INTEGRAZIONE O COESISTENZA?
di Graziano Mantiloni
Ho avuto
sempre il torto o il pregio non so, comunque il pallino di considerare il mio
paese natale un microcosmo che rappresenta bene, in scala, molte delle
problematiche della nostra società. Prendiamo
l’immigrazione. Nel paese, Castel del Piano, bassa Toscana, circa 4700
abitanti, sono presenti poco meno di un migliaio di stranieri, di una
cinquantina di etnie diverse, che a vario titolo vi hanno preso stabilmente
dimora. Circa un quarto del totale, senza contare gli “irregolari”. Non volendo tenere in considerazione razzismi o
presunti primati di appartenenza a un luogo (che pur esistono e non fanno che
peggiorare le cose), si deve constatare che il fenomeno ha raggiunto vette
importanti e ha portato con sé il problema dell’integrazione. Tuttavia,
il termine “integrazione”, che ormai sta sulla bocca di tutti, se si guarda sul
vocabolario, non vuol significare altro che inserimento in un contesto sociale
accettandone usi e costumi e forse pure la mentalità. È questo quello che
intendiamo? Un’illusione che non fa altro che affaticare quei processi di
evoluzione dei popoli, che esistono da che esiste l’uomo. Si dovrebbe parlare
più appropriatamente di “coesistenza”. Infatti, non
dovremmo mai dimenticare che ciò che spesso viene considerata la “nostra”
civiltà non è altro che lo stratificarsi di usi, costumi, credenze, culture,
che nel corso dei secoli hanno creato “altre” popolazioni interagendo tra loro.
Possiamo forse dire che noi italiani siamo i diretti discendenti dei Latini, o
Etruschi, o Dauni? Ma neanche per idea! I miei discendenti, tanto per fare un
esempio personale, sono immigrati in zona nel 1709 in seguito a una grave
carestia. Lo scienziato Guido Barbujani attraverso uno studio complesso e
articolato ha dimostrato partendo dal DNA quanto l’Italia sia un territorio che
potrebbe benissimo essere definito un crogiuolo di genti provenienti da varie
parti del mondo. Dico che, tanto per riprendere
il ragionamento sull’attualità, preso atto che se non ci fossero gli immigrati
il paese si sarebbe drammaticamente spopolato (la scuola elementare, ad
esempio, sarebbe a rischio soppressione), ma da sempre le popolazioni, in
osmosi continua, si sono spostate per i più vari motivi tra cui guerre, pestilenze,
fame, portandosi dietro i loro costumi e la loro cultura mescolando e
mescolandosi con gli altri. Anche oggi, ritrovare in un paese una sovrabbondante
varietà di etnie, usanze, religioni, è un dato di fatto irreversibile e non può
che avviare un processo inarrestabile di evoluzione della società, che durerà
per generazioni, un passaggio a livelli di convivenza come non avremmo mai
immaginato e non può che essere un bene. Sì, qualcuno a questo punto storcerà
il naso, ma sono convinto che è dal contrasto, dallo sforzo al dialogo, dalla
capacità di ascolto e comprensione che nasca un nuovo modo di vivere nel
futuro. Certamente, pretendere che chi
arriva in un paese, disperato, profugo, senza conoscere la lingua, con problemi
esistenziali giganteschi, possa adattarsi, pretendere che vestano in giacca e
cravatta se fino a ieri vestivano la tunica pakistana, oppure biasimarli per
quel telefonino portato perennemente davanti agli occhi come un cordone
ombelicale, è veramente difficile. O possiamo pretendere che si converta al
cristianesimo chi ha radicata una credenza diversa?
Non
ho verità in tasca o ricette da prescrivere, ma sono convinto che in questo
momento ogni persona di buon senso, ogni Amministrazione locale, ogni assessore
addetto al “sociale”, debba fare tutti gli sforzi possibili per creare
occasioni di dialogo con chi arriva da lontano, disperato, senza nulla indosso
se non il proprio portato di tradizioni e conoscenze, scegliendo di vivere tra
i vicoli ormai abbandonati di un paese che ha perduto da tempo la sua
fisionomia, l’urbanistica, il suo tessuto sociale ed economico.
Una
Amministrazione locale ha il compito e il dovere di porsi in prima linea per
affrontare in ogni occasione la nuova epoca dominata dall’immigrazione.
Organizzare anche una festa curda o indiana, uno spettacolo all’usanza senegalese
piuttosto che cinese, una cena comune con prodotti tunisini o del Marocco,
potrebbero costituire importanti passi di avvicinamento. Come non si stanca di
ripetere anche Papa Francesco, bisogna andare incontro al fratello e porger lui
una mano. Questo deve essere lo spirito. Sì, almeno un sorriso, può innescare
un processo virtuoso utile alla coesistenza. È difficile a volte fare comunità
o meglio fare una nuova comunità, ma oggi siamo in mezzo a questo processo
inarrestabile (checché ne dicano quelli che vorrebbero alzare muri o chiudere i
porti), ci si deve impegnare in ogni ambito possibile con tutte le energie di
cui disponiamo consapevoli che i tempi sono lunghi ma non se ne può fare a
meno.