ANCORA SU PARIGI E SULLE PERIFERIE DEL MONDO.
Elogio del silenzio, con una postilla su Pier Paolo Pasolini
di Giorgio Riolo
Nel gennaio scorso, dopo i fatti di
Charlie Hebdo, richiamavo, in un breve intervento, la sacrosanta definizione
data da Judith Butler, filosofa e attivista femminista americana, sulla diversa
modulazione della indignazione, del dolore, della compassione, a seconda che le
vittime fossero a Parigi o in qualche posto del mondo, fuori dall'Occidente.
Lei parlava di “indignazione ineguale”.
Noi dobbiamo pacatamente
osservare oggi che forse occorrerebbe stare zitti, praticare saggiamente il
silenzio. I chierici contemporanei, giornalisti, politici di professione,
sedicenti intellettuali, officiano ogni giorno nei talk show, nel circo mediatico.
Ci spiegano, ci turlupinano, ci confondono le menti. Ci chiamano alla guerra,
si adoperano per arruolarci. Con le dovute eccezioni, dal loro lato, e con le
dovute eccezioni, nel farci manipolare e turlupinare, dal lato nostro. No,
grazie.
Molta controinformazione, molta
analisi seria, molto giornalismo serio esistono, per fortuna, in Italia e nel
mondo, e pertanto non occorre ripetere a oltranza o dire la propria, a mo' di
pisciatine animali per marcare il territorio.
Modestamente vorrei fare qui solo
alcune considerazioni, al solo fine di portare qualche contributo in più alle
pregevoli analisi e alla controinformazione di cui sopra.
In primo luogo, l'eterno,
inveterato, granitico eurocentrismo. La macelleria storica è enorme. La guerra
esiste da sempre, addirittura da secoli, nella “zona delle tempeste”, nei vari
angoli del mondo. Il colonialismo e l'imperialismo ne hanno prodotte e ne
producono su scala industriale. Ma non ci toccano. Pensiamo solo a come Francia
e Inghilterra sistemarono, a inizio Novecento, disegnando a tavolino, con
righello e matita, i confini di paesi e di aree nella loro spartizione
dell'ormai in agonia Impero Ottomano. Una sistemazione foriera di guerre e di
lutti.
La guerra in atto oggi fa vittime
in Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen e via elencando. Nessun minuto di
silenzio, per rimanere ai recentissimi massacri, a ridosso del massacro di
Parigi, per le povere donne yazide schiavizzate, stuprate e uccise (l'ultima
fossa comune trovata dai curdi liberatori nella Sinjar liberata dai jihadisti
dell'Is), per i 224 russi nell'aereo fatto precipitare, per i 43 morti e i 239
feriti libanesi sciiti di Beirut per le autobombe dello Is, per i tanti
yemeniti uccisi dai bombardamenti fatti da quel grazioso paese di gentiluomini
che è l'Arabia Saudita. Quella Arabia Saudita fonte primaria di questa storia.
Culla del wahhabismo, fucina del moderno salafismo, all'origine dei
fondamentalismi sunniti. La petromonarchia assolutista, al pari di Qatar e
paesi del Golfo, e al pari della Turchia, anch'essi coinvolti in questa
vicenda, amica dell'Occidente e finanziatrice dei vari mostri, dalla prima
Al-Qaida in Afghanistan all'odierno Stato Islamico.
È probabile che tra i fischi
nello stadio turco, nel minuto di silenzio, molti di questi fischi fossero di
nazionalisti turchi filo Is, ma moltissimi sicuramente di gente di quelle parti
del mondo che giustamente non sopportano l'indignazione ineguale, la gerarchia
mondiale della sofferenza e della pietà. E dei minuti di silenzio. La riparazione
storica di questo torto della gerarchia mondiale della pietà ci obbligherebbe,
qualora dovessimo riparare qui in Occidente, a fare giornate, settimane di
silenzio.
Si diceva Afghanistan. Un piccolo
richiamo, per rifarci i fondamentali, a quel crogiolo di tagliagole tribali,
lapidatori di donne e di ragazze non osservanti le loro turpi norme
consuetudinarie, sempre in lotta tra loro. Lo sciagurato intervento dell'Urss
nel 1979 fece il miracolo di unirli, di coalizzarli, di richiamare altri
tagliagole provenienti dal mondo islamico e arabo, i famosi, e venerati in
Occidente, mujahidin. I quali poi torneranno, dopo il ritiro sovietico
del 1989, nei paesi di origine, chiamati “afghani”, a tagliare gole, in
Algeria, in Bosnia, in Kosovo, in Cecenia, in ogni dove. Tutti “combattenti
della libertà”, foraggiati e armati da Usa e Occidente e dall'internazionale
sunnita, a guida Arabia Saudita, attraverso il fidato alleato Pakistan.
Un piccolo episodio emblematico,
solo sempre per non dimenticare. All'inizio dell'intervento sovietico, Zbigniew Brzezinski, allora consigliere per la sicurezza
nazionale del presidente Carter, incontrò i capi tribali afghani in Pakistan e
alla fine dell'incontro, mettendosi in testa un turbante, disse “Siamo tutti
mussulmani”. Osama Bin Laden era in quella internazionale sunnita combattente
in Afghanistan e lì creò il primo nucleo di Al-Qaida. Cose, queste ultime, di
Bin Laden e di Al-Qaida, sapute e risapute. L'uso inveterato di questi
strumenti, pericolosi da maneggiare anche da parte di chi ne vuole beneficiare,
è costante nella storia del colonialismo e dell'imperialismo. Degli Usa in
particolare. I famosi “apprendisti stregoni”, di cui parlammo nel precedente
intervento.
Allora, calma ragazzi. Prima si
creano gli orrori, in primo luogo la manomissione di equilibri, precari sì,
anche sotto l'egida di dittature, ma equilibri comunque, tra etnie, religioni,
tribù, clan ecc., con le milionate di morti in Iraq, in Afghanistan, in Libia,
in Siria. Si creano anche le condizioni della distruzione di patrimoni storici
e artistici di inestimabile valore, come in Iraq e Siria, e poi ci si vuole
tutti arruolati. Si tratta invece di aiutare, e non di ostacolare o di
boicottare, chi realmente combatte, anche con coraggio e valore, lo Is, i
curdi, gli iraniani, gli hezbollah, i russi, l'esercito siriano.
La postilla su Pasolini non è
fuori luogo. Come sempre in queste cose, come il terrorismo, la chiamata alla
guerra di civiltà e di religione, la paura, diffusa a piene mani, di invasione
di pretese orde di migranti ecc. occorre mobilitazione, azione politica, di
movimento, di società civile. Ma occorre in primo luogo lucidità, coscienza
critica, autonomia di pensiero. Nell'epoca della strabordante capacità dei
dominanti, attraverso il consumismo, attraverso i loro potenti strumenti
culturali e massmediatici, di influenzare, di operare la mortale manipolazione
culturale e antropologica.
È stato un bene il ricordare
degnamente, nel quarantesimo dell'assassinio, una figura così importante come
Pasolini. Coscienza critica della cultura e della politica italiane, come
Leonardo Sciascia e pochi altri nella storia nostra recente. Ma il problema
risiede nel fatto che non si ricordi Pasolini solo in un anniversario. Passato
il quale tutto torna come prima. Si tratta invece di riprendere e fare propria
la sua lezione. Ogni giorno, nella quotidianità. Il lavoro intellettuale che
rischia, che fatica (mai comunque come il contraltare del lavoro manuale o,
peggio, del nessun lavoro), che ricerca, che non si autocompiace
narcisisticamente, che generosamente si metta in gioco e abbandoni i salotti,
il circo mediatico, l'essere chierici al servizio dei dominanti. Il lavoro intellettuale, insomma, nella sua
nobile e popolare importanza. Così è, pensando a Pasolini, nostro
contemporaneo, “confortatore e combattitore” (Francesco De Sanctis, riferito a
Leopardi, morto giovane, per i giovani delle barricate delle rivoluzioni del
1848).
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