LINGUE VIVE
di
Angelo Gaccione
Il Paese che ha il maggior numero
di scrizioni al mondo in lingua latina e che abbonda di lapidi e di targhe
commemorative che troviamo in ogni dove: dai musei alle chiese; dalle
università ai palazzi storici; dai cimiteri agli ospedali; sceglie di
cancellare dal suo patrimonio, dalla sua cultura, la lingua che quella cultura
ha sorretto e diffuso in mezzo mondo. In pratica ha operato una mutilazione al
suo corpo stesso, una tragica e incomprensibile autolesione. È come se uno si
tagliasse la lingua per diventare muto e si accecasse volontariamente per non
vedere più. Ci pensavo mentre, stimolato dal volume di Contardo Vergani:
Chirurghi in prima linea, mi ero recato nell’atrio del Padiglione Zonda del
Policlinico di Milano per vedere la lapide con l’iscrizione rigorosamente in
latino, dedicata al chirurgo Baldo Rossi. Su queste lapidi c’è di tutto, encomi
compresi, come per l’appunto su quella dedicata a Baldo: Viro amplissimo, civi
constantissimo, artis chirurgicae professori clarissimo. Perché, in fondo,
questo è avvenuto con l’abolizione dello studio del latino nel nostro Paese,
una mutilazione, una perdita irreparabile, che ha privato i suoi cittadini di
una comprensione doverosa e, attraverso questa comprensione, la custodia di una
memoria necessaria. Lo stesso è avvenuto con la scomparsa delle lingue madri
dialettali da Nord a Sud. Generazioni intere non sanno più nulla di alcuni
luoghi delle loro città, così come ignorano parti della loro cucina. Ovviamente
non potranno leggere Porta o Bonvesin de la Riva i milanesi, se non in
italiano; così come non sono più capaci gli italiani nel loro complesso, di
tradurre e capire una iscrizione latina. Le motivazioni dei decisori politici,
quando la riforma ha cancellato dall’obbligo scolastico il latino rendendolo
facoltativo, non si sono soffermate su elementi di palmare evidenza. Non esiste
una sola materia tecnica o scientifica che non abbia alla base la lingua latina
o quella greca. Tuttora usiamo parole latine per indicare strumenti che
maneggiamo di continuo, e potrei farne qui una lista bella nutrita. Per esempio
dal latino digitus (dito) è venuto fuori il verbo digitare, operazione che
oramai noi compiamo di continuo sui nostri telefonini. Stessa cosa per la
parola video, anch’essa di origine latina. Eppure quando si è deciso di spazzar
via greco e latino lo si è fatto sostenendo che fossero delle lingue morte.
Tecnica è parola che viene dal greco e officina è parola latina: eppure negli
Istituti tecnici dove il fare e il progettare sono alla base, si è deciso che
queste due lingue non servissero. Non parliamo poi di scienza e di medicina. Se
davvero un ministero (altra parola latina!) vuole mostrarsi moderno, à la page,
deve intraprendere la decisione di reintrodurre queste due lingue (più vive che
mai) in ogni ordine e grado delle nostre scuole. Conservare il meglio, questo è
un vero atto di coraggio; magari aggiungendovi l’educazione musicale obbligatoria
sin dalla prima elementare e, perché no, una materia che abbia a che fare con
il decoro e la cura dell’ambiente con tutto ciò che vi è compreso. Ne
guadagneremmo tutti, anche dal punto di vista del risparmio economico. Una necessità
sempre presente nel bilancio pubblico.