà il significato al simbolo verbale. Tra memoria e ricordo c’è
una differenza sostanziale. La memoria tiene ben legata la data del
concepimento per ricavarne il giorno della nascita; il ricordo è tutto proteso a
quella creatura che manca (e che mi manca), per cui fissa nella nascita
l’emozione provata, degna di essere custodita. La memoria attiene alla mente e,
perlopiù, a ciò che è razionale, il ricordo rimanda ad un evento fortemente coinvolgente
che tocca, questo sì, tutte le corde del cuore. Allora la memoria è molto
importante e va coltivata perché è a fondamento dei nostri saperi (senza
memoria si sfalda anche la costruzione delle conoscenze), mentre il ricordo riguarda
la sfera affettiva, la cui crescita determina lo sviluppo integrale e completo
della persona, perché è il cuore che accende la luce della mente.