MELVILLE E IL CASSONETTO DELL’IMMONDIZIA
di Angelo Gaccione
Cesare Pavese
Parlando di Herman
Melville, e in particolare del racconto Benito Cereno, in un lontano
scritto del 1932, Cesare Pavese sottolinea il clima di indifferenza e di
avversione del pubblico nei confronti dell’autore di Moby Dick. La magia
era svanita man mano che la sua prosa si era allontanata dall’esotismo, lo
stile si era fatto più “pregnante” e la materia aveva imboccato strade nuove e
più ardite. La critica non sarà da meno e oscillerà fra silenzio, avversione e
stroncature. Finiva così l’illusione del narratore di guadagnare con la
scrittura “il pane per sé e per la sua famiglia”. Il passaggio di Pavese è
impietoso: “(…) accadeva che toccasse ai lettori e ai recensori il compito di
ricordargli che la società non da nulla per nulla e che chi vuole essere
acclamato deve in sostanza divertirla o viziarla” [‘Melville, i miti di Moby
Dick e Benito Cereno’].
Questo scritto è stato ora riproposto nel volume Cesare
Pavese il mito, curato da Marcello Veneziani per la casa editrice Vallecchi
di Firenze. Credo che ad ogni scrittore degno di tale nome dovrebbe interessare
questa puntuta sottolineatura di Pavese e meditarla. Assecondare il gusto del pubblico
fino a viziarlo, costituisce, a mio modesto parere, un tradimento. Un tradimento
per la sua coscienza morale, la sola a cui uno scrittore scrupoloso deve
obbedire. Da tempo, oramai, il novantanove per cento di quello che ancora
definiamo letteratura, ha preso una pericolosa deriva. Da un lato il pubblico
viene viziato e saziato fino alla bulimia, dall’altro si sono fatti sempre più
stretti e invalicabili gli anfratti, già molto accidentati, per quei pochissimi
che non vogliono né vellicare i gusti deteriori del pubblico, né provocare
offesa alla propria coscienza morale di scrittori.
Herman Melville
in un ritratto di Joseph O. Eaton
Non c’è figura pubblica (vale per ogni ambito delle
professioni e per ogni ambito dell’intrattenimento), che non possa contare sulla
benevolenza del potere mediatico e sui suoi circuiti di diffusione di massa – variamente
connotati – a cui non venga spalancata la porta dell’editoria “maggiore”. È divenuto
così pervasivo, invadente, e forse inarrestabile, questo processo, che una
marea di titoli inutili e mediocri sommerge il poco di buono in circolazione e
lo soffoca. Una foresta fitta e intricata, che raramente lascia scampo a qualche
“cespuglio” dalla forma e dal pensiero dissonanti, che tenta disperatamente di far
capolino dalla sterpaglia. Il prodotto stesso (così si parla del libro
negli ambienti del commercio) ha finito per perdere di autorevolezza, ed è
scomparsa quell’aura di rispetto che lo aveva per secoli e secoli
contraddistinto. Si dirà: la società di massa ha bisogno di prodotti di massa.
Il consumismo è basato sulla merce, anche su merci deteriori, ed il libro è una
merce come un’altra soggetta al consumo e al cassonetto dell’immondizia.
Potevano bastare le televisioni per questo, gli
stadi, i festival di San Remo, i rotocalchi, i talk show. Ma così stanno le
cose e bisogna prenderne atto.
Tenete duro voi scrittori dignitosi e marginali,
non concedete un centimetro al nemico. Lo so, dovete farvi largo avanzando con
il pugnale ben serrato fra i denti, ma non vi è dato altro, se non volete
finire nel cassonetto della spazzatura.
in un ritratto di Joseph O. Eaton