PIER PAOLO PASOLINI: A 40 ANNI DALLA SUA
MORTE
Un intellettuale contro il potere
di
Angelo Gaccione
Copertina del numero monografico di "Capoverso" dedicato al poeta bolognese per ricordare i 40 anni della sua scomparsa |
Per
meglio inquadrare la virulenta battaglia civile e culturale ingaggiata contro i
vari poteri dominanti della nazione da parte di uno scrittore irregolare (corsaro) come Pier Paolo Pasolini,
occorre partire da alcune date ed eventi cruciali della recente storia italiana:
12 dicembre 19 69,
strage di piazza Fontana a Milano e tentativo di golpe; 22 luglio 1970 , carica
esplosiva sui binari del Treno del Sole a Gioia Tauro ad opera di neofascisti, ’ndrangheta
e ambienti militari; 26
settembre 1970 , strage di 5 anarchici calabresi a Ferentino. Per
chi avesse poca memoria di questi ultimi eventi, diciamo subito che
sull’attentato al treno a Gioia Tauro, erano stati proprio gli anarchici calabresi
(Gianni Aricò, 22 anni, di Reggio Calabria; Annalise Borth, 18 anni, tedesca,
moglie di Aricò; Angelo Casile, 20 anni e Franco Scordo, 18 anni, anche loro di
Reggio Calabria; Luigi Lo Celso, 26 anni, di Cosenza) a fare una
controinchiesta e a predisporre un dossier ben documentato da consegnare alla
redazione di Roma, del settimanale anarchico “Umanità Nova” e all’avvocato
Edoardo Di Giovanni, uno degli estensori del libro collettivo La strage di stato (1).
La strage di cui furono
vittime i 5 anarchici della mia regione (uno della mia stessa città di
nascita), procurò provvidenzialmente la sparizione dei loro documenti e impedì
che arrivassero a Roma (2).
La strategia stragista del
potere non si interromperà neppure negli anni successi, e nel 1974 ben due
carneficine insanguineranno Brescia e San Benedetto Val di Sambro (Bologna),
gettando in un’atmosfera cupa e livida l’intera nazione. È nel clima cupo e
stragista di quello stesso 1974 che matura l’indignazione viscerale di
Pasolini. Con un memorabile articolo apparso il 14 novembre sul quotidiano
milanese “Corriere della Sera” dal titolo “Che cos’è questo golpe?” (3),
Pier Paolo Pasolini, sicuramente lo scrittore italiano più noto del momento sul
piano internazionale, lancia il suo “j’accuse”
all’intera classe politica italiana e al suo establishment.
È lo scritto più radicale
e tagliente che uno scrittore super celebre, appartenente di fatto all’élite intellettuale della cultura
italiana, abbia mai concepito negli anni Settanta e osato pubblicare su un
quotidiano moderato e filo governativo come questo. Vediamone uno stralcio
significativo.
“Io so. Io so i nomi dei
responsabili di quello che viene chiamato golpe
(e che in realtà è una serie di golpes istituitasi
a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage
di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di
Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.Io so i nomi del “vertice” che ha
manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia
infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi
che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una
prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia
e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia
(e in second’ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato
(del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968,
e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono
ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum.
Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni
e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di
riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani
neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione
anticomunista) e infine a criminali comuni, fino a questo momento, e forse per
sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i
nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici
come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a
Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e
puramente organizzativi come il generale Miceli. Io so i nomi delle persone
serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le
suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono
messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti
i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io
so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un
intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di
conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o
che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi
disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il
mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere
[…]”.
Per trovare una radicalità
così accentuata, bisogna sfogliare gli organi di stampa della sinistra
extraparlamentare marxista o quelli anarchici. Naturalmente prima dell’atto di
accusa di Pasolini, c’erano state controinchieste pubblicate in volumi come la
citata La strage di stato presso gli editori Samonà e Savelli (giugno del 1970) e
come Pinelli una finestra sulla strage di Camilla Cederna, uscito da Feltrinelli
l’anno successivo, ma nessuno scrittore o letterato aveva preso una posizione
pubblica così decisa e perentoria come il poeta bolognese-friulano. Possiamo
immaginarci le facce dei lettori perbenisti del “Corriere”, dei suoi
proprietari, dei redattori responsabili, degli uomini politici dell’area
moderata, dei vertici del Pci, degli intellettuali pavidi e opportunisti, e
dell’intero corpus di potere della nazione. Un terremoto.
Non che queste idee
fossero nuove o originali, ma nessuno, in ambito letterario ufficiale, le aveva
espresse con tale lucidità, coraggio, consapevolezza. Il monito agli ambienti
della cultura disimpegnati e indifferenti è fortissimo: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore”. È nell’essenza
stessa di questo mestiere, dunque, che deve risiedere la consapevolezza, la
ricerca dei fatti e la voglia di sapere per prendere posizione, per stare dalla
parte della verità e di chi non ha voce, come aveva scritto Camus. Sempre Camus
ha scritto che per agire l’uomo deve parlare; e chi ha la parola nelle società
moderne se non l’intellettuale? È lui che con la sua parola può riempire lo spazio
pubblico, può renderlo vivo, guardingo, accorto, contro le malefatte del
potere. Non è altro che questo che intende segnalare Pasolini ai suoi
interlocutori quando scrive: “Tutto
questo fa parte del mio mestiere”. E assumendosi in prima persona questo
ruolo di sentinella vigile contro le trame barbare del potere, contro le
mutazioni antropologiche, il consumismo empio, le ferite al paesaggio, il
pericolo dell’omologazione linguistica e comportamentale, le devastazioni del
territorio, l’edonismo piccolo borghese che tenta di livellare i ceti e le classi
riducendo gli individui ad un’unica massa indistinta di consumatori, egli
rimette ancora una volta al centro il ruolo importante della critica intellettuale,
e conferisce nobiltà al ruolo dello scrittore. Un vero scrittore, un
intellettuale, non può abdicare a questo suo ruolo primario. Deve assumersene
l’onere, anche a costo di rischiare la solitudine, il dileggio,
l’incomprensione e spesso la condanna.
Nel percorso accidentato
di critico sociale e politico, Pasolini sperimenterà sulla sua persona tutte queste
condizioni qui enumerate. Sarà avversato, frainteso, insultato, dileggiato,
deriso, perseguito, lasciato solo. E non solamente dai suoi avversari, ma anche
e soprattutto dai suoi sodali di penna, dai suoi amici intellettuali, dagli
ambienti comunisti e del Pci a cui resterà sempre legato, nonostante la sua avversione
del potere, (di tutti i poteri), il suo anticonformismo, la libertà di scelte,
la sua radicalità intellettuale, ne facciano più uno spirito anarchico che un
osservante marxista. Chi va a rileggersi gli articoli contenuti in Scritti corsari e Lettere luterane, rimarrà volta a volta sorpreso delle sue prese di
posizioni, delle battaglie che mette al centro della sua riflessione, del
sostegno incondizionato quando ne è intimamente convinto, e dell’altrettanta
incondizionata avversione quando la sua visione fortemente umanistica (nel
senso profondo di umano, di umanità) ne scorge i pericoli che vi sono insiti.
Sarà così sul referendum per il divorzio e sarà così sulla drammatica scelta
dell’aborto; sarà così sulla contestazione giovanile e sarà così sulla retorica
dell’antifascismo; sarà così sulla scomparsa del mondo contadino e lo sarà
sulla funzione deleteria della televisione che accusa di genocidio culturale;
sarà così sull’invadenza pervasiva del neocapitalismo, dell’industrializzazione
selvaggia e sull’infatuazione acritica del concetto di sviluppo e progresso.
Sono prese di posizioni senza tentennamenti, manichee, perentorie, dovute ad una
onestà intellettuale fuori del comune, ad un sentire profondo, mai superficiale
o banale e che obbligano a interrogarsi, a collocarsi da un’altra prospettiva.
Si può essere in disaccordo con alcune delle sue tesi, ma non è possibile
cavarsela a buon mercato e senza fare i conti con le ragioni che le motivano. I
suoi concetti aprono ad altre visioni, fanno germinare un’altra infinità di
concetti: quello che lui afferma o difende caparbiamente, si è sostanziato in
lui, prima che come dato culturale o intellettuale, come sentire carnale,
fisico, ontologicamente biologico. Chi lo ha criticato o avversato, non si è
mai posto sul terreno vero su cui avrebbe dovuto misurarsi; ha alterato la
scena dello scontro, falsificato l’arena dell’agone, e lo ha fatalmente frainteso.
Quanto alle contraddizioni di uno scrittore che ha osato scrivere parole come
queste : “ (…) quanto a me sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola” (4), io sono disposto a perdonare tutto.
Il potere nelle sue varie stratificazioni
si configura come omertoso; di questo Pasolini è consapevole. Ma lo sono anche
quei corpi che gli sono più contigui: giornalisti e partiti politici di
sinistra. Pasolini non fa sconti né alla stampa, né agli alti dirigenti del
Pci.
“ […] i giornalisti e i
politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i
nomi.
Ora, perché neanche gli
uomini politici dell’opposizione, se hanno -come probabilmente hanno- prove o
almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei
comici golpes e delle spaventose
stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui
distinguono -a differenza di quanto farebbe un intellettuale- verità politica
da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di
prove e indizi l’intellettuale non funzionario”.
A questo punto il compito
non può che trasferirsi all’intellettuale libero, “non funzionario”, non
compromesso con la pratica del potere e che dunque, non ha nulla da perdere. Ma
proprio perché non compromesso col potere egli è impossibilitato a conoscere i
fatti, gli intrighi. Per poterne venire a conoscenza dovrebbe rinunciare a
questa distanza e compromettersi con esso. Ma a Pasolini questa ipotesi ripugna,
perché il coraggio dell’intellettuale libero e non compromesso, gli deriva
proprio da questa separatezza.
“A chi dunque compete fare
questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma,
insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per
definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale. Un intellettuale dunque
potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né
indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti
pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi -proprio per il modo in
cui è fatto- dalla possibilità di avere prove ed indizi. Mi si potrebbe
obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie,
potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al
potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere,
con una certa alta probabilità, prove ed indizi. Ma a tale obiezione io
risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare
in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio
intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi”.
Parlare, fare i nomi e non
avere niente da perdere: ecco cosa spaventa il potere. Potere che, come aveva
scritto con spavalda impudenza Giulio Andreotti, in un articolo di risposta
sullo stesso quotidiano per replicare alle accuse dello scrittore contro la
Democrazia Cristiana, “ha osato oltre
ogni limite”. In quell’articolo le frasi di Andreotti sulla gestione del
potere hanno un suono sinistro e inquietante: “…quando il potere ha osato oltre ogni limite, non lo si può mutare,
bisogna accettarlo così com’è” (il corsivo è mio).
Se dunque il potere si è
spinto “oltre ogni limite” compiendo qualcosa di innominabile (le stragi), ecco
che processarlo pubblicamente diviene una necessità inderogabile, prima che un
obbligo morale. È così che con il durissimo scritto del 24 agosto 1975
intitolato “Processo”, dalle colonne del quotidiano milanese, Pasolini chiede
di avviare un vero e proprio processo pubblico al partito della Democrazia
Cristiana e ai suoi dirigenti. Il terremoto iniziato con lo scritto “Il romanzo
delle stragi”, troverà il suo culmine con questo titolato “Processo” (5) e che così esordisce:
“Dunque: indegnità,
disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i
petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto
tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la CIA, uso illecito
di enti, come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna
(almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione
paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione
antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua
totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire,
paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria,
responsabilità dell’abbandono «selvaggio» delle campagne, responsabilità
dell’esplosione «selvaggia» della cultura di massa e dei mass media,
responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del
decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche
distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori. [...]
L’immagine dei potenti
democristiani ammanettati tra i carabinieri è un’immagine su cui riflettere
seriamente”.
Tutto quello che Pasolini
scrive in quella spietata requisitoria un paio di mesi prima di essere
massacrato sul lido di Ostia, e precisamente il 2 novembre, è una sfida aperta
a notabili, golpisti, mafiosi, nazifascisti, corpi oscuri e traditori della
Repubblica, partiti, giornalisti, Cia, governo americano, industriali, insomma
le varie componenti (e forme) in cui il potere si stratifica, per ribadire la
sua anarchica irriducibile inimicizia di scrittore e intellettuale non servile
e che solo una stampa corriva e un’intellettualità prona, non ha voluto vedere
come quelle parole e quei concetti, avessero messo seriamente e definitivamente
in pericolo la vita dello scrittore, e che dunque necessitava di un sostegno
pubblico incondizionato. Sostegno che come si può vedere leggendo gli interi
scritti dello scrittore apparsi sia sul “Corriere” che su vari altri organi di
stampa (rimando sempre ai due libri citati),
non solo non c’è stato, ma, a parte rarissime eccezioni, da quegli stessi
ambienti ha dovuto subire il linciaggio personale, e l’irrisione superficiale
alle tesi che andava sostenendo.
La lettera aperta ai
giornalisti del quotidiano torinese “La Stampa” che si interrogavano stupiti a
proposito del Processo pasoliniano al potere, apparsa sul “Corriere” del 28
settembre, nella sua scansione elencatoria non permette alibi di sorta. Tutto
ciò che vi è richiesto a nome dei cittadini italiani, suona come la
requisitoria di un tribunale popolare che non ammette reticenze ed omissioni.
[…] I cittadini italiani
vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto
benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità:
ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè
culturali.
I cittadini italiani
vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta
tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia
Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali,
cittadini di seconda qualità.
I cittadini italiani
vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta
civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi,
urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a
se stessa la campagna.
I cittadini italiani
vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto
progresso la «massa», dal punto di vista umano, si sia così depauperata e
degradata.
I cittadini italiani
vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto
laicismo l’unico discorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che
si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della
gente).
I cittadini italiani
vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta
democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai «cultura» è stata più
accentratrice che la «cultura» di questi dieci anni) i decentramenti siano
serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio
sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso”.
E ancora:
“Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar.
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid.
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia.
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle
decisioni del governo di Roma o collaborato con esso.
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti.
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stato varato il
progetto della «strategia della tensione» (prima anticomunista e poi
antifascista, indifferentemente).
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda.
Gli italiani vogliono
consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti,
connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna”.
Il potere è inchiodato
alle proprie responsabilità e non è permesso ai suoi apparati, ai partiti che
hanno tenuto bordone e a quelli che stavano all’opposizione ma non hanno sufficientemente
vigilato e doverosamente parlato, di ritenersi immuni. Toccava loro formulare
queste richieste e pretendere la verità, ma non l’hanno fatto.
“L’inchiesta sui golpe
(Tamburino, Vitalone…), l’inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo
Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti
neofascisti… Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un
cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi
processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al
Processo di cui parlo io”.
E anche nei confronti
della Magistratura i grandi organi di informazione si rivelano subalterni e
reticenti.
“Ma, mentre contro gli
uomini politici, tutti noi, cari colleghi della «Stampa», abbiamo il coraggio
di parlare,
a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti,
civicamente e seriamente zitti. Perché?”.
Ritorna l’obbligo morale
della parola, quella parola che non può essere delegata ad un uomo solo. La
solitudine che lo accompagna è espressa in più di un passaggio nella stesura de
“Il Processo”: “Sono solo, in mezzo alla
campagna … Qui non ho niente da perdere…”. E ancora: “Ora
(o almeno così sembra a un
intellettuale solo in mezzo a un bosco)”. Questo Processo non può essere
lasciato a un uomo solo: “Ma devo farlo
solo io, in mezzo a un bosco di querce? Questa
volta non mi va di essere ignorato, snobbato, lasciato solo al mio monologo…”
e indica a chiusura dello scritto i nomi di quanti quel processo dovrebbero
giuridicamente formalizzare.
Con Pasolini e le sue
battaglie, l’intellettuale torna ad essere quello che era stato nei momenti più
alti della sua tradizione critica, e che il neocapitalismo trionfante ha reso
subalterno. Il suo rifiuto, la sua critica radicale al potere, il suo no pronunciato con fermezza, è lo stesso
rifiuto che aveva fatto dire al vescovo di Münster, Clemens August von Galen,
nei confronti del nazismo: “Seppur tutti,
io no!”.
Pasolini con i suoi
rifiuti, con la sua collisione col potere, con la sua parola libera pronunciata
in favore di un’intera comunità, ha reso grande la sua missione di scrittore.
Come ebbe a dire Albert Camus in occasione dell’attribuzione del premio Nobel,
“Uno scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo
giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché può, i due impegni che
fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della
libertà”.
Pasolini ha tenuto fede ad
entrambi questi impegni.
Tomba di Pasolini a Casarsa |
Note
1. AA. VV. La strage di stato. Controinchiesta. Samonà e Savelli editori, 1970.
2. Per questa strage
si veda Fabio Cuzzola, Cinque anarchici
del Sud. Una storia negata,
Città del Sole Edizioni, 2011.
3. Poi col titolo
“Il romanzo delle stragi” corretto da Pasolini stesso e pubblicato nel volume
Scritti corsari,
Ed. Garzanti, 1975.
4. Sul “Corriere
della Sera” del 14 novembre 1974, ora in Scritti
corsari con il titolo “L’articolo delle lucciole”.
5. Il testo si trova
ora in Lettere luterane.
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