IL NICHILISMO DI TRUMPdi Alfonso Gianni
Pubblichiamo la versione integrale della corposa riflessione
di Alfonso Gianni di cui ieri abbiamo anticipato alcuni brevi spunti. Per cercare di capire cosa significhi
la netta vittoria elettorale di Trump sia per il suo paese che per il resto del
mondo, come è necessario fare, bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o
almeno mettere da parte, alcune caratterizzazioni che sono state appiccicate al
personaggio e che non ci sono d’aiuto per comprendere a fondo la natura del
fenomeno. Quale quella di essere un avventurista incline alla violenza in ogni
campo; di interpretare il suo ruolo come messianico; di adottare atteggiamenti
e dichiarazioni a dir poco sopra le righe; di ostentare il suo corpo ferito in
un’immagine ricercata e diventata iconica; di brutalizzare il suo stesso agire
politico; o addirittura di essere poco più di un “comico naturale”. In
particolare dovremmo essere noi, nativi e abitanti dell’italico stivale, ad
essere sufficientemente vaccinati da simili devianti interpretazioni, avendo
assistito increduli - senza necessariamente rammentare le posture mussoliniane,
riportate all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche - al nascere e
allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso, del berlusconismo e sapendo
quanto ci sia costata l’altera sottovalutazione della sua fondata pericolosità,
almeno al suo primo manifestarsi. Ma scorrendo anche autorevoli commenti offerti
dal mainstream nostrano sembra
riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la storia è una ottima maestra, ma non
ha scolari. Intendiamoci non si può negare che The Donald, rispetto alla
sua prima apparizione come presidente sulla scena della storia statunitense e
quindi mondiale, abbia accentuato aggressività e decisionismo nelle sue parole
e nei suoi atti. Anzi si possono persino iscrivere questi suoi comportamenti in
una nuova categoria, che forse aiuta a comprendere meglio con chi abbiamo a che
fare. Si è fin qui e tuttora usato nei confronti dei protagonisti della destra
sparsi per più continenti, compreso il nostro, il termine “populismo” per
delineare un distorto, ma non meno reale, rapporto con il popolo, basato su
promesse demagogiche e sulla esaltazione di un decisionismo governativo
rafforzato da un presidenzialismo nelle sue varie forme e accezioni, che lo
trasformavano in un populismo autoritario. E si è precisato, perlomeno da parte
del pensiero di sinistra, che si era di fronte a un “populismo dall’alto”,
quasi un ossimoro, per distinguerlo dalle manifestazioni populistiche che hanno
caratterizzato la storia del Novecento in varie parti del mondo e che invece
partivano “dal basso”, cioè da un movimento di popolo che aspirava, seppure
confusamente ma con radicalità, a una giustizia sociale. Una sorta di populismo
progressivo, che, ad esempio, nella elaborazione di Ernesto Laclau[1]
assume la potenzialità, se non il ruolo in atto, di una risposta alla crisi
della democrazia liberale, sottovalutando il rischio - qui uno dei punti della
distanza rispetto al pensiero gramsciano - di diventare facile preda di
processi di rivoluzione passiva.[2]
Il nichilismo “dall’alto” Pur essendo chiara la differenza fra
i due tipi di populismo, anche se poi gli esiti finali possono diventare simili
e confluire nella rivoluzione conservatrice mossa dalle classi dominanti - di
cui abbiamo abbondantemente scritto lungo l’arco di vita di questa rivista -
non credo che la categoria del populismo dall’alto sia sufficiente per
inquadrare la figura e l’azione di Trump. È forse opportuno fare ricorso ad
un’altra definizione che pure ha origini storiche molto lontane e diverse:
quella del nichilismo, ovviamente anch’esso “dall’alto”. Il che richiede, a sua
volta, di precisare cosa si vuole intendere con questa parola e come questa
categoria sia oggi diversa da quelle del passato e assuma una particolare
valenza se riferita al capo dello Stato dell’ancora più potente paese del
mondo, pur sospinto lungo una china declinante. Lo fa, ad esempio, Laura
Pennacchi scrivendo di nichilismo come “deificazione del vuoto”, ovvero come
“pulsione alla distruzione di cose e di persone … [e della] nozione stessa di
verità”[3].
Naturalmente questa definizione coglie più di un elemento reale, basta
riferirsi alla disinvoltura spinta fino al disinteresse mostrato dal duo
Trump-Musk verso la credibilità di loro dichiarazioni e progetti come, ad
esempio, la conquista di Marte, visto che ciò che conta per loro è la dominanza
nella space economy. Ma, senza contrapporre una definizione all’altra, casomai
integrandola, descriverei il nichilismo portato alle sue conseguenze più
estreme - cogliendo anche spunti di un dibattito filosofico di qualche decennio
fa - come uno schiacciamento finale del valore d’uso di ogni cosa, materiale o
immateriale, al valore di scambio.[4]
Che altro è se non questo, promettere la pace in Ucraina chiedendo in cambio
circa 500 miliardi di dollari in ricercatissime terre rare, così cruciali per
lo sviluppo tecnologico su cui si poggia il potere dell’oligarchia
tecno-capitalista? Che altro può mai significare - aldilà delle chances di possibile realizzazione - progettare di trasformare la striscia di Gaza, cacciando il popolo palestinese
in un indefinito e improbabile altrove, in un luogo di villeggiatura per super
ricchi, se non costruire un parco di resort
e chiamarlo pace? Cosa di diverso da questo si può dire quando vengono
revocati in dubbio i rapporti anche con i più tradizionali alleati, come i
vertici dell’Unione europea, - persino la supina Meloni ne rimane scossa - nel
quadro di una minacciata e in parte già cominciata guerra dei dazi?
Le mani dei Trump sulla monetaQuesta riduzione del valore d’uso al
valore di scambio si presenta contemporaneamente come causa, ma anche come
effetto dirompente della siderale crescita degli arricchimenti in mano a poche
persone, la cui quantità di averi supera quella del Pil di interi stati e non
dei più poveri. Anche in questo caso si tratta di un processo dal lungo
percorso, una delle basi su cui si è fondato il successo del neoliberismo. La
moneta ha cambiato la fonte, l’aggancio all’oro, da cui traeva la sua validità,
ossia la sua insita capacità di convinzione per chiunque la possedesse di
poterla trasformare in un bene tangibile o in un servizio utile. Poi, come si
sa, la non convertibilità del dollaro in oro ha mutato il quadro. Da quel
momento in poi fa testo la fiducia nei confronti dello Stato che emette la
moneta e quindi verso la Banca
centrale. Come ha scritto Ennio Di Nolfo “il ruolo di una moneta non dipende
tanto dalla possibilità di stamparla o emetterla quanto dalla posizione
internazionale della potenza che la produce”.[5]Ma il quadro cambia ancora con
l’entrata in scena delle cripto valute. I loro promotori sono sconosciuti
privati e la loro tesaurizzazione appare come un’ulteriore possibilità quale
bene rifugio oltre all’oro, di questi tempi in rapida ascesa nel suo prezzo,
come avviene in tutti i periodi di forte instabilità internazionale. Ma,
rispetto all’oro, con il quale condivide la relativa scarsità, le criptovalute
sono contraddiste da una ben più elevata volatilità del loro valore. Non a caso
il Bitcoin (Btc), la più famosa delle cripto valute, viene considerato come una
specie di “oro digitale”.[6]Tuttavia le attività finanziarie legate alle cripto-valute
sono andate crescendo, particolarmente negli ultimi tempi. Uno dei fattori del
loro successo è indubbiamente connesso alla figura di Trump, il quale già in
campagna elettorale aveva annunciato di volere fare diventare gli Usa la
capitale mondiale delle cripto-valute. Una volta presidente, non ha esitato a
spingere il senatore repubblicano Bill Hagerty a presentare una proposta di
legge per fornire una sorta di patente legale alle monete digitali, gli stablecoins.[7]
La World Liberty Financial e la
famiglia TrumpMa non si è trattato di un atto
disinteressato, anzi invischiato in un evidente conflitto di interessi, dal
momento che la famiglia Trump è tra i proprietari di una società, la World Liberty Financial assai attiva
negli nel campo delle cripto-valute[8].
Un conflitto di interessi? Certamente. Enorme. Ma Trump ha provveduto per tempo
a neutralizzarlo, avendo subito cambiato i vertici della Sec (Security and Exchange Commission),
l’Ente federale preposta alla vigilanza delle borse valori, fondato nel 1934 da
Franklin Delano Roosevelt. Sono davvero lontani i tempi nei quali il grande studioso
della storia economica internazionale, Charles Kindleberger, poteva definire la
moneta come un particolarissimo tipo di bene pubblico e come tale a rischio di
speculazione privata.[9]
Qui siamo di fronte ad un processo di appropriazione della governance della moneta, o meglio delle cripto attività
finanziarie, in mani private, anche se
queste ultime appartengono al rapace presidente degli Stati Uniti d’America,
uomo pubblico per eccellenza. Già nell’ottobre del 2024, quindi prima delle
elezioni presidenziali del 5 di novembre, la stampa specializzata riportava che
la World Liberty Financial stava
pianificando “la creazione di una propria stablecoin,
che potrebbe fungere da sostituto del dollaro”. L’autrice dell’articolo
affermava poi che “Nonostante i dubbi su come il team di World Liberty
intenda sviluppare una stablecoin affidabile,
la famiglia Trump potrebbe ottenere un profitto significativo se il progetto
dovesse decollare. Tether, la stablecoin
più grande al mondo, ha registrato un profitto record di 5,2 miliardi di
dollari solo nella prima metà del 2024.”[10]
Non male, direi, anche se i rischi di rovesci sono sempre dietro l’angolo.
Cosa rappresenta lo scontro sui daziLo scontro sui dazi di per sé non è
affatto una assoluta novità. Era comparso già ad opera delle precedenti
amministrazioni americane. Costituisce uno degli aspetti inevitabili - o
quantomeno logicamente conseguenti - di quel processo di deglobalizzazione che
ha preso le mosse lungo la prima decade di questo secolo, sospinto dalla grande
crisi economica del 2008 e da quella pandemica dovuta al diffondersi su scala
planetaria del Covid-19. Gli effetti e le conseguenze dell’una e dell’altra non
sono affatto terminati. Al contrario si sono trascinati aggravandosi e
determinando le scelte politiche delle maggiori potenze, ben aldilà delle
intenzioni, o persino dei buoni propositi dei loro governanti e interpreti. Ma certamente con Trump la questione
dei dazi assume una centralità ed una virulenza finora sconosciute,
costituisce, almeno per ora, il tratto fondante e caratteristico della Trumpnomics 2.0. The Donald si è
inoltrato in una guerra commerciale che non appare affatto contingente e
tantomeno occasionale. È vero che alcune misure proposte sono più che altro, e
per ora, servite come arma di ricatto per ottenere altro, come la promessa di
bloccare il movimento di migranti dal Messico agli States. Ma questo testimonia
solo della possibilità di un double use
- per usare un linguaggio ornai di moda in ambito militare - dell’arma dei
dazi, quindi di una sua accresciuta pericolosità ed efficacia, non certo
dell’inclinazione verso grida manzoniane da parte della nuova amministrazione
statunitense.D’altro canto Trump l’ha messa da
subito giù dura, facendone una questione di sicurezza nazionale. Si è appellato
alla legge federale del 1977, l’International
Emergency Economic Powers Act, che conferisce pieni poteri al Presidente
degli Usa nel caso di un’emergenza tale da mettere a repentaglio la nazione. E
non si può dire che la sua azione abbia incontrato plausi straordinari neppure
sulla stampa apertamente di destra e filo repubblicana del suo paese. È ben
nota l’immediata reazione dell’autorevole Wall
Street Journal - ma anche The Economist la pensa in modo analogo - che ha definito la guerra intrapresa da
Trump come “la guerra commerciale più stupida della storia”.
La guerra commerciale è proprio così stupida?Ma c’è da domandarsi se sia proprio
così. Se guardiamo la cosa per i suoi effetti principalmente sui meccanismi
economici – e sulle conseguenze sociali - non è difficile riconoscere che vi
sono nel giudizio così aspro del Wsj e di altri numerosi commentatori
economici, elementi di verità. Al contempo non credo si possa liquidare la
politica trumpiana così facilmente e sbrigativamente. Vediamo il perché.L’alzamento dei dazi nei confronti di
Canada, Messico e Cina colpiranno settori chiave, quali l’automotive, l’edilizia, l’alimentare per ricordarne solo alcuni tra
i principali e più tradizionali; porterà ad un incremento dell’inflazione che
tanto ha spaventato ciò che resta della classe media americana, oltre
naturalmente coloro che stanno ancora più in basso, e che è uno dei motivi per
cui le scelte nel campo della politica economica domestica condotta da Biden,
pur non disprezzabili, non hanno salvato il Partito democratico dal tracollo
elettorale. Secondo il Budget Lab della
Yale University al Peterson Institute for International
Economics il calo del potere d’acquisto, a causa della introduzione dei
dazi trumpiani, oscillerà tra i mille e i mille200 dollari per ogni famiglia
americana. Come è ovvio il prezzo più salato lo pagheranno le famiglie a basso
o modesto reddito. Per il nostro paese, ma anche per l’insieme della Ue, le
conseguenze sarebbero drammatiche. Restando in Italia, la Confartigianato ha
già reso note le stime sull’impatto dell’innalzamento delle barriere doganali
statunitensi sui nostri prodotti, tenendo conto che gli Usa rappresentano il
secondo mercato, dopo la Germania, per il valore del nostro export.[11]Anche per l’Europa, se tutti i
minacciati dazi venissero attuati, il colpo sarebbe pesante. C’è chi stima tra
i 90 e i 100 miliardi di euro. Vi è poi da considerare che la Cina, trovando
talmente ostico da non essere più praticabile nelle misure attuali il mercato
americano, cercherebbe maggiori sbocchi in quello europeo, non incontrando
certamente il favore dei produttori del vecchio continente. Trump non ha
esitato ad aprire un brusco confronto con il governatore della Fed, a cui
richiede autoritariamente di diminuire i tassi, cosa che peraltro la Banca
centrale ha fatto in ragione di un punto percentuale lungo l’anno appena
trascorso, ma che per ora non ha intenzione di rifare, come ha ribadito Jerome
Powell in una audizione al Senato, dove ha detto che non seguirà i diktat ma
deciderà sulla base dei dati economici.[12]Ma non si tratterebbe “solo” di
questo. Il rinculo della globalizzazione[13],
per quanto in atto con sempre maggiore forza nell’ultimo decennio, non ha
capovolto interamente il funzionamento dell’economia mondiale che essa stessa
aveva potentemente contribuito a mettere in piedi. In particolare
l’articolazione su scala mondiale della produzione - una delle caratteristiche
portanti dell’ultima globalizzazione - ha esaltato l’importanza dei beni, o
meglio dei manufatti intermedi che sono indispensabili per giungere al prodotto
finito. Soprattutto se lo si vuole di qualità e allo stesso tempo a costi
relativamente contenuti. Ciò comporta che la loro importazione è tanto più
necessaria quanto più si vorrebbe rendere forte l’esportazione dei prodotti
finiti e la loro migliore competitività sul mercato mondiale. In sostanza la
aggressività sui dazi può facilmente ritorcersi, o almeno in una parte
significativa, su chi la fa.
La guerra commerciale è guerra di classeTuttavia appare improbabile che
Trump, e chi attivamente lo sostiene, sia completamente a digiuno di così
elementari nozioni o che addirittura abbia scelto la strada del suicidio
economico (e quindi politico). Se non è così, come credo non sia, bisogna
introdurre altri elementi per interpretare in modo corretto il comportamento
del Trump 2.0. Due studiosi americani, Matthew C.
Klein e Michael Pettis, l’uno lavorando a San Francisco e l’altro a Pechino, ci
ricordano una verità che una volta sarebbe stata ritenuta, almeno a sinistra,
quasi elementare: le guerre commerciali sono guerre di classe.[14]
Il motivo è semplice, quanto il suo esito prevedibile. Gli effetti della
globalizzazione hanno aumentato le diseguaglianze all’interno dei singoli
paesi. Il caso italiano è addirittura limite, con le retribuzioni che in valore
reale sono arretrate nel corso degli ultimi trenta anni. Ma l’accrescersi delle
diversità nelle condizioni materiali e reddituali è accaduto un po’ ovunque,
sia nei paesi a capitalismo maturo che in quelli emergenti. E questo è stato il
trampolino di lancio per arrivare ad una concentrazione di ricchezze che non ha
precedenti nella storia. Solo che nella fase crescente della globalizzazione,
nella quale la Cina svolgeva la funzione di fabbrica per il mondo, gli Usa
potevano acquistare prodotti cinesi a basso costo e di modesta qualità da
vendere poi nei magazzini Wall Mart, permettendo alle classi lavoratrici di
fare acquisti pur mantenendo bassi i loro salari e i loro livelli di vita. Ma ora che la Cina compete sui rami
alti dello sviluppo tecnologico (dagli autoveicoli con motori elettrici
all’intelligenza artificiale) tale sistema non può più essere replicato. La
crisi del processo di globalizzazione ha generato il ritorno al protezionismo -
e Trump ne è il sacerdote più che il profeta - visto che la competitività sulla
qualità e l’innovazione dei prodotti rimane un mantra della (falsa) ideologia
del capitalismo, il quale di suo, come sappiamo, tende al monopolio, di cui
l’oligopolio è una versione allargata ma spesso transitoria. Quando quelli che
dovrebbero essere le vittime di questo processo di centralizzazione economica
diventano in grado di competere effettivamente e pure di superare i loro
dominatori, la risposta - una volta che il rilancio della domanda e quindi
dell’economia attraverso l’estensione del debito pubblico e privato ha generato
una crisi economico-finanziaria di dimensioni mondiali - è di tipo difensivo,
fondata da un lato sull’elevamento delle barriere doganali e dall’altro sul
sempre più pericoloso ricorso alla minaccia e alla generalizzazione dello
scontro militare. In questo quadro la classe che
detiene le redini del sistema capitalista - in questo caso statunitense, ma la
scena si potrebbe facilmente allargare - non si accontenta più di avere vinto
la lotta di classe, come nella celebre analisi di Warren Buffet, ma vuole
stravincere, con la brutalità di chi minaccia “guai ai vinti!”; e così la
“distruzione creatrice” di Schumpeter affonda in una furia nichilista condotta
tenendo in mano le leve del potere politico, oltre che economico.
Le vittime si allargano a popoli
interi, specialmente quando si tratta del Sud globale. I dazi sono un fattore
potente di ampliamento delle diseguaglianze, perché rafforzando il dollaro[15],
che pure non è certamente una condizione favorevole alle esportazioni, fanno
crescere anche gli interessi sul debito dei Paesi in via di sviluppo inibendone
ogni prospettiva di crescita sociale ed economica. Al contempo, mentre Musk si
attiva per organizzare e promuovere l’elusione fiscale da parte delle grandi
multinazionali, Trump lo sostiene e agisce per destrutturare in ogni modo, se
non per liquidare, ogni forma di organizzazione internazionale che seppure
insufficientemente ha cercato di porre qualche freno all’accumulazione
predatoria di capitali. Non c’è rispetto per nulla, non per la salute e la vita
umana, per non parlare del clima, della terra e del vivente non umano. Non vedo altro significato, per
quante critiche a questi organismi si possono fare, nella prospettata uscita
degli Usa dall’Organizzazione mondiale della sanità e nella volontà di
sospendere per 90 giorni i finanziamenti agli aiuti allo sviluppo ai Paesi
esteri e alle Ong, programmati dalle precedenti amministrazioni americane, fra
cui l’Unaids, il programma delle Nazioni unite per l’Hiv e l’Aids. Il tutto con
un ordine esecutivo firmato dal Presidente il 20 gennaio 2025, con la scusa di
avere il tempo di riesaminare ogni cosa per verificarne la congruità con gli
interessi e i presunti valori americani. È chiaro a tutti che viene rimesso in
discussione l’obiettivo di salvare oltre 40 milioni di vite umane entro il 2028[16].Se a tutto ciò aggiungiamo i
programmi di rimpatrio forzato dei migranti, i blocchi verso nuovi arrivi (ma
già nel Messico dolenti carovane umane si sono messe in cammino per raggiungere
lo sbarrato confine con gli Usa), la spettacolarizzazione data alle azioni
delle forze dell’ordine al riguardo, si vede che la furia nichilista si nutre
di una crudeltà esibita a scopi peggio che intimidatori.
Trump e la guerra per procura russo-ucrainaRispetto alle due principali guerre
in corso, quella russo-ucraina e quella che si abbatte sul popolo palestinese
l’amministrazione Trump sembra seguire due canovacci diversi. È bene perciò
esaminare separatamente i due scenari e poi verificare quali eventuali tratti
in comune hanno per quanto riguarda il comportamento americano. La lunga telefonata fra Trump e
Putin, dei cui contenuti si hanno solo delle supposizioni - ma il fatto nuovo
era che si parlassero e che venisse esplicitamente confermato, con l’esclusione
di Zelensky dall’importante primo contatto, il carattere di guerra per procura
del conflitto - e soprattutto le dichiarazioni rese dal segretario della Difesa
statunitense Pete Hegseth hanno determinato una svolta nella postura americana.
Hegseth, parlando a una riunione del Gruppo di contatto per la difesa
dell’Ucraina a Bruxelles, davanti agli inviati di più di 40 paesi, ha in poche
parole riconosciuto il fallimento della politica fin qui perseguita dagli Usa e
dalla Ue sul fronte del conflitto russo-ucraino, con due affermazioni molto
nette. La prima: “Vogliamo come voi un’Ucraina sovrana e prospera. Ma dobbiamo
riconoscere che il ritorno ai confini dell’Ucraina prima del 2014 è un
obiettivo illusorio”, il che manda a gambe all’aria tutti i progetti su cui la
precedente amministrazione Usa e tuttora la Ue avrebbero voluto impostare le
trattative di pace. Del resto che il conflitto russo-ucraino potesse
concludersi solo a un tavolo negoziale non era soltanto il punto di vista dei
movimenti pacifisti e delle persone di buon senso, ma era stato riconosciuto a
chiare lettere già nel novembre del 2022 dallo stesso Capo di Stato Maggiore
americano, il generale Mark Milley, convinto che “nessuna delle due parti era
in grado di vincere la guerra”. Verso la fine degli anni dieci di questo
secolo, sulla base di un’analisi articolata e documentata, John J. Mearsheimer,
professore di scienza alla University of
Chicago, aveva avvertito il proprio paese a non infilarsi nuovamente in
avventure belliche, ma naturalmente non era stato ascoltato.[17]
Gli Stati Uniti hanno scatenato sette conflitti dalla fine della guerra fredda
e sono continuamente in guerra da poche settimane dopo l’attacco alle Twin
Towers dell’11 settembre 2001. “La frequenza degli interventi armati americani
nel periodo successivo alla ‘guerra fredda’ (1990-2017) si è sestuplicata
rispetto al periodo 1798-1989”.[18]
Ma neppure la guerra per procura ha ottenuto risultati vantaggiosi per gli
Usa.La seconda affermazione rilevante di
Hegseth ci dice che gli Stati Uniti “non credono che l’adesione alla Nato
dell’Ucraina sia un risultato realistico di una soluzione negoziata” Ma non si
è fermato qui, poiché ha aggiunto che soldati Usa non faranno parte di alcuna
missione di peacekeeping, non
rientrando nel quadro previsto dall’articolo 5 della Nato, quello che impegna i
suoi membri alla difesa collettiva. Lasciando quindi Macron solo nella sua
intenzione di inviare truppe sul suolo ucraino.
Infine ha ribadito in modo pubblico
che gli stati europei devono aumentare la spesa militare fino al 5% del loro
Pil, assumendosi in toto la
responsabilità della difesa con armi convenzionali,
poiché
la priorità per gli Usa è l’impegno nell’indo-pacifico per contenere
le ambizioni della Cina.[19]
Concetto, quest’ultimo, immediatamente ripreso e rilanciato da Samuel Paparo,
capo del comando statunitense nell’indo-pacifico, che dalle Haway precisa: “Se
avessimo dovuto scegliere il centro di gravità del mondo cento anni fa, sarebbe
stato nell’Europa centrorientale. Oggi è nell’indo-pacifico”Per l’amministrazione Trump è chiara
la divisione dei compiti: la Ue deve badare a se stessa e a ciò che accade ai
confini dell’Unione entro il continente europeo, mentre gli Usa dichiarano
ormai apertamente quale è per loro la posta in gioco: il confronto/scontro con
la Cina. Come poi la richiesta di incremento delle spese militari, su cui la
von der Leyen è pronta da tempo a consentire, si combini con la minaccia di
dazi sulle principali voci di esportazione europea verso gli States è questione
che può essere risolta solo nel quadro di una guerra di classe generalizzata,
dal momento che la Ue dovrebbe, per fare fronte alle maggiori spese belliche e
alle minori entrate dalla vendita di beni oltreatlantico, procedere a ulteriori
e drastici tagli allo stato sociale dei paesi membri. Ovvero proseguire in
un’austerità di guerra, ancora più acuta, anche qualora andasse in porto la
cessazione del conflitto russo-ucraino. Insomma dal sistema di guerra non si
esce: questo è in realtà il messaggio che Hegseth ha portato per conto della
amministrazione Trump 2. Altro che pace, se la si intende, come si dovrebbe,
nella sua dimensione globale.
Quale potrebbe essere il ruolo dell’EuropaMa questi elementi di novità
dovrebbero servire da insegnamento alle élite
europee. Nel senso che il filoatlantismo ostinato, nel nome di un mitico
Occidente, ha meno che mai senso – se mai ne ha avuto uno - in un mondo in cui
gli stessi Usa sono pronti a rimettere in discussione a loro vantaggio tutte le
intese, politiche e commerciali, a destrutturare, svuotare e abbattere ogni
organismo internazionale, a partire dall’Onu e dalle sue diramazioni,
nell’intento di invertire la tendenza al declino del “secolo americano”, che
però si presenta piena di rischiosissimi colpi di coda. Sono passati esattamente 50 anni
dalla famosa Conferenza di Helsinki del 1975, più volte richiamata negli
articoli della nostra rivista come modello, mutatis
mutandis, cui potersi ispirare per ricostruire una pace duratura e non un
semplice “cessate il fuoco” - comunque auspicabile - tra Russia e Ucraina. In
quel caso vi fu un ruolo positivo e propositivo degli stati europei. Da allora
l’Europa ha fatto solo passi indietro. La sua protesta per essere stata esclusa
dai colloqui fra Usa e Russia a Riad appare persino patetica. Eppure se si
vuole evitare che la guerra russo -ucraina si concluda - sempre che ciò
avvenga, il che sarebbe già un risultato - non semplicemente alla “coreana”,
cioè grosso modo tracciando una linea che separa i fronti bellici laddove sono
arrivati, lasciando i due paesi, più che in pace, nella condizione di una
sospensione della guerra a tempo indeterminato, bisognerebbe recuperare quello
spirito e quella spinta che porti ad un nuovo appuntamento internazionale,
sotto l’egida dell’Onu, per affrontare il tema della pace nella sua complessità
e globalità. Utopia? Guardando il mondo che abbiamo davanti certamente.
Tuttavia necessaria. Anche per dare un ruolo alla Ue, senza il quale il
progetto europeo può dirsi morto. E non sono certamente le terapie
economico-finanziarie di Draghi, né gli stanchi appelli di Prodi che la
potrebbero ricostruire e tantomeno l’insistenza verso la costruzione di un
esercito europeo.
Trump e il MediorienteGli stretti legami che stringono gli
Usa a Israele, e viceversa, impediscono a Trump di assumere una postura diversa
da quella fin qui seguita nell’area. Non dimentichiamo che il patto di Abramo
venne stipulato nella ultima fase della prima presidenza Trump. Quello che
accade ora è la continuazione di quella logica, aggravata dalla distruzione di
Gaza e dalle mire sulla Cisgiordania. La prima mossa della nuova
amministrazione Trump è stata quella di consegnare all’amico Netanyahu un
gigantesco pacco-regalo fatto di bombe: le micidiali MK-84, soprannominate Hammer, cioè martello.[20]
Non proprio un messaggio di pace. La
trovata di “comprare Gaza” e trasformarla in una riviera popolata di lussuosi resort può apparire bizzarra, ma in
realtà corrisponde all’immaginario dei vecchi e nuovi ricchi americani. In
questo senso Trump è perfettamente in armonia con il proprio mondo.
Ma soprattutto in quella tormentata
area geografica si annodano interessi concretissimi e progetti di grande
portata da realizzare dal punto di vista del duo Usa-Israele. Infatti il quadro
si fa più chiaro se teniamo conto che l’eliminazione di Hamas, Hezbollah e
degli Houthi e lo spostamento addirittura del superstite popolo palestinese
sono funzionali a “bonificare” il terreno, con un bagno di sangue e con un
nuovo esilio forzato, per il passaggio del Corridoio Economico India-Medioriente-Europa
(Imeec), una rete multimodale di migliaia di chilometri che partendo dai porti
indiani, passando per quelli emiratini e sauditi, vuole culminare al porto
israeliano di Haifa, facendone il potenziale
hub per l’intero Mediterraneo. Il
progetto si basa su un protocollo d’intesa, firmato in occasione del G20
tenutosi a Nuova Dehli nei primi di settembre del 2023, fra India, Arabia
saudita, Emirati arabi uniti, Ue e Usa, Germania, Francia e Italia. Si tratta di un progetto ambizioso, ma
molto importante nella strategia mondiale statunitense sotto il profilo
geoeconomico e geopolitico, che mira a più obiettivi contemporaneamente. Tra
questi: ricostruire le catene di creazione e trasmissione del valore interrotte
dalla crisi della globalizzazione; bypassare il canale di Suez che, per diverse
ragioni, e malgrado il suo raddoppio,
non ha offerto negli ultimi tempi sicurezza e facile scorribilità ai mezzi che
l’hanno percorso, il che comporterebbe un ridimensionamento dell’Egitto e una
potenziata centralità dei paesi del Golfo, non a caso coccolati da Trump; soprattutto farne un percorso alternativo
alla Nuova Via della Seta progettata dai cinesi; cogliere nel contempo
l’occasione di approfondire la competitività fra India e Cina, tirando la prima
nel proprio campo di influenza, spezzando così la tendenziale comunanza di
interessi tra i Brics.
Ma perché i disegni americani sul
Medioriente vadano in porto è necessario non solo isolare l’Iran,
neutralizzando ad uno ad uno i suoi alleati - vedi Siria - ma colpire Teheran
al cuore. A questo, in ultima analisi, serve il potente e ulteriore riarmo di
Israele. Del resto l’aviazione israeliana ha già attaccato l’Iran nell’ottobre
scorso. Pare che gli obiettivi fossero noti agli stessi iraniani. Sta di fatto
che probabilmente si è trattato di un assaggio preliminare che comunque mal
depone su quello che ci dobbiamo aspettare. Da lì potrebbe nascere uno scontro
di proporzioni e di intensità ancora maggiori delle guerre cui abbiamo
assistito in questi mesi. È questo il sistema di guerra che
Trump mira a costruire, capace di concentrarsi ora su uno ora su un altro
fronte, quando non contemporaneamente, ovvero, per usare il linguaggio di papa
Francesco, quando i pezzetti della guerra mondiale si congiungono tra loro,
come in un orrendo puzzle. A tutto
ciò è funzionale la creazione di un senso comune nel quale lo stato di guerra
venga inteso come inevitabile e permanente. E nessun paese che è interno a un
sistema di guerra salvaguardia democrazia e diritti al proprio interno, come si
vede anche nel caso italiano. La guerra
infinita, quindi, che si contrappone alla kantiana pace perpetua. Questa è la
nuova dimensione della modernità.
L’innovazione tecnologica finalizzata a scopi bellici e spionisticiL’innovazione tecnologica è
tutt’altro che estranea a questo clima e a questi progetti. Anzi ne è uno dei
supporti principali. Infrastrutture, droni e altre armi autonome e sistemi
basati sulla Intelligenza artificiale sono la nuova frontiera su cui si gioca
l’accrescimento della capacità e della potenza belliche. Come è stato
giustamente osservato l’innovazione tecnologica nei decenni scorsi muoveva e si
affermava sperimentando i suoi prodotti, prima in ambito militare per poi
trasferirsi con diversissimi usi in ambito civile. È noto il percorso di
Internet, nata come Arpanet per scopi militari. Il tragitto ora si è invertito:
il digitale civile viene convertito o comunque usato largamente in ambito
militare. Come si è visto nelle due principali guerre cui stiamo assistendo.
L’esempio della rete Starlink di Elon Musk è illuminante. Grazie ai suoi
satelliti questo sistema non ha eguali. Quando nello scontro bellico i sistemi
di comunicazione tradizionali fra soldati e fra questi e le armi autonome
vengono interrotti, Starlink rimane l’unica risorsa. Chi la possiede e la
controlla ha in mano non solo una via di arricchimento ma le sorti di vite
umane, prevalentemente civili. Lo spostamento dell’asse politico di Silicon
Valley è insieme causa ed effetto di questo nuovo e massiccio impiego della
tecnologia digitale nella guerra moderna. [21]Su questo stretto nesso, oltre che
sulla ricchezza che ne deriva, si fonda il rapporto tra Musk e Trump. Un nuovo
collante che tiene insieme un blocco di destra che lascia alle proprie spalle
la vecchia tradizionale destra conservatrice. La stessa trasformazione del
Partito repubblicano statunitense, il vecchio Gop, non avrebbe avuto una forza
così travolgente senza queste solide basi materiali. Ed è un modello che ha
preso piede anche in Europa, con la crescita delle forze di estrema destra e
con un generale spostamento verso una “radicalità di destra” del fronte
conservatore.
Lo storico americano Timothy Snyder
prende sul serio la minaccia rappresentata da Elon Musk e denuncia che è in
corso un colpo di Stato. Così lo descrive, senza armi, aerei e cannoni neppure
in versione moderna. Non ve ne sarebbe alcun bisogno: “Ora immaginate che la scena sia questa: una ventina
di ragazzi in abiti civili e armati solo di chiavette usb va da un ufficio del
governo all’altro. Usando un gergo tecnico e facendo vaghi riferimenti a ordini
dall’alto, ottengono l’accesso ai sistemi informatici del governo federale
statunitense. Fatto questo, concedono al loro leader supremo l’accesso alle
informazioni e il potere di avviare e interrompere tutti i pagamenti gestiti
dal governo… Quello che stanno facendo Elon Musk e i suoi seguaci è un colpo di
stato perché queste persone non hanno alcun diritto di prendere il potere.
L’imprenditore di origine sudafricana non è stato eletto per nessuna carica e
non c’è carica che gli darebbe l’autorità di fare quello che sta facendo. È
tutto illegale. È un colpo di stato voluto, tra l’altro, con l’obiettivo di
annullare la democrazia e violare i diritti umani.”[22]Accanto alla digitalizzazione della
guerra, si potrebbe dire, avanza la digitalizzazione del monopolio della forza
da parte dello stato e, conseguentemente, lo svuotamento della costruzione
istituzionale che lo regge. La democrazia già ripudiata dal capitalismo a
partire dagli anni ’80 del secolo passato, perde non solo la sua sostanza, ma
anche la sua crisalide formale. Per questo la fusione dei due nomi in Trusk non è solo un gioco linguistico
ma descrive in modo iper sintetico lo stato delle cose. L’internazionale nera e il binomio Trump-MuskÈ certamente opportuno interrogarsi
se questa convergenza di interessi sarà solida e duratura. Steve Bannon,
l’ideologo della nuova internazionale nera che si è data appuntamento a
Washington, nella forma di un simposio mondiale dei conservatori - la Conservative Political Action Conference (Cpac)
- al quale dovrebbe partecipare anche
Giorgia Meloni, sembra vedere il rapporto con l’ala tecnocratica di Musk più
problematico di quanto le comparizioni entusiastiche di quest’ultimo, prima e
subito dopo la campagna elettorale del tycoon,
vogliono fare credere.[23] “Musk va tenuto d’occhio - dice Bannon - perché
ha interessi personali che vanno oltre gli obiettivi del movimento Maga e della
stessa Amministrazione. Però finché ci aiuta, può tornare utile… Credo che il
presidente lo stia usando per demolire lo stato amministrativo”, cioè quello
che per Timothy Snyder, come abbiamo detto prima, è un colpo di stato eseguito
con metodi soft ma con conseguenze
liberticide e autoritarie micidiali. Che poi sia Trump a usare Musk e non
viceversa è tutto da vedere, anche se è prematuro fare delle previsioni, salvo
ricordare che Trump ha davanti a sé quattro anni - a meno di un colpo di stato strong - mentre il tempo e il percorso
di Musk non sono sottoposti a limiti che non siano quelli biologici del
personaggio. È certamente troppo presto per
avanzare previsioni. Tuttavia è possibile immaginare che i consistenti
interessi che Musk ha in Cina - il mercato cinese è il secondo più grande per
Tesla, la sua creatura automobilistica e la
gigafactory di Shangai, impiantata nel 2019, è diventata il centro di
produzione maggiore dell’impresa, comportando però una competizione crescente
fra Tesla e la cinese Byd - possano entrare in rotta di collisione con i
disegni neo-imperiali di Trump e il suo crescente conflitto nell’indo-pacifico.
La partita è tutt’altro che chiusa. Anzi siamo appena entrati in una nuova fase
del cangiante percorso del capitalismo, ove, a guardare bene, Trump non sta
facendo altro che portare a compimento, o quantomeno a uno stadio successivo,
tendenze e mosse che già stavano nella pancia del capitalismo Usa, anche quando
erano gli impalliditi liberal sulla
presunta plancia di comando.
La lotta per la pace e le prospettive per la sinistraAvere a che fare con una oligarchia
tecnocratica che si pone a capo di un sistema di guerra a livello mondiale,
pone a movimenti e formazioni politiche problematiche forse in sé non tutte
nuove, ma certamente abbandonate o quantomeno trascurate da tempo o ancora da
affrontare. È difficile pensare a un rilancio di un movimento internazionale
per la pace che non consideri la sua difesa come un tutt’uno, pronto a muoversi
rispetto ad ogni vecchio o nuovo focolaio di guerra e nello stesso tempo
cogliendo i nessi che legano l’uno agli altri. La pace non è indivisibile, non
è sezionabile. Nel contempo la lotta per la pace non
può neppure per un attimo prescindere da quella nel campo delle scelte
economiche e del modello di sviluppo, a livello nazionale come a quello
internazionale, a cominciare dall’Europa dove siamo. Il che richiede non solo
una rinnovata attenzione analitica alle trasformazioni e alle mosse in atto del
capitale, ma uno scontro, culturale e pratico, sui segmenti più alti dello
sviluppo tecnologico in tutti i suoi aspetti. Sottovalutare le linee di
sviluppo o di involuzione che può assumere la intelligenza artificiale sarebbe
letale per la ricostruzione della sinistra.
In questo quadro un alleato può
essere trovato nei Brics, la cui natura come ben sappiamo è fin troppo
disomogenea, ma i cui concreti atti dimostrano la possibilità, anche in campo
tecnologico, di non concepire questa lotta solo in termini culturali.
L’esperienza di DeepSeek, la società
cinese di intelligenza artificiale che
sviluppa modelli linguistici di grandi dimensioni in open source, capace di competere per qualità e costi
con ChatGPT ne è un esempio; tanto più che
il modello di intelligenza artificiale è stato sviluppato da DeepSeek nel mezzo delle sanzioni degli
Stati Uniti alla Cina (per i chip Nvidia), che avevano lo scopo di limitare la capacità del paese di sviluppare
sistemi di intelligenza artificiale avanzati, ottenendo invece il risultato
opposto. Le sanzioni comminate dall’Occidente, la versione bellica delle guerre
commerciali, hanno in realtà spinto chi ne era vittima a trovare soluzioni
innovative persino insperate.Inoltre le mosse ancora timide dei
Brics, o meglio di alcuni importanti paesi tra questi, come il Brasile, di
intavolare scambi commerciali attraverso le loro monete senza passare per il
dollaro, rappresentano, e perciò sono temute osteggiate dagli Usa, un passo
importante in un processo di dedolarizzazione che potrebbe portare a una moneta
internazionale unica non legata alla potenza di questa o quella nazione,
attualizzando il progetto keynesiano che uscì sconfitto a Bretton Woods nel
luglio del 1944.
La resistenza di fronte
all’involuzione autoritaria nel sistema di guerra creato è decisiva e
propedeutica a qualunque progetto di rinascita della sinistra. Come ha scritto
Bernie Sanders ai suoi sostenitori: “In questi tempi difficili la disperazione
non è un’opzione. Dobbiamo reagire in ogni modo possibile”[24]
Purtroppo, in particolare per quanto riguarda il quadro europeo, e quello italiano
è tra i peggiori da questo punto di vista, la ricostruzione di un pensiero e di
una forza di sinistra è un progetto inesistente o molto arretrato. Tuttavia, o meglio proprio per
questo, quando si avverte un segnale positivo in questa direzione è bene
prestarvi la massima intenzione. È il caso di alcune novità che ci vengono
dalla Germania, alla vigilia delle elezioni politiche. La Linke, l’organizzazione della sinistra di alternativa che aveva
subito una pesante scissione ad opera di Sarah Wagenknecht ed era precipitata a
gennaio attorno a valori del 3% nei sondaggi, ha visto risalire le proprie
quotazioni sopra lo sbarramento del 5%. Ma la cosa più importante è che, grazie
alla spinta della sua attivissima segretaria Heidi Reichinnek, che reca sul
braccio sinistro il viso tatuato di Rosa Luxemburg, vi è stato un enorme balzo
in avanti negli iscritti con una fortissima presenza giovanile[25].
Frutto del loro lavoro contro la destra filonazista, ma anche contro le
pulsioni “rossobruniste” della Wagenknecht, e della mobilitazione capillare,
porta a porta, che ha trasformato una campagna elettorale in un contatto
diretto con le persone. Ed è così che possono rinascere, attualizzandosi e
rinnovandosi, i valori e le modalità d’azione di una sinistra anticapitalista.
Questo significa non cedere alla disperazione, come dice Bernie Sanders. Note 1. Il riferimento d’obbligo
è a Ernesto Laclau La ragione populista,
Laterza, Bari-Roma 2019 2. Per un approfondimento
del tema, tra la tanta letteratura comparsa, si veda lo studio di Pasquale
Serra Populismo progressivo. Una
riflessione sulla crisi della democrazia europea, Castelvecchi, Roma 2018 3.
Vedi
Laura Pennacchi “Trump e Musk. La religione dei tecno-nichilisti” in il manifesto del 8 febbraio 2025 4. Vedi AA.VV. Problemi del nichilismo, a cura di
Claudio Magris e Wolfgang Kaempfer, Shakespeare and Company, Milano 1981 5. Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal
1918 ai giorni nostri. Laterza, Bari-Roma, 1981 6. Vedi Valerio Draco “Cosa
rende il Bitcoin un bene scarso, cosa gli dà valore?” in Cripto.it https://www.crypto.it/2023/07/16/cosa-rende-bitcoin-un-bene-scarso-cosa-gli-da-valore/ 7. “Il senatore statunitense
Bill Hagerty mette sul piatto una nuova regolamentazione stablecoin: Usdt e Usdc sotto il controllo della Fed” The Cryptonomist del 5 febbraio 2025; https://cryptonomist.ch/2025/02/05/bill-hagerty-nuova-regolamentazione-stablecoin-usa/ 8.
World Liberty Financial è un protocollo di
finanza decentralizzata fondato nel 2024. Il titolo aziendale di Donald Trump è
“capo sostenitore delle criptovalute”, Barron Trump è elencato come il “visionario
della DeFi” del progetto ed Eric Trump e Donald Trump Jr. hanno ciascuno il
titolo di “ambasciatore Web3”. 9. Vedi Charles Kindelberger Storia della finanza nell’Europa occidentale, Laterza, Bari-Roma,
1981 e anche, dello stesso autore Euforia
e panico. Storia delle crisi finanziarie, Laterza, Bari-Roma 1987 10. Catherine McGrath “La World Liberty Financial di Donald Trump vuole lanciare una stablecoin” 29 ottobre 2024 ora in Fortune Italia; https://www.fortuneita.com/2024/10/29/liniziativa-crypto-di-donald-trump-vuole-lanciare-una-stablecoin/ 11 Vedi Rosaria Amato “Quanto
ci costa il muro di Trump” in Affari&Finanza
del 10 febbraio 2025 13. Tra le tante analisi del
fenomeno, a cui questa rivista ha sempre prestato grande attenzione con diversi
articoli, si veda la recente traduzione italiana del libro, anche se viziato da un eccesso di ottimismo sulle prossime fortune
di un ritorno al “localismo”, della vicedirettrice del Financial Times Rana Foroohar La
globalizzazione è finita. La via locale alla prosperità in un mondo
post-globale, Fazi editore, Roma 2025 14. Matthew C. Klein, Michael Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe.
Come le crescenti disuguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace
internazionale, Einaudi, Torino 2021 15. Si veda ad esempio: “Il dollaro si rafforza sui nuovi dazi di Trump” in Milano Finanza del 10 febbraio 2025.
Per cercare di capire cosa significhi
la netta vittoria elettorale di Trump sia per il suo paese che per il resto del
mondo, come è necessario fare, bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o
almeno mettere da parte, alcune caratterizzazioni che sono state appiccicate al
personaggio e che non ci sono d’aiuto per comprendere a fondo la natura del
fenomeno. Quale quella di essere un avventurista incline alla violenza in ogni
campo; di interpretare il suo ruolo come messianico; di adottare atteggiamenti
e dichiarazioni a dir poco sopra le righe; di ostentare il suo corpo ferito in
un’immagine ricercata e diventata iconica; di brutalizzare il suo stesso agire
politico; o addirittura di essere poco più di un “comico naturale”. In
particolare dovremmo essere noi, nativi e abitanti dell’italico stivale, ad
essere sufficientemente vaccinati da simili devianti interpretazioni, avendo
assistito increduli - senza necessariamente rammentare le posture mussoliniane,
riportate all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche - al nascere e
allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso, del berlusconismo e sapendo
quanto ci sia costata l’altera sottovalutazione della sua fondata pericolosità,
almeno al suo primo manifestarsi. Ma scorrendo anche autorevoli commenti offerti
dal mainstream nostrano sembra
riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la storia è una ottima maestra, ma non
ha scolari.
Il nichilismo “dall’alto”
La resistenza di fronte
all’involuzione autoritaria nel sistema di guerra creato è decisiva e
propedeutica a qualunque progetto di rinascita della sinistra. Come ha scritto
Bernie Sanders ai suoi sostenitori: “In questi tempi difficili la disperazione
non è un’opzione. Dobbiamo reagire in ogni modo possibile”[24]
Purtroppo, in particolare per quanto riguarda il quadro europeo, e quello italiano
è tra i peggiori da questo punto di vista, la ricostruzione di un pensiero e di
una forza di sinistra è un progetto inesistente o molto arretrato.
2. Per un approfondimento
del tema, tra la tanta letteratura comparsa, si veda lo studio di Pasquale
Serra Populismo progressivo. Una
riflessione sulla crisi della democrazia europea, Castelvecchi, Roma 2018
3.
Vedi
Laura Pennacchi “Trump e Musk. La religione dei tecno-nichilisti” in il manifesto del 8 febbraio 2025
4. Vedi AA.VV. Problemi del nichilismo, a cura di
Claudio Magris e Wolfgang Kaempfer, Shakespeare and Company, Milano 1981
5. Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal
1918 ai giorni nostri. Laterza, Bari-Roma, 1981
6. Vedi Valerio Draco “Cosa
rende il Bitcoin un bene scarso, cosa gli dà valore?” in Cripto.it https://www.crypto.it/2023/07/16/cosa-rende-bitcoin-un-bene-scarso-cosa-gli-da-valore/
10. Catherine McGrath “La World Liberty Financial di Donald Trump vuole lanciare una stablecoin” 29 ottobre 2024 ora in Fortune Italia; https://www.fortuneita.com/2024/10/29/liniziativa-crypto-di-donald-trump-vuole-lanciare-una-stablecoin/
14. Matthew C. Klein, Michael Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe.
Come le crescenti disuguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace
internazionale, Einaudi, Torino 2021
15. Si veda ad esempio: “Il dollaro si rafforza sui nuovi dazi di Trump” in Milano Finanza
del 10 febbraio 2025.
16. Vedi Barbara Gobbi
“L’addio degli Stati Uniti all’Oms e le conseguenze globali: rischi e la
partita Usa-Cina” ne: Il Sole 24 Ore
del 4 febbraio 2025 e Giulia Valeria Calvino “Cosa succede se si fermano i
Fondi per la risposta globale a Hiv/Aids” in Huffpost del 5 febbraio 2025
17. Vedi John J. Mearsheimer La grande illusione. Perché la democrazia
liberale non piò cambiare il mondo, introduzione di Raffaele Marchetti,
Luiss University Press, Roma 2019 18. La frase è tratta dalla
introduzione di Raffaele Marchetti al libro di Mearsheimer cit. 19. Jorge Liboreiro
“Ucraina, segretario alla Difesa Usa Hegseth: confini pre-2014 e adesione Nato
obiettivi irrealistici” EuroNews del
12 febbraio 2025;
https://it.euronews.com/my-europe/2025/02/12/ucraina-segretario-difesa-usa-hegseth-confini-pre-2014-e-adesione-alla-nato-obiettivi-irre
20. Vedi l’articolo di Alberto Negri “Cosa c’è
dietro il piano di Trump per Gaza” in questo stesso numero della rivista, pp. 21. Su questi argomenti vedi
Michele Mezza Connessi a morte. Guerra,
media e democrazia nella società cybersecurity”, Donzelli, Roma 2024;
nonché, dello stesso autore “La guerra al tempo della cybersecurity” in Alternative
per il Socialismo n.74,
ottobre-dicembre 2024, ed anche Giulio De Petra La digitalizzazione della guerra, intervento all’iniziativa “Guerra
e tecnologie: il complesso digitale militare” tenutasi il 20.1.2025 a Roma,
pubblicato l’8,2.25 nella Newsletter del
Centro Riforma dello Stato: https://centroriformastato.it/la-digitalizzazione-della-guerra/ 22. Timothy Snyder “A
Washington è in corso un colpo di stato” in Internazionale
n.1601, 14-20 febbraio 2025; https://www.internazionale.it/magazine/timothy-snyder/2025/02/13/a-washington-e-in-corso-un-colpo-di-stato 23. Vedi Paolo Mastrolilli, intervista a Bannon “Ma
con Weidel il Maga vincerà a Berlino e poi l’Europa sarà nostra” in cui
l’ideologo nero spiega la strategia di conquistare alla destra uno per uno gli
stati europei
24. Il testo della lettera è
pubblicato nella Newsletter del Centro Riforma dello Stato del 15 febbraio 2025 25. Vedi Tonia Mastrobuoni
“Germania, verso un governo a tre, la rinascita della Linke frena l’Afd” in la Repubblica del 20 febbraio 2025.
17. Vedi John J. Mearsheimer La grande illusione. Perché la democrazia
liberale non piò cambiare il mondo, introduzione di Raffaele Marchetti,
Luiss University Press, Roma 2019
18. La frase è tratta dalla
introduzione di Raffaele Marchetti al libro di Mearsheimer cit.
19. Jorge Liboreiro
“Ucraina, segretario alla Difesa Usa Hegseth: confini pre-2014 e adesione Nato
obiettivi irrealistici” EuroNews del
12 febbraio 2025;
https://it.euronews.com/my-europe/2025/02/12/ucraina-segretario-difesa-usa-hegseth-confini-pre-2014-e-adesione-alla-nato-obiettivi-irre
20. Vedi l’articolo di Alberto Negri “Cosa c’è
dietro il piano di Trump per Gaza” in questo stesso numero della rivista, pp.
21. Su questi argomenti vedi
Michele Mezza Connessi a morte. Guerra,
media e democrazia nella società cybersecurity”, Donzelli, Roma 2024;
nonché, dello stesso autore “La guerra al tempo della cybersecurity” in Alternative
per il Socialismo n.74,
ottobre-dicembre 2024, ed anche Giulio De Petra La digitalizzazione della guerra, intervento all’iniziativa “Guerra
e tecnologie: il complesso digitale militare” tenutasi il 20.1.2025 a Roma,
pubblicato l’8,2.25 nella Newsletter del
Centro Riforma dello Stato: https://centroriformastato.it/la-digitalizzazione-della-guerra/
22. Timothy Snyder “A
Washington è in corso un colpo di stato” in Internazionale
n.1601, 14-20 febbraio 2025; https://www.internazionale.it/magazine/timothy-snyder/2025/02/13/a-washington-e-in-corso-un-colpo-di-stato
25. Vedi Tonia Mastrobuoni
“Germania, verso un governo a tre, la rinascita della Linke frena l’Afd” in la Repubblica del 20 febbraio 2025.