INTORNO A LEOPARDI
di Anna
Rutigliano
Scrivere del poeta, filologo, filosofo e conte Leopardi è naufragare dolcemente nel suo animo infinitamente sensibile verso quesiti di natura ontologica, a partire dal significato del “Dasein” dell’individuo, per dirla con Heidegger, ossia, dell’esistenza stessa dell’uomo nel mondo, sino al suo rapporto con la Natura, con i suoi simili e all’Essere dei popoli nella Storia. Non avrei mai immaginato di soffermarmi a riflettere, più in profondità, sul Poeta dell’“Infinito”, a distanza di anni dal liceo, se non mi fossi piazzata sul divano, per due sere consecutive, a seguire con attenzione la mini serie del noto regista pugliese Sergio Rubini, dedicata proprio al nostr0 Poeta di Recanati. Tralasciando il mio personale giudizio estetico sulla resa filmografica, mi ha catturato sin da subito quello che avrebbe potuto significare il libretto delle Operette Morali negli anni successivi ai moti insurrezionali che investirono l’Europa, da Cadice in Spagna sino alle rivolte carbonare di Napoli, Palermo e Torino in Italia, per non parlare delle rivolte decabriste in Russia, nei primi decenni dell’800: un libretto, ritenuto scomodo per i suoi contenuti “scandalosi” secondo i dogmi della Chiesa Cattolica e la società conservatrice e bigotta del periodo della Restaurazione.
L’anno 1824 è sia l’anno della pubblicazione dell’ultima operetta morale “il Cantico mattutino del gallo silvestre”, sia l’anno in cui a Vienna si esegue, pochi mesi dopo e per la prima volta, la Nona Sinfonia di L. V. Beethoven, ispirata al componimento del poeta romantico tedesco F. Schiller “An die Freude”, “Inno alla Gioia”, in seguito divenuto Inno ufficiale dell’Unione Europea. Può, dunque, considerarsi il canto mattutino del gallo silvestre un altrettanto inno alla gioia e alla speranza, alla stregua dei poeti romantici anelanti ad un Padre affettuoso che abiti il Cielo Stellato? (così si legge nel componimento schilleriano “An die Freude”: “Brüder, über'mSternenzelt Muß ein lieber Vater wohnen”). Quale significato intendeva veicolare il nostro poeta ironizzando sulla figura del bipede silvestre, con le zampe sulla Terra e la cresta ed il becco congiunti al Cielo? E perché mai la Chiesa non avrebbe mai accettato le riflessioni filosofico-poetiche del Conte Giacomo Leopardi?
L’11 Marzo 1826 Leopardi aveva già espresso nello Zibaldone un pensiero molto forte: “Tutto è Nulla”. Ed è proprio il Nulla il leitmotiv della concezione filosofica leopardiana che anticipa di quasi cinquant’anni il nichilismo nietzschiano, affermando la morte del pensiero occidentale: siamo una sporgenza nel Nulla, da esso proveniamo ed in esso torneremo, il che significa non ammettere l’Esistenza di un Dio che abiti il Cielo Stellato, ma riconoscere la Nullità di tutte le cose in cui forma e sostanza coincidono: è la verissima pazzia leopardiana che solo il poeta può cogliere, affidando, alla Poesia il compito salvifico dinanzi alla potenza devastatrice della Natura e incarnando bene l’opera di genio nella semplice e reale esistenza delle cose che resistono al cospetto della Natura come accade per il delicato fiore della ginestra che sopravvive alle ceneri del Vesuvio.
Similmente è opera di genio la visione leopardiana del cantico del gallo silvestre. Attraverso un minuzioso studio filologico di testi della tradizione esoterico-aramaico-caldese ed ispirandosi all’opera bilingue, in ebraico e latino, dell’ebraista svizzero Johann Buxtorf Junior Lexicum Chaldaicum Talmudicum et Rabbinicum, Leopardi riporta in auge un mito, quello del cantico mattutino del gallo silvestre, tradotto fedelmente dall’ ebraico con Scir detarnegòl bara letzafra, operando, però, un rovesciamento di prospettiva rispetto all’emblema del bipede, quale simbolo del risveglio e dell’energia vitale al mattino, contorniato da riflessioni ironiche e visioni alla maniera blakiana: il Canto del gallo immaginato dal nostro poeta recanatese è un inno al Nulla in cui si esortano i mortali a risvegliarsi dalle illusioni a cui il sonno non perpetuo ma concepito come particella di morte assieme ai sogni inducono e a fare i conti con la realtà dolorosa ( leggiamo subito dopo il Prologo: “ Su, mortali destatevi. Il dì rinasce… riducetevi dal mondo falso nel vero”). Nella parte centrale del cantico, poi, Leopardi si rivolge al Sole, testimone della miseria umana, chiedendogli se sia egli stesso beato o infelice: “(…) Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? (...) E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?”.
Il Poeta rafforza poi l’idea della potenza annientatrice della
Natura intenta a conservare solo se stessa, nella parte conclusiva del cantico:
“In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un
appassir. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte
(…) tempo verrà in cui esso universo e la natura medesima, sarà spenta (…) non
rimarrà pure un vestigio, ma un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno
lo spazio immenso…”. Per simmetria formale e concettuale, troviamo la medesima
visione nel ventiquattresimo canto “La quiete dopo la Tempesta” in cui, nei
versi finali leggiamo “Umana prole cara agli eterni! (...) beata se te d’ogni
dolor morte risana”. Illusione e verissima pazzia sono i cardini concettuali da
cui si dispiega la Metafisica del Nulla leopardiana, sono il binomio
dell’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza in cui ogni essere umano si
trova a dover fare i conti. La “bellezza
salverà il mondo?”, nella visione
leopardiana la bellezza è affidata all’opera di genio della poesia e dei poeti,
mentre dell’Unione Europea non sono rimaste che le note del genio musicale di
Beethoven.