SULLA CANTORIAdi
Enrico Scavo
“Il nostro giornale è lieto
di tenere a battesimo un nuovo autore di racconti, genere che da mezzo secolo
non ci stanchiamo strenuamente di difendere. Nel
meriggio di quel torrido venerdì 9 giugno 1730 si celebravano a Ferrara, presso
la piccola chiesa di S. Girolamo dell’ordine dei carmelitani scalzi, le esequie
di Costantino Bassani. Sebbene la perdita del giovane musico, trapassato poco
più che trentenne, avesse scosso la piccola legazione, ben pochi membri delle
antiche e illustri famiglie ferraresi, eternamente affrescate
in tanti seicenteschi scritti di storia patria, ora decadenti nei fronzoli come
nei modi, sedevano tra le panche apparate a lutto. Quel cognome, Bassani, era
assai noto a tutti. Le musiche composte sul calare del secolo XVII da Giovanni
Battista, nonno del giovane adagiato sul catafalco ligneo, riecheggiavano
ancora nelle rare accademie musicali che davano lustro alle chiese cittadine.
Un’eco riverberata dal figlio Paolo Antonio che, alla sua dipartita, gli era
subentrato alla battuta della cappella della chiesa madre. Questi, privo di
alcun genio creativo e di temperamento indolente – ma dotato di quella perizia
organistica forse naturale per chi, come lui, fosse cresciuto su di una
cantoria a voltare le pagine all’organista o a levare il mantice – non faceva
che riproporre le composizioni del «gran Bassani». L’accettazione della sua
torpida vena era infatti, e ben presto, subentrata all’iniziale desiderio di
legittimare, con un saggio della sua raffinata cultura musicale, una posizione
che, stando alle maldicenze serpeggianti in capitolo, aveva raggiunto grazie al
deciso intervento di un partito che, favorendone l’ascesa, intendeva sdebitarsi
con il padre per una manciata di Kyrie e Te Deum ancora da
saldare. In fin dei conti, si chiedeva, «perché dannarsi nel tirar fuori dalla
spinetta nuove melodie?». La solida preparazione nel basso continuo e nel
contrappunto era sufficiente a garantirgli un indiscusso primato cittadino, in
un panorama musicalmente povero come quello della sfiorita ex capitale estense (dopo
la Devoluzione e il lungo Seicento, divenuto piccolo centro la cui esistenza
era nota ai più per i lustri cinquecenteschi e per la fortezza voluta da Papa
Paolo V a difesa del più settentrionale confine dello stato della Chiesa). Quando poi capitava che qualche rinomato maestro
forestiero transitasse per Ferrara per una rappresentazione da farsi al
Bonacossi, a quel tempo il solo teatro d’opera attivo in città, Paolo Antonio
prontamente si rintanava tra le carte dell’archivio musicale del duomo a
scartabellare le composizioni del padre, dando di matto per una qualche parte
di violino andata smarrita.Talvolta uno dei suoi musici lo andava
lì cercando portando una qualche ambasciata: «Maestro, il Vivaldi è in teatro!
M’ha detto di chiamarla. La vuol conoscere di persona. Dice di aver grande
stima di suo padre».
Paolo
Antonio si sporgeva allora al di là della balaustra reggendosi con una mano e
con l’altra dimenando un foglio di carta pentagrammata arrotolato come se
volesse, anche in quel contesto, rimarcare la sua autorità: «Giovannino digli,
con i dovuti modi che si devono a un tal maestro, che qui ho il mio da fare. Se
tanto ammira la mia stirpe non gli sarà di certo difficile capire quanto sia
importante tener in ordine i nostri tesori musicali». La solita, sapida, solfa
si ripeteva così ogni volta. Temendo quei confronti potenzialmente nocivi al
prestigio del suo nome, si nascondeva, come fanno i fanciulli arroccati nelle
pieghe della gonna materna, dietro all’estinta sagoma paterna. Aveva così
trascorso gli anni e i giorni, nell’immobile e chiusa penombra delle cantorie
cittadine, attorniato dai pochi musici che, con la paura di patire la fame, si
aggrappavano alla sua elegante marsina. Paolo Antonio aveva scelto di starsene
in cantoria anche nel giorno del funerale di Costantino, pur contravvenendo
alle direttive di papa Benedetto XIII che proibivano il suono d’organo e di strumenti
musicali nella messa da requie. Il suo appenato sguardo, spinto da un’amara
curiosità, abbandonava di tanto in tanto il tracciato delle note sul
pentagramma per apprezzare, attraverso i marmi delle ringhiere, quel popolo
misto raccolto ai piedi del catafalco. Se le ultime file, perlopiù formate da vagabondi
e indigenti – intervenuti per godere del
fresco della chiesa e raccogliere qualche elemosina –, parevano ai suoi piccoli
e miopi occhi un informe ammasso, più nitidamente distingueva le sagome della paruta
schiera di artigiani – assai poco intendenti di musica e niente affatto
prossimi alla sua famiglia, ma soliti prendere congedo dalle loro botteghe ogni
qualvolta vi fosse da far messa – e le piccole parrucche dei pochi nobili che
occupavano i primi ordini. Questi, sfaccendati di ogni età e sempre smaniosi di
indossare la cappa, di certo erano affiliati ad una delle tante confraternite di
laici devoti che ancora esistevano in città. Chi dei presenti era spinto dalla
sincera e affettuosa rammemorazione d’un valente giovane di quella patria? «Forse»,
diceva tra sé e sé il vecchio Bassani, «questi illustrissimi signori son mossi
soltanto dal timoroso rispetto di quei precetti che un buon cristiano è tenuto
ad osservare per la salvazione». Gli occhi tornavano presto al leggio del
piccolo organo fisso. Da quello scranno aveva diretto, venticinque anni
addietro, il suo primo e unico oratorio, Il morto redentore. Il ricordo
di quel giorno felice sembrava spegnere il suo doloroso martirio. «Quant’era
bravo il piccolo Costantino», si diceva. Con la coda dell’occhio gli sembrava
ancora di scorgere il fanciullo, seduto al suo fianco, tendersi verso la
tastiera dello strumento, quasi volesse nutrirsi dell’arte paterna. Ma le
braccia, troppo corte, finivano per volteggiare nell’aria a tempo di musica.
«Meraviglioso Costantino, meraviglioso! Sei un perfetto battitore».
Era
maggio, pochi giorni dopo la celebrazione dell’Invenzione della Croce, e,
attraverso le vetrate della chiesa, un fascio di luce tutto irradiava di vita
nuova. Così anche il S. Girolamo posto sopra all’altare sembrava volersene
uscire dalla tela per farsi strada verso la porta maggiore che, spalancata, si
apriva su di un verde prato apparato a festa. Qui alcune monache del Corpus
Domini, contravvenendo alla disciplina, estraevano dalle grandi ceste in
vimini mazzetti di fiori, mustazzoli e frutta candita, distribuendoli a giovani
donne attorniate dai figlioletti. Gli uomini, raccolti all’ombra dei pioppi che
delimitavano quel delizioso rinfresco, discorrevano, svagati, del raccolto e
delle imposte deliberate dai Savi. Intanto Giovanni Battista, erto sul sagrato
della chiesa, si intratteneva con quella nobile penna che lo omaggiava della
sua presenza: «Marchese Sacrati, la ringrazio per la visita. Mi auguro possa
apprezzare sì fatta sagra composizione. Come di certo vostra illustrissima saprà,
i versi di frate Costantino della Santissima Trinità sono stati avvivati dallo
spirito armonico del mio figliolo Paolo Antonio, già maestro di Cappella
d’Onore dell’Altezza Serenissima di Mantova e vicemaestro della cattedrale e
dell’illustrissima Accademia della Morte». E mentre l’interlocutore replicava,
attingendo dal suo repertorio di maniera, il «gran Bassani» lanciava uno
sguardo di lontano al figlio. Incrociando i suoi occhi, pronunciava un cenno
col capo, come a volergli dire: «Su, su! forza! Apprestiamoci a incominciare».
Non voleva egli di certo incorrere in quella multa di 25 scudi prevista per i maestri
che presso le chiese e i luoghi pii prolungavano le funzioni oltre le ore
convenienti. Il giovane organista, asciugandosi la fronte sudata con la manica
del camicione, correva allora alla cantoria richiamando i musici, ancora
intenti a mangiare brazzadelle e bere malvasia.
Dalla
navata, tra l’invisibile nube di profumi, due occhi azzurri e amorevoli
osservavano la scena. Isabella Ursula, moglie di Paolo Antonio, se ne stava
vicino al padre, il notaio Fiornovelli. La giovane donna stringeva al petto il
neonato Ferdinando Carlo, mentre la figlia Caterina Teresa Clara, impaurita da
quel disordine, le cingeva i fianchi. Le guance della fanciullina, pallide di
sonno, si rianimavano di un timido rossore alle prime note della sinfonia in
capo all’oratorio. I violini, imitando una fanfara di gusto tardo rinascimentale,
invitavano il pubblico a prendere posto tra le panche addobbate di fiori. Un ragazzetto
intanto sghignazzava indicando il suonatore di violone che, in ritardo, si
inerpicava sulla ripida scaletta della cantoria portando lo strumento in
spalla. Tra lo stupore e il mormorio dei fedeli, quel sublime sipario tessuto
dall’orchestra si apriva sul Sepolcro, ai cui piedi la Vergine Maria attendeva
di intonare il suo compianto. Con quelle note svaniva il ricordo di quel giorno:
ora la mente del vecchio maestro, accompagnata dal lamentoso tetracordo
discendente eseguito all’organo, andava alla catabasi dei suoi amori.
Nell’estate
del 1712 il padre lo aveva lasciato, solo, alla guida delle cappelle cittadine.
Per curare quella sua complessione calida e sanguinea, che tanto lo aveva
tediato – spingendolo persino a rifiutare la direzione della Real Cappella di
Messina, per timore del clima siciliano, così poco salubre per i suoi umori – Giovanni
Battista aveva deciso di ritirarsi presso la sorella a Bergamo. Presto, prendendo
a noia le gite nei bei dintorni della città e la composizione di oziosi versi
arcadici, si era prodigato per ottenere il ruolo di maestro di cappella in S.
Maria Maggiore. Non del tutto appagato, desideroso di aver d’intorno qualche
giovane interessato all’arte di fare le consonanze e le dissonanze, aveva dato
la sua disponibilità alla Pia Scuola Musicale della Congregazione di Carità. I
rapporti epistolari tra padre e figlio erano continuati regolarmente. Nelle
lettere del padre le note di pagamento e i resoconti della vita domestica erano
intercalati dai lapidari commenti sulle nuove composizioni date ai torchi da
Pomatelli, premurosamente speditegli dal figlio. Il più delle volte queste
erano frettolosamente congedate dal maestro: «Le suddette muse hanno più fumo,
ch’arrosto!» Nel settembre 1716 lo scambio epistolare si interruppe improvvisamente.
Pochi giorni dopo giunse notizia a Paolo Antonio della malattia del padre.
Preoccupato, il primo ottobre, aveva spedito una lettera alla zia per
sincerarsi della situazione e chiederle se fosse stato opportuno imbarcarsi
quanto prima per risalire il Po fino a Piacenza e poi l’Adda. La risposta si
fece attendere. Fino a quando, il 9 ottobre, gli fu recapitato un urgente
dispaccio bollato dai Savi orobici: «Illustrissimo e reverendissimo Paolo
Antonio Bassani, si informa vostra signoria che nella Città di Bergamo è morto
all’improvviso Giovanni Batista Bassani Ferrarese, celebre Maestro di Cappella
dimorante in questa Città avendo lasciato in Ferrara vostra illustrissima, suo
figlio, eccellente in detto mestiere anch’esso». Bagnando di lacrime quelle
parole, si chiedeva perché avesse preferito attendere un cenno della zia
anziché prendere l’iniziativa e raggiungere immediatamente il padre. Con gli
scudi guadagnati negli ultimi tempi avrebbe potuto, senza alcun danno per la
famiglia, allontanarsi per qualche tempo dai suoi incarichi. Per sdebitarsi di
quel padre che gli aveva preparato una vita agiata consegnandogli ruoli di
tanto rilievo, angustiato dai sensi di colpa per quel saluto disertato, si era
chiuso per giorni e giorni nella piccola camera della musica, cercando di
comporre una messa funebre. Aveva prontamente contattato il marchese Gaetano
Trotti, economo dell’Accademia della Morte: si sarebbero fatte le esequie in
musica nella piccola chiesa del sodalizio. Ma il pentagramma rimase vuoto e
presto tutti si dimenticarono di quella promessa. La vita riprese il suo
monotono corso scandita dai doverireligiosi, fino a quando un nuovo lutto colpì
i Bassani.
Nel
1718 Ferdinando Carlo, di appena tredici anni, morì di vaiolo. Se Paolo
Antonio, almeno in apparenza, sembrò non accusare troppo il colpo, votandosi
totalmente alla cura delle accademie cittadine e alla carriera del figlio
Costantino, l’accaduto segnò profondamente Isabella Ursula. La donna, gettata
in uno stato deplorevole, iniziò a trascinarsi di chiesa in chiesa per affogare
il dolore tra i Pater noster e le Ave Maria. Di tanto in
tanto, come ridestata da quel torpore, si allungava verso Porta d'Amore per raggiungere il monastero di Sant’Antonio in Polesine. Qui, arrestandosi
sulla soglia della chiesa esterna, chiudeva gli occhi per meglio ascoltare il
canto dei vespri. Quel sublime coro angelico, sapientemente diretto dalla figlia
da dietro la grata della clausura, portava ristoro ai poveri e rassegnati cuori
lì radunati. «Non si poteva trovarle di meglio?», si chiedeva. Volgeva poi le
spalle a quella musica e, con gli occhi gonfi di lacrime sussurrava «Avrebbe
potuto essere madre… madre». Dal canto suo, Paolo Antonio non si rammaricava
affatto delle sorti di Caterina: fin dai tempi di Mazzaferrata era tradizione
che le figlie dei maestri di cappella ferraresi contribuissero alla gloriosa
pratica musicale dei monasteri cittadini. Perdipiù nel computo della dote
spirituale erano messe a valore le attitudini musicali delle figlie destinate
allo stato monacale: tali attitudini erano germogliate in Caterina accostatasi
alla tavola musicale imbandita dal padre per Costantino. Di tanto in tanto le
scriveva ancora qualche lettera. Le risposte della giovane, colme di quelle
minute attività pratiche imposte dalla vita monastica, trovavano sempre epilogo
in uno slancio di sommessa mortificazione: «se fossi levata dal mondo poco o
nulla importerebbe, perché a poco o nulla son buona, dove che nella persona di vostra
signoria, e signor Costantino, mio fratello, sarebbe tutto l’opposto per
moltissime ragioni». Di contro il padre, così poco avvezzo alle parole
affettuose, portava la conversazione su quell’arte che quasi inconsapevolmente
le aveva trasmesso. «Come Ella sa» replicava Caterina con la sua carezzevole voce,
«alle mie occupazioni s’aggiunge
l’insegnare il canto fermo a quattro giovinette, e ordinare l’offizio del coro
giorno per giorno: il che non m’è di poca fatica, per non aver cognizione
alcuna della lingua latina. È ben vero che questi esercizi mi sono di molto
gusto, se io non avessi anco necessità di lavorare». Una volta Paolo Antonio,
spinto dalla nostalgia di quella bambina che soleva vagabondare per la cantoria
della Morte importunando il suonatore di liuto intento ad accordare, le aveva
fatto giungere uno copia di uno di quegli strumenti a otto cori usati al tempo di Alfonso II. La giovane mai ringraziò il padre
per quel dono, che presto divenne icona della distanza incommensurabile tra
padre e figlia. «Vorrei anco saper s’Ella si contentassi di far un baratto con me,
cioè ripigliarsi un chitarrone ch’Ella mi donò parecchi anni sono, e donarmi un
Breviario», aveva scritto Caterina nell’ultima sua missiva.
Gli
scudi risparmiati dalla dote della figlia erano stati impiegati per la
formazione di Costantino che, fattosi ormai uomo, dimostrava la stessa vena
creativa del nonno. Egli fu nominato organista dell’Accademia della Morte per la
festa di S. Apollinare del 1726. In tale occasione gli fu concessa l’opportunità
di eseguire, per la prima volta in pubblico, una sua composizione. Come
ricordato in un memoriale «fu stimata assai la suddetta composizione, che fece
cantare il suddetto giorno, e v’era tanta gente, che il giorno proprio della
sua festa non v’è tanto concorso che in questa funzione tanto di dame, come
cavalieri, et altri virtuosi in tal materia, che lo stimarono un uomo virtuoso
tanto più che questo è giovine spiritoso, e mostrerà maggiormente la sua virtù
come presto si sentirà in altri luoghi». Nonostante fosse nata sotto i migliori
auspici, la carriera di Costantino ebbe presto una battuta d’arresto. Il 23
ottobre del 1727 i confratelli della Morte votarono il definitivo
allontanamento di Paolo Antonio e del figlio dai rispettivi ruoli di maestro e
organista dell’Accademia. I sodali imputarono la decisione alle ristrettezze
economiche patite dalla Confraternita: i musici di quella ormai decaduta
Accademia andavano liquidati quanto prima per fornire maggiore sussistenza alle
carceri e all’ostello dei pellegrini, attività ritenute prioritarie. Il ricorso
presentato da Paolo Antonio all’autorità legatizia ebbe esito avverso. Così,
già nel dicembre di quell’anno, la famiglia Bassani abbandonava, oltre al
prestigio di quella posizione, la piccola abitazione collegata alla chiesa
della Morte. In quelle tre camere nobili poste a solaio, Paolo Antonio e
Costantino erano nati e cresciuti all’ombra di Giovanni Battista. Appoggiati
alla porticina che conduceva alla cantoria, i due fanciulli lo avevano osservato
rimproverare con bonarietà, per poi elogiarli, i musici dell’Accademia che
tanto ossequiosamente rispettavano il maestro. Presto i due fanciulli, immersi
nella luce che le sirene dei torcieri spandevano dal poggiolo della cantoria, erano
richiamati dalle madri: «Vieni che si raffredda! Altrimenti per oggi niente
lezione di musica!» Allora socchiudevano la porta, appena appena, affinché quel
concerto di voci e strumenti potesse accompagnare il loro desinare. Nella corsa
verso la piccola cucina il ricordo sfuggiva e Paolo Antonio tornava al leggio dell’organo
di S. Girolamo. Lì, dove aveva debuttato come compositore di oratori con il suo
Morto redentore, avrebbe presto trovato dimora, al fianco del fratello
Ferdinando Carlo, Costantino. E lì, tra quelle pareti di rossi mattoni, Paolo
Antonio desiderava essere sepolto. Concluso il Lux
Aeterna del «gran Bassani», estraeva
dalle carte sparse al suolo quel Libera me Domine che da ragazzo,
timoroso del giudizio paterno, aveva presto nascosto e dimenticato. Volgendosi
al coro, con fierezza composta dava quel primo sincero attacco della sua vita. La
musica, uscendo dalla porta maggiore, si frangeva contro la muraglia di verdi poppi.
E la flebile eco che ne sopravviveva presto svaniva tra le antiche e polverose
vie nel pomeriggio ormai tardo di quel 9 giugno 1730.
Paolo
Antonio si sporgeva allora al di là della balaustra reggendosi con una mano e
con l’altra dimenando un foglio di carta pentagrammata arrotolato come se
volesse, anche in quel contesto, rimarcare la sua autorità: «Giovannino digli,
con i dovuti modi che si devono a un tal maestro, che qui ho il mio da fare. Se
tanto ammira la mia stirpe non gli sarà di certo difficile capire quanto sia
importante tener in ordine i nostri tesori musicali». La solita, sapida, solfa
si ripeteva così ogni volta. Temendo quei confronti potenzialmente nocivi al
prestigio del suo nome, si nascondeva, come fanno i fanciulli arroccati nelle
pieghe della gonna materna, dietro all’estinta sagoma paterna. Aveva così
trascorso gli anni e i giorni, nell’immobile e chiusa penombra delle cantorie
cittadine, attorniato dai pochi musici che, con la paura di patire la fame, si
aggrappavano alla sua elegante marsina. Paolo Antonio aveva scelto di starsene
in cantoria anche nel giorno del funerale di Costantino, pur contravvenendo
alle direttive di papa Benedetto XIII che proibivano il suono d’organo e di strumenti
musicali nella messa da requie. Il suo appenato sguardo, spinto da un’amara
curiosità, abbandonava di tanto in tanto il tracciato delle note sul
pentagramma per apprezzare, attraverso i marmi delle ringhiere, quel popolo
misto raccolto ai piedi del catafalco. Se le ultime file, perlopiù formate da vagabondi
e indigenti – intervenuti per godere del
fresco della chiesa e raccogliere qualche elemosina –, parevano ai suoi piccoli
e miopi occhi un informe ammasso, più nitidamente distingueva le sagome della paruta
schiera di artigiani – assai poco intendenti di musica e niente affatto
prossimi alla sua famiglia, ma soliti prendere congedo dalle loro botteghe ogni
qualvolta vi fosse da far messa – e le piccole parrucche dei pochi nobili che
occupavano i primi ordini. Questi, sfaccendati di ogni età e sempre smaniosi di
indossare la cappa, di certo erano affiliati ad una delle tante confraternite di
laici devoti che ancora esistevano in città. Chi dei presenti era spinto dalla
sincera e affettuosa rammemorazione d’un valente giovane di quella patria? «Forse»,
diceva tra sé e sé il vecchio Bassani, «questi illustrissimi signori son mossi
soltanto dal timoroso rispetto di quei precetti che un buon cristiano è tenuto
ad osservare per la salvazione». Gli occhi tornavano presto al leggio del
piccolo organo fisso. Da quello scranno aveva diretto, venticinque anni
addietro, il suo primo e unico oratorio, Il morto redentore. Il ricordo
di quel giorno felice sembrava spegnere il suo doloroso martirio. «Quant’era
bravo il piccolo Costantino», si diceva. Con la coda dell’occhio gli sembrava
ancora di scorgere il fanciullo, seduto al suo fianco, tendersi verso la
tastiera dello strumento, quasi volesse nutrirsi dell’arte paterna. Ma le
braccia, troppo corte, finivano per volteggiare nell’aria a tempo di musica.
«Meraviglioso Costantino, meraviglioso! Sei un perfetto battitore».
Dalla
navata, tra l’invisibile nube di profumi, due occhi azzurri e amorevoli
osservavano la scena. Isabella Ursula, moglie di Paolo Antonio, se ne stava
vicino al padre, il notaio Fiornovelli. La giovane donna stringeva al petto il
neonato Ferdinando Carlo, mentre la figlia Caterina Teresa Clara, impaurita da
quel disordine, le cingeva i fianchi. Le guance della fanciullina, pallide di
sonno, si rianimavano di un timido rossore alle prime note della sinfonia in
capo all’oratorio. I violini, imitando una fanfara di gusto tardo rinascimentale,
invitavano il pubblico a prendere posto tra le panche addobbate di fiori. Un ragazzetto
intanto sghignazzava indicando il suonatore di violone che, in ritardo, si
inerpicava sulla ripida scaletta della cantoria portando lo strumento in
spalla. Tra lo stupore e il mormorio dei fedeli, quel sublime sipario tessuto
dall’orchestra si apriva sul Sepolcro, ai cui piedi la Vergine Maria attendeva
di intonare il suo compianto. Con quelle note svaniva il ricordo di quel giorno:
ora la mente del vecchio maestro, accompagnata dal lamentoso tetracordo
discendente eseguito all’organo, andava alla catabasi dei suoi amori.
Nel
1718 Ferdinando Carlo, di appena tredici anni, morì di vaiolo. Se Paolo
Antonio, almeno in apparenza, sembrò non accusare troppo il colpo, votandosi
totalmente alla cura delle accademie cittadine e alla carriera del figlio
Costantino, l’accaduto segnò profondamente Isabella Ursula. La donna, gettata
in uno stato deplorevole, iniziò a trascinarsi di chiesa in chiesa per affogare
il dolore tra i Pater noster e le Ave Maria. Di tanto in
tanto, come ridestata da quel torpore, si allungava verso Porta d'Amore per raggiungere il monastero di Sant’Antonio in Polesine. Qui, arrestandosi
sulla soglia della chiesa esterna, chiudeva gli occhi per meglio ascoltare il
canto dei vespri. Quel sublime coro angelico, sapientemente diretto dalla figlia
da dietro la grata della clausura, portava ristoro ai poveri e rassegnati cuori
lì radunati. «Non si poteva trovarle di meglio?», si chiedeva. Volgeva poi le
spalle a quella musica e, con gli occhi gonfi di lacrime sussurrava «Avrebbe
potuto essere madre… madre». Dal canto suo, Paolo Antonio non si rammaricava
affatto delle sorti di Caterina: fin dai tempi di Mazzaferrata era tradizione
che le figlie dei maestri di cappella ferraresi contribuissero alla gloriosa
pratica musicale dei monasteri cittadini. Perdipiù nel computo della dote
spirituale erano messe a valore le attitudini musicali delle figlie destinate
allo stato monacale: tali attitudini erano germogliate in Caterina accostatasi
alla tavola musicale imbandita dal padre per Costantino. Di tanto in tanto le
scriveva ancora qualche lettera. Le risposte della giovane, colme di quelle
minute attività pratiche imposte dalla vita monastica, trovavano sempre epilogo
in uno slancio di sommessa mortificazione: «se fossi levata dal mondo poco o
nulla importerebbe, perché a poco o nulla son buona, dove che nella persona di vostra
signoria, e signor Costantino, mio fratello, sarebbe tutto l’opposto per
moltissime ragioni». Di contro il padre, così poco avvezzo alle parole
affettuose, portava la conversazione su quell’arte che quasi inconsapevolmente
le aveva trasmesso. «Come Ella sa» replicava Caterina con la sua carezzevole voce,
«alle mie occupazioni s’aggiunge
l’insegnare il canto fermo a quattro giovinette, e ordinare l’offizio del coro
giorno per giorno: il che non m’è di poca fatica, per non aver cognizione
alcuna della lingua latina. È ben vero che questi esercizi mi sono di molto
gusto, se io non avessi anco necessità di lavorare». Una volta Paolo Antonio,
spinto dalla nostalgia di quella bambina che soleva vagabondare per la cantoria
della Morte importunando il suonatore di liuto intento ad accordare, le aveva
fatto giungere uno copia di uno di quegli strumenti a otto cori usati al tempo di Alfonso II. La giovane mai ringraziò il padre
per quel dono, che presto divenne icona della distanza incommensurabile tra
padre e figlia. «Vorrei anco saper s’Ella si contentassi di far un baratto con me,
cioè ripigliarsi un chitarrone ch’Ella mi donò parecchi anni sono, e donarmi un
Breviario», aveva scritto Caterina nell’ultima sua missiva.