ANCORA SANGUE A PARIGI
Ancora sangue a Parigi, ancora sangue a Beirut.
Nel giro di quarantotto ore lo Stato Islamico rivendica le stragi nei quartieri
sciiti di Beirut, quaranta morti, e nel centro di Parigi, centoquaranta morti. Nemmeno un anno fa l'ultima eclatante azione
jihadista in Europa, il massacro della redazione di Charlie Hebdo e le stragi
nei negozi kosher a Parigi. Ad inizio novembre il vigliacco attentato ad un
aereo civile russo in Sinai aveva fatto altre centinaia di morti. E tra questi
attentati ad aerei colmi di turisti e a locali a Parigi uno stillicidio
quotidiano, Beirut è solo l'ultimo, in tutto Bilad al-Sham (il cosiddetto Levante di eurocentrica
memoria essendo la sponda orientale del Mediterraneo, l'antica provincia
settentrionale dei Califfati Omayyadi e Abbasidi, che comprende le regioni storiche di Siria e Palestina, attuale Libano
compreso) e Iraq. Ma intanto numerose sono state le sconfitte subite dal
califfato sul campo. Le popolazioni del Rojava hanno resistito agli assalti e
agli assedi e hanno ricacciato le truppe di Daesh oltre l'Eufrate in una fascia
di decine di chilometri; hanno liberato tutto il corridoio dall'Eufrate al
confine con l'Iraq in cui la Turchia confina con la Siria, creando enormi
difficoltà logistiche per gli islamisti; le milizie degli Yazidi, oggetto di un
vero e proprio genocidio da parte islamista neanche un anno fa, hanno
riconquistato le loro terre, agendo insieme alle milizie dei cantoni
confederati curdi e ad unità del governo regionale curdo in Iraq, e tagliando
in due il territorio dello Stato Islamico, dividendo le due principali città,
Raqqa e Mosul. Per il Califfo Abu Bakr al Baghdadi i tempi sono cupi. La grande
scommessa fatta dalla sua organizzazione è stata la creazione di un nucleo
territoriale in cui restaurare l'islam medioevale, in cui fondarsi come stato.
E così è stato: la capacità di controllare le risorse economiche del
territorio, il tentativo di omologazione della popolazione tramite
l'eliminazione fisica o l'espulsione forzatadei culturalmente diversi:
cristiani e yazidi, la pacificazione dei conflitti tribali, il drenaggio di
risorse economiche tramite la fiscalità. Ma tutto questo ha avuto un prezzo:
l'ISIS si è innalzato in potenza ed è arrivato a preoccupare gli stessi che l'hanno
finanziato come le petromonarchie teocratiche del Golfo Arabico. Ma ancora
conta alleati in regione: la Turchia di Erdogan continua a chiudere due occhi
sulle basi logistiche del califfato sul territorio turco, continua ad aiutare
sottobanco l'ISIS per colpire i processi rivoluzionari in corso nel
Kurdistan e nel tentativo di dare una spallata finale al
regime di Assad in Siria. Gli stati a governance
sunnita, o per lo meno frazioni delle loro classi dominanti, continuano ad
usare l'ISIS e le organizzazioni similari in funzione anti-iraniana, e
notiamo di sfuggita la coincidenza delle stragi a Parigi con la programmata
visita in Europa del presidente iraniano, ad ora rimandata. Il governo
israeliano se ne sta in disparte: fintanto che si massacrano nelle sue
immediate vicinante non potrà emergere nessun attore in grado di sfidarlo manu militari come fece Hezbollah nel
2008. E il Califfato sa benissimo che non può permettersi di affrontare sul
campo, nella zona vicino al Golan dove Israele e Califfato confinano,
l'esercito di Tel Aviv: l'abnorme disparità di forze, tecnologie e capacità
militari porterebbe alla disgregazione immediata delle truppe islamiste.
Ma se sul campo si prendono le bastonate dalle milizie
dei cantoni confederalisti-democratici, dai peshmerga del governo regionale del
Kurdistan iracheno e dalle milizie sciite irachene (braccio armato dell'Iran sul fronte iracheno ma accusate di
pulizia etnica verso i sunniti, soprattutto durante la riconquista di Tikrit)
coordinate con l'esercito siriano e con il supporto aereo, molto
contraddittorio al suo interno, della Coalizione Internazionale e della Russia,
che cosa rimane al Califfo? Resistere sul campo, certo, e resisteranno ancora a
lungo perché nei fatti si sta instaurando un equilibrio di forze, ma anche provare a mascherare le
sconfitte con qualche azione spettacolare nel cuore dell'Europa; provare a
mantenere l'immagine di invincibilità derivata dai successi militari di un anno e mezzo fa. Molti di coloro che in Europa e in
Nord Africa, i due attacchi della primavera ed estate scorsa in Tunisia sono
emblematici, erano sensibili alle sirene del Califfo sono emigrati nei
territori sotto il suo controllo, alcuni sono tornati con addestramento, soldi
e contatti, e hanno aggregato a loro altre persone. In questo si
mistificano contemporaneamente due fatti. Il primo è che le intere comunità
musulmane europee siano il nemico interno: una banale questione di numeri lo dimostra dato che gli islamici europei
radicali, più o meno militanti, sono poche migliaia a fronte di una comunità di
decine di milioni di individui, concentrati soprattutto in Francia, Regno Unito
e Germania. Il secondo fatto che viene demistificato è che le misure di
intelligence messe in campo dai governi occidentali siano di alta qualità. Un
attacco alla sede di Charlie Hebdo e la successiva strage al'Hyper Kosher
potevano essere compiuti da pochi individui con armamenti leggeri e un minimo
di addestramento base e in questo più difficilmente individuabili mentre i
sette attacchi coordinati di venerdì 13 hanno necessariamente visto la
partecipazione di decine di persone, anche con capacità tecniche non comuni,
per procurare armi, munizionamento ed esplosivo, mezzi logistici. Le notizie al
momento in cui questo articolo vengono scritto dicono che l'intelligence
irachena avesse avvisato le sue controparti europee già giovedì che qualcosa di
grosso sarebbe successo a breve dato che al-Baghdadi aveva
ordinato rappresaglie contro i paesi impegnati a colpire gli obbiettivi
islamisti, quindi non solo paesi NATO e arabi ma anche Russia e Iran; inoltre
pare che la mente dell'attacco sia un belga residente nei territori dello Stato
Islamico. Come mai l'intelligence francese, che pure ha un'esperienza decennale
con lo jihadismo a causa della guerra civile in Algeria negli anni Novanta, non
ha individuato quello che si stava preparando? Eppure gli ipertrofici e
policentrici apparati di sicurezza dispiegati in tutto il mondo occidentale non
dovrebbero servire proprio a questo? Le legislazioni antiterrorismo non
dovrebbero servire appunto a colpire questa gentaglia? A quanto pare, invece,
sono più funzionali per estendere un apparato di vigilanza continuo su tutta la
popolazione che per bloccare una banda di tagliagole. Il paradigma della
“guerra al terrore” da cui derivano legislazioni e pratiche emergenziali, e il
conseguente stato di eccezione, più o meno permanente, è finalizzato ad un
maggiore disciplinamento dei dominati all'interno degli stati occidentali più
che alla difesa da un qualunque nemico esterno, ed è servito, in Afghanistan e
Iraq, a fornire la copertura ideologica per un'operazione di predazione
imperiale atta a conseguire un maggior controllo sulle risorse energetiche e a
fornire un momento di accumulazione all'industria bellica statunitense. Inoltre
la paura, il terrore, la guerra si possono mettere a valore. Il mercato della
sorveglianza di massa, che sia condotto da aziende squisitamente private come
le grandi multinazionali statunitensi o di carattere parastatale come
Finmeccanica o altre aziende europee, ha subito un'impennata da quell'oramai
lontano settembre del 2001, insieme al settore della difesa privata, comprese
le aziende che forniscono esclusivamente sistemi e piattaforme logistiche per
gli eserciti. Hollande, dopo aver fatto bombardare Raqqa per tutta la notte, ha
dichiarato che “la Francia è in guerra”, “chi sfida la Francia sono solo i
perdenti della Storia”, e chiede di modificare gli articoli 13 e 36
della Costituzione Francese, proprio quelli che disciplinano i poteri presidenziali
e lo stato d'emergenza e di guerra, col fine dichiarato di poter prorogare lo stato
d'emergenza per i prossimi tre mesi oltre i dodici giorni che la prassi prevede
per decisione presidenziale e senza approvazione del parlamento. La logica dell'emergenza
è servita a disciplinare e mantenere in uno stato subordinato il
proletariato immigrato e i suoi figli delle periferie. È servita a tenere una
costante tensione interna al proletariato europeo e a dividerlo su base etnica.
E in questa logica rientra anche, in modo edulcorato e addolcito, il paradigma multiculturale
caro alla sinistra progressista: mantiene una divisione in frazioni
etnico-religiose delle classi subalterne e crea nuovi corpi separati e intermedi
costituito dall'associazionismo religioso, nel tentativo di disinnescare i conflitti
di classe interni alla popolazione di origine immigrata. Lampante il caso del
deputato del PD Kalid Chaouki, che finita la gavetta che lo vede fondatore e
poi presidente dell'associazione “Giovani musulmani d'Italia” e membro della “Consulta
per l'Islam italiano” presso il Ministero dell'Interno, incomincia quella giornalistica
e politica nei ranghi del PD fino a diventare deputato e responsabile nazionale
immigrazione del partito.
Che i morti siano parigini o abitati di Beirut o di qualche
sperduto villaggio siriano o, ancora, degli affogati nel Canale di Sicilia a
noi non interessa. Non interessa perché ovunque sono loro a guadagnarci dalle
guerre, ovunque siamo noi a subire quelle guerre. Ne consegue che ovunque ci
dobbiamo opporre alle loro guerre e affermare la necessità e la volontà di
costruire una società radicalmente diversa: laica, pluralista, solidale, senza
frontiere, egualitaria e libera. Una società in cui tutti possano soddisfare i
propri bisogni e perseguire i propri desideri. Per questo è necessario ampliare
le lotte e disinnescare i meccanismi securitari, classisti e razzisti che si fondano
sulla creazione di un discorso nazionalista, sulla retorica dell'unità nazionale,
sulla cooptazione della
popolazione nelle logiche di guerra. È necessario e
doveroso denunciare che la canea fascista europea è speculare alla canea
islamofascista: entrambi sono portatori di una visione bigotta, reazionaria e classista
dei rapporti sociali. È necessario denunciare che la logica del terrorismo
risiede nelle strutture sociali su cui si mantiene l'ordinamento globale. È
necessario affermare il valore della diserzione dalle loro guerre, del superamento
del supremo spettacolo del terrorismo e dell'antiterrorismo, e rifiutare sia il
ruolo di vittime passive della macelleria islamista che di carnefici al soldo
delle classi dominanti occidentali.
La redazione
collegiale di Umanità Nova- Milano