UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

giovedì 20 marzo 2025

IL NICHILISMO DI TRUMP
di Alfonso Gianni

 
Pubblichiamo la versione integrale della corposa riflessione di Alfonso Gianni di cui ieri abbiamo anticipato alcuni brevi spunti 
 
Per cercare di capire cosa significhi la netta vittoria elettorale di Trump sia per il suo paese che per il resto del mondo, come è necessario fare, bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o almeno mettere da parte, alcune caratterizzazioni che sono state appiccicate al personaggio e che non ci sono d’aiuto per comprendere a fondo la natura del fenomeno. Quale quella di essere un avventurista incline alla violenza in ogni campo; di interpretare il suo ruolo come messianico; di adottare atteggiamenti e dichiarazioni a dir poco sopra le righe; di ostentare il suo corpo ferito in un’immagine ricercata e diventata iconica; di brutalizzare il suo stesso agire politico; o addirittura di essere poco più di un “comico naturale”. In particolare dovremmo essere noi, nativi e abitanti dell’italico stivale, ad essere sufficientemente vaccinati da simili devianti interpretazioni, avendo assistito increduli - senza necessariamente rammentare le posture mussoliniane, riportate all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche - al nascere e allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso, del berlusconismo e sapendo quanto ci sia costata l’altera sottovalutazione della sua fondata pericolosità, almeno al suo primo manifestarsi. Ma scorrendo anche autorevoli commenti offerti dal mainstream nostrano sembra riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la storia è una ottima maestra, ma non ha scolari.
Intendiamoci non si può negare che The Donald, rispetto alla sua prima apparizione come presidente sulla scena della storia statunitense e quindi mondiale, abbia accentuato aggressività e decisionismo nelle sue parole e nei suoi atti. Anzi si possono persino iscrivere questi suoi comportamenti in una nuova categoria, che forse aiuta a comprendere meglio con chi abbiamo a che fare. Si è fin qui e tuttora usato nei confronti dei protagonisti della destra sparsi per più continenti, compreso il nostro, il termine “populismo” per delineare un distorto, ma non meno reale, rapporto con il popolo, basato su promesse demagogiche e sulla esaltazione di un decisionismo governativo rafforzato da un presidenzialismo nelle sue varie forme e accezioni, che lo trasformavano in un populismo autoritario. E si è precisato, perlomeno da parte del pensiero di sinistra, che si era di fronte a un “populismo dall’alto”, quasi un ossimoro, per distinguerlo dalle manifestazioni populistiche che hanno caratterizzato la storia del Novecento in varie parti del mondo e che invece partivano “dal basso”, cioè da un movimento di popolo che aspirava, seppure confusamente ma con radicalità, a una giustizia sociale. Una sorta di populismo progressivo, che, ad esempio, nella elaborazione di Ernesto Laclau[1] assume la potenzialità, se non il ruolo in atto, di una risposta alla crisi della democrazia liberale, sottovalutando il rischio - qui uno dei punti della distanza rispetto al pensiero gramsciano - di diventare facile preda di processi di rivoluzione passiva.[2]


Il nichilismo “dall’alto”
Pur essendo chiara la differenza fra i due tipi di populismo, anche se poi gli esiti finali possono diventare simili e confluire nella rivoluzione conservatrice mossa dalle classi dominanti - di cui abbiamo abbondantemente scritto lungo l’arco di vita di questa rivista - non credo che la categoria del populismo dall’alto sia sufficiente per inquadrare la figura e l’azione di Trump. È forse opportuno fare ricorso ad un’altra definizione che pure ha origini storiche molto lontane e diverse: quella del nichilismo, ovviamente anch’esso “dall’alto”. Il che richiede, a sua volta, di precisare cosa si vuole intendere con questa parola e come questa categoria sia oggi diversa da quelle del passato e assuma una particolare valenza se riferita al capo dello Stato dell’ancora più potente paese del mondo, pur sospinto lungo una china declinante. Lo fa, ad esempio, Laura Pennacchi scrivendo di nichilismo come “deificazione del vuoto”, ovvero come “pulsione alla distruzione di cose e di persone … [e della] nozione stessa di verità”[3]. Naturalmente questa definizione coglie più di un elemento reale, basta riferirsi alla disinvoltura spinta fino al disinteresse mostrato dal duo Trump-Musk verso la credibilità di loro dichiarazioni e progetti come, ad esempio, la conquista di Marte, visto che ciò che conta per loro è la dominanza nella space economy.
Ma, senza contrapporre una definizione all’altra, casomai integrandola, descriverei il nichilismo portato alle sue conseguenze più estreme - cogliendo anche spunti di un dibattito filosofico di qualche decennio fa - come uno schiacciamento finale del valore d’uso di ogni cosa, materiale o immateriale,  al valore di scambio.[4] Che altro è se non questo, promettere la pace in Ucraina chiedendo in cambio circa 500 miliardi di dollari in ricercatissime terre rare, così cruciali per lo sviluppo tecnologico su cui si poggia il potere dell’oligarchia tecno-capitalista? Che altro può mai significare - aldilà delle chances di possibile realizzazione - progettare di trasformare la striscia di Gaza, cacciando il popolo palestinese in un indefinito e improbabile altrove, in un luogo di villeggiatura per super ricchi, se non costruire un parco di resort e chiamarlo pace? Cosa di diverso da questo si può dire quando vengono revocati in dubbio i rapporti anche con i più tradizionali alleati, come i vertici dell’Unione europea, - persino la supina Meloni ne rimane scossa - nel quadro di una minacciata e in parte già cominciata guerra dei dazi?

 
Le mani dei Trump sulla moneta
Questa riduzione del valore d’uso al valore di scambio si presenta contemporaneamente come causa, ma anche come effetto dirompente della siderale crescita degli arricchimenti in mano a poche persone, la cui quantità di averi supera quella del Pil di interi stati e non dei più poveri. Anche in questo caso si tratta di un processo dal lungo percorso, una delle basi su cui si è fondato il successo del neoliberismo. La moneta ha cambiato la fonte, l’aggancio all’oro, da cui traeva la sua validità, ossia la sua insita capacità di convinzione per chiunque la possedesse di poterla trasformare in un bene tangibile o in un servizio utile. Poi, come si sa, la non convertibilità del dollaro in oro ha mutato il quadro. Da quel momento in poi fa testo la fiducia nei confronti dello Stato che emette la moneta e quindi   verso la Banca centrale. Come ha scritto Ennio Di Nolfo “il ruolo di una moneta non dipende tanto dalla possibilità di stamparla o emetterla quanto dalla posizione internazionale della potenza che la produce”.[5]
Ma il quadro cambia ancora con l’entrata in scena delle cripto valute. I loro promotori sono sconosciuti privati e la loro tesaurizzazione appare come un’ulteriore possibilità quale bene rifugio oltre all’oro, di questi tempi in rapida ascesa nel suo prezzo, come avviene in tutti i periodi di forte instabilità internazionale. Ma, rispetto all’oro, con il quale condivide la relativa scarsità, le criptovalute sono contraddiste da una ben più elevata volatilità del loro valore. Non a caso il Bitcoin (Btc), la più famosa delle cripto valute, viene considerato come una specie di “oro digitale”.[6]
Tuttavia le attività finanziarie legate alle cripto-valute sono andate crescendo, particolarmente negli ultimi tempi. Uno dei fattori del loro successo è indubbiamente connesso alla figura di Trump, il quale già in campagna elettorale aveva annunciato di volere fare diventare gli Usa la capitale mondiale delle cripto-valute. Una volta presidente, non ha esitato a spingere il senatore repubblicano Bill Hagerty a presentare una proposta di legge per fornire una sorta di patente legale alle monete digitali, gli stablecoins.[7]


La World Liberty Financial e la famiglia Trump
Ma non si è trattato di un atto disinteressato, anzi invischiato in un evidente conflitto di interessi, dal momento che la famiglia Trump è tra i proprietari di una società, la World Liberty Financial assai attiva negli nel campo delle cripto-valute[8]. Un conflitto di interessi? Certamente. Enorme. Ma Trump ha provveduto per tempo a neutralizzarlo, avendo subito cambiato i vertici della Sec (Security and Exchange Commission), l’Ente federale preposta alla vigilanza delle borse valori, fondato nel 1934 da Franklin Delano Roosevelt.
Sono davvero lontani i tempi nei quali il grande studioso della storia economica internazionale, Charles Kindleberger, poteva definire la moneta come un particolarissimo tipo di bene pubblico e come tale a rischio di speculazione privata.[9] Qui siamo di fronte ad un processo di appropriazione della governance della moneta, o meglio delle cripto attività finanziarie,  in mani private, anche se queste ultime appartengono al rapace presidente degli Stati Uniti d’America, uomo pubblico per eccellenza. Già nell’ottobre del 2024, quindi prima delle elezioni presidenziali del 5 di novembre, la stampa specializzata riportava che la World Liberty Financial stava pianificando “la creazione di una propria stablecoin, che potrebbe fungere da sostituto del dollaro”. L’autrice dell’articolo affermava poi che “Nonostante i dubbi su come il team di World Liberty intenda sviluppare una stablecoin affidabile, la famiglia Trump potrebbe ottenere un profitto significativo se il progetto dovesse decollare. Tether, la stablecoin più grande al mondo, ha registrato un profitto record di 5,2 miliardi di dollari solo nella prima metà del 2024.”[10] Non male, direi, anche se i rischi di rovesci sono sempre dietro l’angolo.


Cosa rappresenta lo scontro sui dazi
Lo scontro sui dazi di per sé non è affatto una assoluta novità. Era comparso già ad opera delle precedenti amministrazioni americane. Costituisce uno degli aspetti inevitabili - o quantomeno logicamente conseguenti - di quel processo di deglobalizzazione che ha preso le mosse lungo la prima decade di questo secolo, sospinto dalla grande crisi economica del 2008 e da quella pandemica dovuta al diffondersi su scala planetaria del Covid-19. Gli effetti e le conseguenze dell’una e dell’altra non sono affatto terminati. Al contrario si sono trascinati aggravandosi e determinando le scelte politiche delle maggiori potenze, ben aldilà delle intenzioni, o persino dei buoni propositi dei loro governanti e interpreti.
Ma certamente con Trump la questione dei dazi assume una centralità ed una virulenza finora sconosciute, costituisce, almeno per ora, il tratto fondante e caratteristico della Trumpnomics 2.0. The Donald si è inoltrato in una guerra commerciale che non appare affatto contingente e tantomeno occasionale. È vero che alcune misure proposte sono più che altro, e per ora, servite come arma di ricatto per ottenere altro, come la promessa di bloccare il movimento di migranti dal Messico agli States. Ma questo testimonia solo della possibilità di un double use - per usare un linguaggio ornai di moda in ambito militare - dell’arma dei dazi, quindi di una sua accresciuta pericolosità ed efficacia, non certo dell’inclinazione verso grida manzoniane da parte della nuova amministrazione statunitense.
D’altro canto Trump l’ha messa da subito giù dura, facendone una questione di sicurezza nazionale. Si è appellato alla legge federale del 1977, l’International Emergency Economic Powers Act, che conferisce pieni poteri al Presidente degli Usa nel caso di un’emergenza tale da mettere a repentaglio la nazione. E non si può dire che la sua azione abbia incontrato plausi straordinari neppure sulla stampa apertamente di destra e filo repubblicana del suo paese. È ben nota l’immediata reazione dell’autorevole Wall Street Journal - ma anche The Economist la pensa in modo analogo - che ha definito la guerra intrapresa da Trump come “la guerra commerciale più stupida della storia”.


La guerra commerciale è proprio così stupida?
Ma c’è da domandarsi se sia proprio così. Se guardiamo la cosa per i suoi effetti principalmente sui meccanismi economici – e sulle conseguenze sociali - non è difficile riconoscere che vi sono nel giudizio così aspro del Wsj e di altri numerosi commentatori economici, elementi di verità. Al contempo non credo si possa liquidare la politica trumpiana così facilmente e sbrigativamente. Vediamo il perché.
L’alzamento dei dazi nei confronti di Canada, Messico e Cina colpiranno settori chiave, quali l’automotive, l’edilizia, l’alimentare per ricordarne solo alcuni tra i principali e più tradizionali; porterà ad un incremento dell’inflazione che tanto ha spaventato ciò che resta della classe media americana, oltre naturalmente coloro che stanno ancora più in basso, e che è uno dei motivi per cui le scelte nel campo della politica economica domestica condotta da Biden, pur non disprezzabili, non hanno salvato il Partito democratico dal tracollo elettorale. Secondo il Budget Lab della Yale University al Peterson Institute for International Economics il calo del potere d’acquisto, a causa della introduzione dei dazi trumpiani, oscillerà tra i mille e i mille200 dollari per ogni famiglia americana. Come è ovvio il prezzo più salato lo pagheranno le famiglie a basso o modesto reddito. Per il nostro paese, ma anche per l’insieme della Ue, le conseguenze sarebbero drammatiche. Restando in Italia, la Confartigianato ha già reso note le stime sull’impatto dell’innalzamento delle barriere doganali statunitensi sui nostri prodotti, tenendo conto che gli Usa rappresentano il secondo mercato, dopo la Germania, per il valore del nostro export.[11]
Anche per l’Europa, se tutti i minacciati dazi venissero attuati, il colpo sarebbe pesante. C’è chi stima tra i 90 e i 100 miliardi di euro. Vi è poi da considerare che la Cina, trovando talmente ostico da non essere più praticabile nelle misure attuali il mercato americano, cercherebbe maggiori sbocchi in quello europeo, non incontrando certamente il favore dei produttori del vecchio continente. Trump non ha esitato ad aprire un brusco confronto con il governatore della Fed, a cui richiede autoritariamente di diminuire i tassi, cosa che peraltro la Banca centrale ha fatto in ragione di un punto percentuale lungo l’anno appena trascorso, ma che per ora non ha intenzione di rifare, come ha ribadito Jerome Powell in una audizione al Senato, dove ha detto che non seguirà i diktat ma deciderà sulla base dei dati economici.[12]
Ma non si tratterebbe “solo” di questo. Il rinculo della globalizzazione[13], per quanto in atto con sempre maggiore forza nell’ultimo decennio, non ha capovolto interamente il funzionamento dell’economia mondiale che essa stessa aveva potentemente contribuito a mettere in piedi. In particolare l’articolazione su scala mondiale della produzione - una delle caratteristiche portanti dell’ultima globalizzazione - ha esaltato l’importanza dei beni, o meglio dei manufatti intermedi che sono indispensabili per giungere al prodotto finito. Soprattutto se lo si vuole di qualità e allo stesso tempo a costi relativamente contenuti. Ciò comporta che la loro importazione è tanto più necessaria quanto più si vorrebbe rendere forte l’esportazione dei prodotti finiti e la loro migliore competitività sul mercato mondiale. In sostanza la aggressività sui dazi può facilmente ritorcersi, o almeno in una parte significativa, su chi la fa.

 
La guerra commerciale è guerra di classe
Tuttavia appare improbabile che Trump, e chi attivamente lo sostiene, sia completamente a digiuno di così elementari nozioni o che addirittura abbia scelto la strada del suicidio economico (e quindi politico). Se non è così, come credo non sia, bisogna introdurre altri elementi per interpretare in modo corretto il comportamento del Trump 2.0.
Due studiosi americani, Matthew C. Klein e Michael Pettis, l’uno lavorando a San Francisco e l’altro a Pechino, ci ricordano una verità che una volta sarebbe stata ritenuta, almeno a sinistra, quasi elementare: le guerre commerciali sono guerre di classe.[14] Il motivo è semplice, quanto il suo esito prevedibile. Gli effetti della globalizzazione hanno aumentato le diseguaglianze all’interno dei singoli paesi. Il caso italiano è addirittura limite, con le retribuzioni che in valore reale sono arretrate nel corso degli ultimi trenta anni. Ma l’accrescersi delle diversità nelle condizioni materiali e reddituali è accaduto un po’ ovunque, sia nei paesi a capitalismo maturo che in quelli emergenti. E questo è stato il trampolino di lancio per arrivare ad una concentrazione di ricchezze che non ha precedenti nella storia. Solo che nella fase crescente della globalizzazione, nella quale la Cina svolgeva la funzione di fabbrica per il mondo, gli Usa potevano acquistare prodotti cinesi a basso costo e di modesta qualità da vendere poi nei magazzini Wall Mart, permettendo alle classi lavoratrici di fare acquisti pur mantenendo bassi i loro salari e i loro livelli di vita.
Ma ora che la Cina compete sui rami alti dello sviluppo tecnologico (dagli autoveicoli con motori elettrici all’intelligenza artificiale) tale sistema non può più essere replicato. La crisi del processo di globalizzazione ha generato il ritorno al protezionismo - e Trump ne è il sacerdote più che il profeta - visto che la competitività sulla qualità e l’innovazione dei prodotti rimane un mantra della (falsa) ideologia del capitalismo, il quale di suo, come sappiamo, tende al monopolio, di cui l’oligopolio è una versione allargata ma spesso transitoria. Quando quelli che dovrebbero essere le vittime di questo processo di centralizzazione economica diventano in grado di competere effettivamente e pure di superare i loro dominatori, la risposta - una volta che il rilancio della domanda e quindi dell’economia attraverso l’estensione del debito pubblico e privato ha generato una crisi economico-finanziaria di dimensioni mondiali - è di tipo difensivo, fondata da un lato sull’elevamento delle barriere doganali e dall’altro sul sempre più pericoloso ricorso alla minaccia e alla generalizzazione dello scontro militare.
In questo quadro la classe che detiene le redini del sistema capitalista - in questo caso statunitense, ma la scena si potrebbe facilmente allargare - non si accontenta più di avere vinto la lotta di classe, come nella celebre analisi di Warren Buffet, ma vuole stravincere, con la brutalità di chi minaccia “guai ai vinti!”; e così la “distruzione creatrice” di Schumpeter affonda in una furia nichilista condotta tenendo in mano le leve del potere politico, oltre che economico.


Le vittime si allargano a popoli interi, specialmente quando si tratta del Sud globale. I dazi sono un fattore potente di ampliamento delle diseguaglianze, perché rafforzando il dollaro[15], che pure non è certamente una condizione favorevole alle esportazioni, fanno crescere anche gli interessi sul debito dei Paesi in via di sviluppo inibendone ogni prospettiva di crescita sociale ed economica. Al contempo, mentre Musk si attiva per organizzare e promuovere l’elusione fiscale da parte delle grandi multinazionali, Trump lo sostiene e agisce per destrutturare in ogni modo, se non per liquidare, ogni forma di organizzazione internazionale che seppure insufficientemente ha cercato di porre qualche freno all’accumulazione predatoria di capitali. Non c’è rispetto per nulla, non per la salute e la vita umana, per non parlare del clima, della terra e del vivente non umano.
Non vedo altro significato, per quante critiche a questi organismi si possono fare, nella prospettata uscita degli Usa dall’Organizzazione mondiale della sanità e nella volontà di sospendere per 90 giorni i finanziamenti agli aiuti allo sviluppo ai Paesi esteri e alle Ong, programmati dalle precedenti amministrazioni americane, fra cui l’Unaids, il programma delle Nazioni unite per l’Hiv e l’Aids. Il tutto con un ordine esecutivo firmato dal Presidente il 20 gennaio 2025, con la scusa di avere il tempo di riesaminare ogni cosa per verificarne la congruità con gli interessi e i presunti valori americani. È chiaro a tutti che viene rimesso in discussione l’obiettivo di salvare oltre 40 milioni di vite umane entro il 2028[16].
Se a tutto ciò aggiungiamo i programmi di rimpatrio forzato dei migranti, i blocchi verso nuovi arrivi (ma già nel Messico dolenti carovane umane si sono messe in cammino per raggiungere lo sbarrato confine con gli Usa), la spettacolarizzazione data alle azioni delle forze dell’ordine al riguardo, si vede che la furia nichilista si nutre di una crudeltà esibita a scopi peggio che intimidatori.

 
Trump e la guerra per procura russo-ucraina
Rispetto alle due principali guerre in corso, quella russo-ucraina e quella che si abbatte sul popolo palestinese l’amministrazione Trump sembra seguire due canovacci diversi. È bene perciò esaminare separatamente i due scenari e poi verificare quali eventuali tratti in comune hanno per quanto riguarda il comportamento americano.
La lunga telefonata fra Trump e Putin, dei cui contenuti si hanno solo delle supposizioni - ma il fatto nuovo era che si parlassero e che venisse esplicitamente confermato, con l’esclusione di Zelensky dall’importante primo contatto, il carattere di guerra per procura del conflitto - e soprattutto le dichiarazioni rese dal segretario della Difesa statunitense Pete Hegseth hanno determinato una svolta nella postura americana. Hegseth, parlando a una riunione del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina a Bruxelles, davanti agli inviati di più di 40 paesi, ha in poche parole riconosciuto il fallimento della politica fin qui perseguita dagli Usa e dalla Ue sul fronte del conflitto russo-ucraino, con due affermazioni molto nette. La prima: “Vogliamo come voi un’Ucraina sovrana e prospera. Ma dobbiamo riconoscere che il ritorno ai confini dell’Ucraina prima del 2014 è un obiettivo illusorio”, il che manda a gambe all’aria tutti i progetti su cui la precedente amministrazione Usa e tuttora la Ue avrebbero voluto impostare le trattative di pace. Del resto che il conflitto russo-ucraino potesse concludersi solo a un tavolo negoziale non era soltanto il punto di vista dei movimenti pacifisti e delle persone di buon senso, ma era stato riconosciuto a chiare lettere già nel novembre del 2022 dallo stesso Capo di Stato Maggiore americano, il generale Mark Milley, convinto che “nessuna delle due parti era in grado di vincere la guerra”. Verso la fine degli anni dieci di questo secolo, sulla base di un’analisi articolata e documentata, John J. Mearsheimer, professore di scienza alla University of Chicago, aveva avvertito il proprio paese a non infilarsi nuovamente in avventure belliche, ma naturalmente non era stato ascoltato.[17] Gli Stati Uniti hanno scatenato sette conflitti dalla fine della guerra fredda e sono continuamente in guerra da poche settimane dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. “La frequenza degli interventi armati americani nel periodo successivo alla ‘guerra fredda’ (1990-2017) si è sestuplicata rispetto al periodo 1798-1989”.[18] Ma neppure la guerra per procura ha ottenuto risultati vantaggiosi per gli Usa.
La seconda affermazione rilevante di Hegseth ci dice che gli Stati Uniti “non credono che l’adesione alla Nato dell’Ucraina sia un risultato realistico di una soluzione negoziata” Ma non si è fermato qui, poiché ha aggiunto che soldati Usa non faranno parte di alcuna missione di peacekeeping, non rientrando nel quadro previsto dall’articolo 5 della Nato, quello che impegna i suoi membri alla difesa collettiva. Lasciando quindi Macron solo nella sua intenzione di inviare truppe sul suolo ucraino.


Infine ha ribadito in modo pubblico che gli stati europei devono aumentare la spesa militare fino al 5% del loro Pil, assumendosi in toto la responsabilità  della difesa con armi convenzionali, poiché  la priorità per gli Usa è l’impegno nell’indo-pacifico per contenere le ambizioni della Cina.[19] Concetto, quest’ultimo, immediatamente ripreso e rilanciato da Samuel Paparo, capo del comando statunitense nell’indo-pacifico, che dalle Haway precisa: “Se avessimo dovuto scegliere il centro di gravità del mondo cento anni fa, sarebbe stato nell’Europa centrorientale. Oggi è nell’indo-pacifico”
Per l’amministrazione Trump è chiara la divisione dei compiti: la Ue deve badare a se stessa e a ciò che accade ai confini dell’Unione entro il continente europeo, mentre gli Usa dichiarano ormai apertamente quale è per loro la posta in gioco: il confronto/scontro con la Cina. Come poi la richiesta di incremento delle spese militari, su cui la von der Leyen è pronta da tempo a consentire, si combini con la minaccia di dazi sulle principali voci di esportazione europea verso gli States è questione che può essere risolta solo nel quadro di una guerra di classe generalizzata, dal momento che la Ue dovrebbe, per fare fronte alle maggiori spese belliche e alle minori entrate dalla vendita di beni oltreatlantico, procedere a ulteriori e drastici tagli allo stato sociale dei paesi membri. Ovvero proseguire in un’austerità di guerra, ancora più acuta, anche qualora andasse in porto la cessazione del conflitto russo-ucraino. Insomma dal sistema di guerra non si esce: questo è in realtà il messaggio che Hegseth ha portato per conto della amministrazione Trump 2. Altro che pace, se la si intende, come si dovrebbe, nella sua dimensione globale.

 
Quale potrebbe essere il ruolo dell’Europa
Ma questi elementi di novità dovrebbero servire da insegnamento alle élite europee. Nel senso che il filoatlantismo ostinato, nel nome di un mitico Occidente, ha meno che mai senso – se mai ne ha avuto uno - in un mondo in cui gli stessi Usa sono pronti a rimettere in discussione a loro vantaggio tutte le intese, politiche e commerciali, a destrutturare, svuotare e abbattere ogni organismo internazionale, a partire dall’Onu e dalle sue diramazioni, nell’intento di invertire la tendenza al declino del “secolo americano”, che però si presenta piena di rischiosissimi colpi di coda.
Sono passati esattamente 50 anni dalla famosa Conferenza di Helsinki del 1975, più volte richiamata negli articoli della nostra rivista come modello, mutatis mutandis, cui potersi ispirare per ricostruire una pace duratura e non un semplice “cessate il fuoco” - comunque auspicabile - tra Russia e Ucraina. In quel caso vi fu un ruolo positivo e propositivo degli stati europei. Da allora l’Europa ha fatto solo passi indietro. La sua protesta per essere stata esclusa dai colloqui fra Usa e Russia a Riad appare persino patetica. Eppure se si vuole evitare che la guerra russo -ucraina si concluda - sempre che ciò avvenga, il che sarebbe già un risultato - non semplicemente alla “coreana”, cioè grosso modo tracciando una linea che separa i fronti bellici laddove sono arrivati, lasciando i due paesi, più che in pace, nella condizione di una sospensione della guerra a tempo indeterminato, bisognerebbe recuperare quello spirito e quella spinta che porti ad un nuovo appuntamento internazionale, sotto l’egida dell’Onu, per affrontare il tema della pace nella sua complessità e globalità. Utopia? Guardando il mondo che abbiamo davanti certamente. Tuttavia necessaria. Anche per dare un ruolo alla Ue, senza il quale il progetto europeo può dirsi morto. E non sono certamente le terapie economico-finanziarie di Draghi, né gli stanchi appelli di Prodi che la potrebbero ricostruire e tantomeno l’insistenza verso la costruzione di un esercito europeo.

 
Trump e il Medioriente
Gli stretti legami che stringono gli Usa a Israele, e viceversa, impediscono a Trump di assumere una postura diversa da quella fin qui seguita nell’area. Non dimentichiamo che il patto di Abramo venne stipulato nella ultima fase della prima presidenza Trump. Quello che accade ora è la continuazione di quella logica, aggravata dalla distruzione di Gaza e dalle mire sulla Cisgiordania. La prima mossa della nuova amministrazione Trump è stata quella di consegnare all’amico Netanyahu un gigantesco pacco-regalo fatto di bombe: le micidiali MK-84, soprannominate Hammer, cioè martello.[20] Non proprio un messaggio di pace.  La trovata di “comprare Gaza” e trasformarla in una riviera popolata di lussuosi resort può apparire bizzarra, ma in realtà corrisponde all’immaginario dei vecchi e nuovi ricchi americani. In questo senso Trump è perfettamente in armonia con il proprio mondo.


Ma soprattutto in quella tormentata area geografica si annodano interessi concretissimi e progetti di grande portata da realizzare dal punto di vista del duo Usa-Israele. Infatti il quadro si fa più chiaro se teniamo conto che l’eliminazione di Hamas, Hezbollah e degli Houthi e lo spostamento addirittura del superstite popolo palestinese sono funzionali a “bonificare” il terreno, con un bagno di sangue e con un nuovo esilio forzato, per il passaggio del Corridoio Economico India-Medioriente-Europa (Imeec), una rete multimodale di migliaia di chilometri che partendo dai porti indiani, passando per quelli emiratini e sauditi, vuole culminare al porto israeliano di Haifa, facendone  il potenziale hub per l’intero Mediterraneo. Il progetto si basa su un protocollo d’intesa, firmato in occasione del G20 tenutosi a Nuova Dehli nei primi di settembre del 2023, fra India, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Ue e Usa, Germania, Francia e Italia.
Si tratta di un progetto ambizioso, ma molto importante nella strategia mondiale statunitense sotto il profilo geoeconomico e geopolitico, che mira a più obiettivi contemporaneamente. Tra questi: ricostruire le catene di creazione e trasmissione del valore interrotte dalla crisi della globalizzazione; bypassare il canale di Suez che, per diverse ragioni, e malgrado il suo raddoppio, non ha offerto negli ultimi tempi sicurezza e facile scorribilità ai mezzi che l’hanno percorso, il che comporterebbe un ridimensionamento dell’Egitto e una potenziata centralità dei paesi del Golfo, non a caso coccolati da Trump;  soprattutto farne un percorso alternativo alla Nuova Via della Seta progettata dai cinesi; cogliere nel contempo l’occasione di approfondire la competitività fra India e Cina, tirando la prima nel proprio campo di influenza, spezzando così la tendenziale comunanza di interessi tra i Brics.


Ma perché i disegni americani sul Medioriente vadano in porto è necessario non solo isolare l’Iran, neutralizzando ad uno ad uno i suoi alleati - vedi Siria - ma colpire Teheran al cuore. A questo, in ultima analisi, serve il potente e ulteriore riarmo di Israele. Del resto l’aviazione israeliana ha già attaccato l’Iran nell’ottobre scorso. Pare che gli obiettivi fossero noti agli stessi iraniani. Sta di fatto che probabilmente si è trattato di un assaggio preliminare che comunque mal depone su quello che ci dobbiamo aspettare. Da lì potrebbe nascere uno scontro di proporzioni e di intensità ancora maggiori delle guerre cui abbiamo assistito in questi mesi.
È questo il sistema di guerra che Trump mira a costruire, capace di concentrarsi ora su uno ora su un altro fronte, quando non contemporaneamente, ovvero, per usare il linguaggio di papa Francesco, quando i pezzetti della guerra mondiale si congiungono tra loro, come in un orrendo puzzle. A tutto ciò è funzionale la creazione di un senso comune nel quale lo stato di guerra venga inteso come inevitabile e permanente. E nessun paese che è interno a un sistema di guerra salvaguardia democrazia e diritti al proprio interno, come si vede anche nel caso italiano.  La guerra infinita, quindi, che si contrappone alla kantiana pace perpetua. Questa è la nuova dimensione della modernità.


L’innovazione tecnologica finalizzata a scopi bellici e spionistici
L’innovazione tecnologica è tutt’altro che estranea a questo clima e a questi progetti. Anzi ne è uno dei supporti principali. Infrastrutture, droni e altre armi autonome e sistemi basati sulla Intelligenza artificiale sono la nuova frontiera su cui si gioca l’accrescimento della capacità e della potenza belliche. Come è stato giustamente osservato l’innovazione tecnologica nei decenni scorsi muoveva e si affermava sperimentando i suoi prodotti, prima in ambito militare per poi trasferirsi con diversissimi usi in ambito civile. È noto il percorso di Internet, nata come Arpanet per scopi militari. Il tragitto ora si è invertito: il digitale civile viene convertito o comunque usato largamente in ambito militare. Come si è visto nelle due principali guerre cui stiamo assistendo. L’esempio della rete Starlink di Elon Musk è illuminante. Grazie ai suoi satelliti questo sistema non ha eguali. Quando nello scontro bellico i sistemi di comunicazione tradizionali fra soldati e fra questi e le armi autonome vengono interrotti, Starlink rimane l’unica risorsa. Chi la possiede e la controlla ha in mano non solo una via di arricchimento ma le sorti di vite umane, prevalentemente civili. Lo spostamento dell’asse politico di Silicon Valley è insieme causa ed effetto di questo nuovo e massiccio impiego della tecnologia digitale nella guerra moderna. [21]
Su questo stretto nesso, oltre che sulla ricchezza che ne deriva, si fonda il rapporto tra Musk e Trump. Un nuovo collante che tiene insieme un blocco di destra che lascia alle proprie spalle la vecchia tradizionale destra conservatrice. La stessa trasformazione del Partito repubblicano statunitense, il vecchio Gop, non avrebbe avuto una forza così travolgente senza queste solide basi materiali. Ed è un modello che ha preso piede anche in Europa, con la crescita delle forze di estrema destra e con un generale spostamento verso una “radicalità di destra” del fronte conservatore.


Lo storico americano Timothy Snyder prende sul serio la minaccia rappresentata da Elon Musk e denuncia che è in corso un colpo di Stato. Così lo descrive, senza armi, aerei e cannoni neppure in versione moderna. Non ve ne sarebbe alcun bisogno:Ora immaginate che la scena sia questa: una ventina di ragazzi in abiti civili e armati solo di chiavette usb va da un ufficio del governo all’altro. Usando un gergo tecnico e facendo vaghi riferimenti a ordini dall’alto, ottengono l’accesso ai sistemi informatici del governo federale statunitense. Fatto questo, concedono al loro leader supremo l’accesso alle informazioni e il potere di avviare e interrompere tutti i pagamenti gestiti dal governo… Quello che stanno facendo Elon Musk e i suoi seguaci è un colpo di stato perché queste persone non hanno alcun diritto di prendere il potere. L’imprenditore di origine sudafricana non è stato eletto per nessuna carica e non c’è carica che gli darebbe l’autorità di fare quello che sta facendo. È tutto illegale. È un colpo di stato voluto, tra l’altro, con l’obiettivo di annullare la democrazia e violare i diritti umani.”[22]
Accanto alla digitalizzazione della guerra, si potrebbe dire, avanza la digitalizzazione del monopolio della forza da parte dello stato e, conseguentemente, lo svuotamento della costruzione istituzionale che lo regge. La democrazia già ripudiata dal capitalismo a partire dagli anni ’80 del secolo passato, perde non solo la sua sostanza, ma anche la sua crisalide formale. Per questo la fusione dei due nomi in Trusk non è solo un gioco linguistico ma descrive in modo iper sintetico lo stato delle cose.
 

L’internazionale nera e il binomio Trump-Musk
È certamente opportuno interrogarsi se questa convergenza di interessi sarà solida e duratura. Steve Bannon, l’ideologo della nuova internazionale nera che si è data appuntamento a Washington, nella forma di un simposio mondiale dei conservatori - la Conservative Political Action Conference (Cpac) - al quale dovrebbe partecipare  anche Giorgia Meloni, sembra vedere il rapporto con l’ala tecnocratica di Musk più problematico di quanto le comparizioni entusiastiche di quest’ultimo, prima e subito dopo la campagna elettorale del tycoon, vogliono fare credere.[23]  “Musk va tenuto d’occhio - dice Bannon - perché ha interessi personali che vanno oltre gli obiettivi del movimento Maga e della stessa Amministrazione. Però finché ci aiuta, può tornare utile… Credo che il presidente lo stia usando per demolire lo stato amministrativo”, cioè quello che per Timothy Snyder, come abbiamo detto prima, è un colpo di stato eseguito con metodi soft ma con conseguenze liberticide e autoritarie micidiali. Che poi sia Trump a usare Musk e non viceversa è tutto da vedere, anche se è prematuro fare delle previsioni, salvo ricordare che Trump ha davanti a sé quattro anni - a meno di un colpo di stato strong - mentre il tempo e il percorso di Musk non sono sottoposti a limiti che non siano quelli biologici del personaggio.
È certamente troppo presto per avanzare previsioni. Tuttavia è possibile immaginare che i consistenti interessi che Musk ha in Cina - il mercato cinese è il secondo più grande per Tesla, la sua creatura automobilistica e la gigafactory di Shangai, impiantata nel 2019, è diventata il centro di produzione maggiore dell’impresa, comportando però una competizione crescente fra Tesla e la cinese Byd - possano entrare in rotta di collisione con i disegni neo-imperiali di Trump e il suo crescente conflitto nell’indo-pacifico. La partita è tutt’altro che chiusa. Anzi siamo appena entrati in una nuova fase del cangiante percorso del capitalismo, ove, a guardare bene, Trump non sta facendo altro che portare a compimento, o quantomeno a uno stadio successivo, tendenze e mosse che già stavano nella pancia del capitalismo Usa, anche quando erano gli impalliditi liberal sulla presunta plancia di comando.

 
La lotta per la pace e le prospettive per la sinistra
Avere a che fare con una oligarchia tecnocratica che si pone a capo di un sistema di guerra a livello mondiale, pone a movimenti e formazioni politiche problematiche forse in sé non tutte nuove, ma certamente abbandonate o quantomeno trascurate da tempo o ancora da affrontare. È difficile pensare a un rilancio di un movimento internazionale per la pace che non consideri la sua difesa come un tutt’uno, pronto a muoversi rispetto ad ogni vecchio o nuovo focolaio di guerra e nello stesso tempo cogliendo i nessi che legano l’uno agli altri. La pace non è indivisibile, non è sezionabile.
Nel contempo la lotta per la pace non può neppure per un attimo prescindere da quella nel campo delle scelte economiche e del modello di sviluppo, a livello nazionale come a quello internazionale, a cominciare dall’Europa dove siamo. Il che richiede non solo una rinnovata attenzione analitica alle trasformazioni e alle mosse in atto del capitale, ma uno scontro, culturale e pratico, sui segmenti più alti dello sviluppo tecnologico in tutti i suoi aspetti. Sottovalutare le linee di sviluppo o di involuzione che può assumere la intelligenza artificiale sarebbe letale per la ricostruzione della sinistra.


In questo quadro un alleato può essere trovato nei Brics, la cui natura come ben sappiamo è fin troppo disomogenea, ma i cui concreti atti dimostrano la possibilità, anche in campo tecnologico, di non concepire questa lotta solo in termini culturali. L’esperienza di DeepSeek, la società cinese di intelligenza artificiale che sviluppa modelli linguistici di grandi dimensioni in open source, capace di competere per qualità e costi con ChatGPT ne è un esempio; tanto più che il modello di intelligenza artificiale è stato sviluppato da DeepSeek nel mezzo delle sanzioni degli Stati Uniti alla Cina (per i chip Nvidia), che avevano lo scopo di limitare la capacità del paese di sviluppare sistemi di intelligenza artificiale avanzati, ottenendo invece il risultato opposto. Le sanzioni comminate dall’Occidente, la versione bellica delle guerre commerciali, hanno in realtà spinto chi ne era vittima a trovare soluzioni innovative persino insperate.
Inoltre le mosse ancora timide dei Brics, o meglio di alcuni importanti paesi tra questi, come il Brasile, di intavolare scambi commerciali attraverso le loro monete senza passare per il dollaro, rappresentano, e perciò sono temute osteggiate dagli Usa, un passo importante in un processo di dedolarizzazione che potrebbe portare a una moneta internazionale unica non legata alla potenza di questa o quella nazione, attualizzando il progetto keynesiano che uscì sconfitto a Bretton Woods nel luglio del 1944.


La resistenza di fronte all’involuzione autoritaria nel sistema di guerra creato è decisiva e propedeutica a qualunque progetto di rinascita della sinistra. Come ha scritto Bernie Sanders ai suoi sostenitori: “In questi tempi difficili la disperazione non è un’opzione. Dobbiamo reagire in ogni modo possibile”[24] Purtroppo, in particolare per quanto riguarda il quadro europeo, e quello italiano è tra i peggiori da questo punto di vista, la ricostruzione di un pensiero e di una forza di sinistra è un progetto inesistente o molto arretrato.
Tuttavia, o meglio proprio per questo, quando si avverte un segnale positivo in questa direzione è bene prestarvi la massima intenzione. È il caso di alcune novità che ci vengono dalla Germania, alla vigilia delle elezioni politiche. La Linke, l’organizzazione della sinistra di alternativa che aveva subito una pesante scissione ad opera di Sarah Wagenknecht ed era precipitata a gennaio attorno a valori del 3% nei sondaggi, ha visto risalire le proprie quotazioni sopra lo sbarramento del 5%. Ma la cosa più importante è che, grazie alla spinta della sua attivissima segretaria Heidi Reichinnek, che reca sul braccio sinistro il viso tatuato di Rosa Luxemburg, vi è stato un enorme balzo in avanti negli iscritti con una fortissima presenza giovanile[25]. Frutto del loro lavoro contro la destra filonazista, ma anche contro le pulsioni “rossobruniste” della Wagenknecht, e della mobilitazione capillare, porta a porta, che ha trasformato una campagna elettorale in un contatto diretto con le persone. Ed è così che possono rinascere, attualizzandosi e rinnovandosi, i valori e le modalità d’azione di una sinistra anticapitalista. Questo significa non cedere alla disperazione, come dice Bernie Sanders.
 
B. Sanders
 
Note
 
1. Il riferimento d’obbligo è a Ernesto Laclau La ragione populista, Laterza, Bari-Roma 2019
 
2. Per un approfondimento del tema, tra la tanta letteratura comparsa, si veda lo studio di Pasquale Serra Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, Castelvecchi, Roma 2018
 
3. Vedi Laura Pennacchi “Trump e Musk. La religione dei tecno-nichilisti” in il manifesto del 8 febbraio 2025
 
4. Vedi AA.VV. Problemi del nichilismo, a cura di Claudio Magris e Wolfgang Kaempfer, Shakespeare and Company, Milano 1981
 
5. Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri. Laterza, Bari-Roma, 1981
 
6. Vedi Valerio Draco “Cosa rende il Bitcoin un bene scarso, cosa gli dà valore?” in Cripto.it https://www.crypto.it/2023/07/16/cosa-rende-bitcoin-un-bene-scarso-cosa-gli-da-valore/
 
7. “Il senatore statunitense Bill Hagerty mette sul piatto una nuova regolamentazione stablecoin: Usdt e Usdc sotto il controllo della Fed” The Cryptonomist del 5 febbraio 2025; https://cryptonomist.ch/2025/02/05/bill-hagerty-nuova-regolamentazione-stablecoin-usa/
 
8. World Liberty Financial è un protocollo di finanza decentralizzata fondato nel 2024. Il titolo aziendale di Donald Trump è “capo sostenitore delle criptovalute”, Barron Trump è elencato come il “visionario della DeFi” del progetto ed Eric Trump e Donald Trump Jr. hanno ciascuno il titolo di “ambasciatore Web3”.
 
9. Vedi Charles Kindelberger Storia della finanza nell’Europa occidentale, Laterza, Bari-Roma, 1981 e anche, dello stesso autore Euforia e panico. Storia delle crisi finanziarie, Laterza, Bari-Roma 1987
 
10. Catherine McGrath “La World Liberty Financial di Donald Trump vuole lanciare una stablecoin” 29 ottobre 2024 ora in Fortune Italia;  https://www.fortuneita.com/2024/10/29/liniziativa-crypto-di-donald-trump-vuole-lanciare-una-stablecoin/
 
11 Vedi Rosaria Amato “Quanto ci costa il muro di Trump” in Affari&Finanza del 10 febbraio 2025   
                                                                                  
 
13. Tra le tante analisi del fenomeno, a cui questa rivista ha sempre prestato grande attenzione con diversi articoli, si veda la recente traduzione italiana del libro, anche se viziato da un eccesso di ottimismo sulle prossime fortune di un ritorno al “localismo”, della vicedirettrice del Financial Times Rana Foroohar La globalizzazione è finita. La via locale alla prosperità in un mondo post-globale, Fazi editore, Roma 2025
 
14. Matthew C. Klein, Michael Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come le crescenti disuguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einaudi, Torino 2021
 
15. Si veda ad esempio: “Il dollaro si rafforza sui nuovi dazi di Trump” in Milano Finanza
 del 10 febbraio 2025.   

16. Vedi Barbara Gobbi “L’addio degli Stati Uniti all’Oms e le conseguenze globali: rischi e la partita Usa-Cina” ne: Il Sole 24 Ore del 4 febbraio 2025 e Giulia Valeria Calvino “Cosa succede se si fermano i Fondi per la risposta globale a Hiv/Aids” in Huffpost del 5 febbraio 2025

 
17. Vedi John J. Mearsheimer La grande illusione. Perché la democrazia liberale non piò cambiare il mondo, introduzione di Raffaele Marchetti, Luiss University Press, Roma 2019
 
18. La frase è tratta dalla introduzione di Raffaele Marchetti al libro di Mearsheimer cit.
 
19. Jorge Liboreiro “Ucraina, segretario alla Difesa Usa Hegseth: confini pre-2014 e adesione Nato obiettivi irrealistici” EuroNews del 12 febbraio 2025; https://it.euronews.com/my-europe/2025/02/12/ucraina-segretario-difesa-usa-hegseth-confini-pre-2014-e-adesione-alla-nato-obiettivi-irre
 
20. Vedi l’articolo di Alberto Negri “Cosa c’è dietro il piano di Trump per Gaza” in questo stesso numero della rivista, pp.
 
21. Su questi argomenti vedi Michele Mezza Connessi a morte. Guerra, media e democrazia nella società cybersecurity”, Donzelli, Roma 2024; nonché, dello stesso autore “La guerra al tempo della cybersecurity” in Alternative per il Socialismo  n.74, ottobre-dicembre 2024, ed anche Giulio De Petra La digitalizzazione della guerra, intervento all’iniziativa “Guerra e tecnologie: il complesso digitale militare” tenutasi il 20.1.2025 a Roma, pubblicato l’8,2.25 nella Newsletter del Centro Riforma dello Stato: https://centroriformastato.it/la-digitalizzazione-della-guerra/
 
22. Timothy Snyder “A Washington è in corso un colpo di stato” in Internazionale n.1601, 14-20 febbraio 2025; https://www.internazionale.it/magazine/timothy-snyder/2025/02/13/a-washington-e-in-corso-un-colpo-di-stato
 
23. Vedi Paolo Mastrolilli, intervista a Bannon “Ma con Weidel il Maga vincerà a Berlino e poi l’Europa sarà nostra” in cui l’ideologo nero spiega la strategia di conquistare alla destra uno per uno gli stati europei

24. Il testo della lettera è pubblicato nella Newsletter del Centro Riforma dello Stato del 15 febbraio 2025
 
25. Vedi Tonia Mastrobuoni “Germania, verso un governo a tre, la rinascita della Linke frena l’Afd” in la Repubblica del 20 febbraio 2025.
 

 

  

 

 

 

 

 

 
 

  

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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