PARIGI
PROPOSTA PER LA MESOPOTAMIA
di Carlo Rovelli
Un’analisi lucida e di buon senso questa di Carlo
Rovelli,
che andrebbe meditata a fondo e presa sul
serio.
Carlo Rovelli |
Lo
Stato Islamico è in una situazione che sembra paradossale da molti punti di
vista. È in guerra contro un’alleanza che comprende le due maggiori
superpotenze planetarie, più la Francia, la Siria, l’Iraq, l’Iran, la Turchia,
l’Arabia Saudita, i Curdi, gli Hezbollah, e diversi altri stati e gruppi… Non
si vede come qualcuno potrebbe resistere militarmente a una simile coalizione.
E invece lo Stato Islamico resiste e spesso vince. In secondo luogo, il
Califfato appare formato da una banda di fanatici dalla mentalità medioevale,
addestrati in qualche oscuro campo in Afghanistan, eppure attualmente controlla
una vasta regione abitata da dieci milioni di abitanti, esporta petrolio,
importa armi, evidentemente si serve degli strumenti finanziari internazionali.
In terzo luogo, fa mostra di una brutalità disgustosa, eppure esercita un
fascino che attira giovani da tutto il mondo, fino a spingerli ad andare a
combattere in sua difesa. Secondo il Washington Post, solo le ragazze (femmine)
scappate dall’Occidente per combattere per lo Stato Islamico sono più di 500
(l’ISIS ha una brigata femminile: la Brigata Al-Khansaa). Come è possibile
tutto ciò? Per avere un po’ più di chiarezza su questa situazione e cercare
soluzioni ragionevoli, credo sia necessario ricordare alcuni fatti.
Il primo
fatto è che lo Stato Islamico è utile a molti degli attori che gli sono
ufficialmente nemici. Vediamo solo alcuni casi, cominciando dalla Siria: se non
ci fosse stato lo Stato Islamico, Assad molto probabilmente non sarebbe più al
potere. Quando in Siria sono esplose le proteste popolari contro la dittatura,
la risposta è stata violenta, con la giustificazione che i rivoltosi erano
terroristi. Gli Stati Uniti e la Turchia hanno armato gruppi di ribelli
antigovernativi che, con il supporto dell’Occidente e della popolazione,
avrebbero avuto ragione di Assad. Ma è arrivato lo Stato Islamico, l’Occidente
e la Russia si sono preoccupati che la Siria potesse cadere nelle mani degli
islamisti, e Assad è stato graziato. È abbastanza noto il fatto che il governo
siriano bombarda spesso le posizioni degli altri ribelli, raramente quelle
dello Stato Islamico.
La Turchia considera il
problema curdo il suo primo problema di sicurezza e di integrità territoriale.
I Curdi iracheni sono gli unici che si sono opposti in maniera effettiva allo
Stato Islamico non appena la sua espansione territoriale è arrivata nelle zone
di loro influenza. I successi militari curdi e il rafforzarsi dell’evidenza
dell’esistenza di fatto di uno stato curdo indipendente nel nord dell’Iraq
impensieriscono la Turchia, e la riluttanza turca ad una strategia netta contro
lo Stato Islamico è nota. Il petrolio dello Stato Islamico è esportato
principalmente via terra in Turchia, senza che il governo intervenga, e la
Turchia è stata accusata ripetutamente di essere più benevola verso gli
sconfinamenti dei combattenti dello Stato Islamico che non di quelli curdi.
Israele, da parte sua,
vede l’Iran sciita come principale pericolo, e gli Hezbollah nel sud del
Libano, armati dall’Iran, come i suoi più fastidiosi vicini. L’Iran non ha
fatto nulla per scoraggiare questi timori israeliani, e il precedente
presidente, Ahmadinejad, non esitava a dichiarare pubblicamente che voleva
buttare in mare Israele. In passato, la presenza di un Iraq sunnita fieramente
anti iraniano rappresentava per Israele una barriera opportuna fra sé e l’Iran,
e fra gli Hezbollah e l’Iran. Alla caduta di Saddam Hussein, l’Iraq, invece di
evolvere in una serena democrazia filo-occidentale come sperava l’Occidente, è
scivolato nelle mani di un governo sciita e via via più filo iraniano, con il
risultato che Israele è terrorizzata di avere il mondo sciita filo-iraniano
alle porte. Niente di più conveniente per Israele che la frantumazione
dell’Iraq in tre stati: uno curdo a Nord (che di fatto esiste già), uno sciita
a Est, e uno sunnita a Ovest, che tenga l’Iran separato da sé e dagli
Hezbollah. Non a caso lo Stato Islamico minaccia tutti, ma curiosamente non
Israele, nonostante Israele non goda certo di buona immagine nel mondo arabo
radicale. Questa apparente stranezza è spesso messa in luce dai commentatori
dei paesi arabi.
Grazie allo Stato
Islamico, la Russia è ritornata nel grande gioco, da grande potenza: ha messo
militari in Siria, e ha una scusa per bombardare (invece dell’Isis, come aveva
annunciato) i ribelli siriani supportati dagli americani. Suscitando in questo
modo lo sdegno degli americani e dei turchi, che hanno accusato la Russia di
bombardare il loro amici invece che lo Stato Islamico, fino al punto di
abbattere un aereo russo.
Quatar e
Arabia Saudita hanno finanziato a lungo lo Stato Islamico, che propaganda
esattamente l’ideologia dell'Islam Wahhabita (o Salafita) di questi stati. Ci
scandalizziamo molto del fatto che lo Stato Islamico voglia instaurare la
Sharia, ma la Sharia è già instaurata in questi stati. La presenza dello stato Islamico ha bloccato il
progetto dell' oleodotto che Assad aveva concordato con l’Iran, che avrebbe
pesantemente nuociuto agli stati arabi del Golfo, produttori di petrolio e gas.
La monarchia Saudita ha fatto poi un netto dietrofront quando lo Stato Islamico
ha proclamato il Califfato e messo in dubbio la legittimità della sovranità
della casa di Saud, ma l’Arabia Saudita è una realtà complessa, e l’élite
Saudita appare divisa: l’ISIS è in fondo il risultato del grande sforzo di
“soft power” che l’Arabia esercita da anni per diffondere l'Islam Wahhabita con
le scuole coraniche.
Infine c’è l’America, in
fondo ancora la superpotenza mondiale. A me ha colpito il fatto che lo Stato
Islamico si è espanso nel silenzio americano fino a che non è arrivato a
lambire territori curdi. Solo a questo punto gli americani hanno cominciato a
bombardare, e i bombardamenti si concentrano nella zona di attrito fra curdi e
Stato Islamico. Sembra quasi che il messaggio americano sia “qui va bene, lì
no”. L’Iraq, che gli americani hanno liberato da Saddam Hussein, sta scivolando
nelle mani dell’Iran. Il motivo è semplice: gli americani hanno imposto libere
elezioni. La maggioranza degli Iracheni è la parte povera della società, sciita
e istintivamente vicina all’Iran sciita, religioso e anti-occidentale. Da
sempre risente la dominazione della minoranza formata dalla borghesia sunnita,
tradizionalmente laica e filo-occidentale. Con il governo ufficiale dell’Iraq
che gli scappa di mano (è stato il governo iracheno a chiedere all’esercito
americano di andarsene), gli americani vedevano tutti i loro sforzi in Iraq
concludersi con una vittoria politica del loro più esplicito nemico nel mondo,
l'Iran. Ha dato veramente tanto fastidio agli Stati Uniti una insurrezione
interna, che forza il governo a richiamare indietro i militari americani, e a
dire “scusateci, abbiamo bisogno di voi…”? Non so lo. Certo è che se davvero
volesse battere militarmente lo Stato Islamico, l’America ne avrebbe largamente
i mezzi, come ha avuto i mezzi per abbattere l’esercito di Saddam Hussein, di
gran lunga più potente. Ma non lo fa. Come ha ragionevolmente detto Obama una
settimana fa, una nuova invasione porterebbe a una deleteria occupazione
infinita, oppure ad un nuovo ritiro americano e poi ancora una volta il
problema attuale: chi comanda in Mesopotamia?
In breve, il problema
dello Stato Islamico è che a parole tutti gli sono contro, ma di fatto fa
comodo a un sacco di gente. Se non fosse così, sarebbe sparito da tempo. Questo
forse non spiega del tutto, ma certo aiuta a capire perché esiste, nonostante
abbia tutti nominalmente contro.
La seconda
considerazione riguarda un altro paradosso: come è possibile che una banda di
fanatici faccia tutto questo? La risposta è nella storia, e nella natura dello
Stato Islamico. Lo Stato Islamico è il prodotto di una alleanza improbabile.Una
di quelle alleanze fra gente diversissima, basata sul “il nemico del mio nemico
è il mio amico”, che caratterizzano la politica medio-orientale. L’alleanza è
ben nota e conosciamo perfino i luoghi, le persone e le date della sua
formazione. Le due componenti dell’alleanza sono i gruppi fondamentalisti
estremisti islamici da un lato, e la vecchia vasta struttura di potere di
Saddam Hussein: la borghesia sunnita dominate nell’Iraq del partito Baaht.
L’alleanza è improbabile perché i primi vengono dal fondamentalismo religioso
eversivo, i secondi dal nazionalismo socialista arabo laico al potere. Ma non
si tratta neanche di vera sorpresa, e tutto sommato a lanciare l’idea stessa di
questa alleanza possibile è stato lo stesso Saddam Hussein, che negli ultimi
proclami prima di essere abbattuto dall’invasione americana ha chiamato la
religione a difesa del suo mondo. Ricordate gli ultimi proclami di Saddam Hussein?
C’era esattamente l’idea che per difendersi dall’Occidente la sua gente dovesse
assumere la faccia dell’Islam radicale e trascinare le masse. Curioso per il
dittatore più laico e filo-occidentale del medio oriente, ma così va il mondo.
Oggi gli analisti americani riconoscono apertamente che l’errore principale che
hanno commesso, o meglio, hanno permesso fosse commesso, dopo la caduta di
Hussein, è stata la “de-ba’athizzazione” completa dell’Iraq. Concretamente,
questo ha significato che i quadri dell’amministrazione statale, e soprattutto
dell’esercito, cioè tutta la borghesia irachena che costitutiva la struttura
portante dello stato, è stata buttata sulla strada, senza stipendio, senza
difesa e soprattutto, come ha sottolineato recentemente il consigliere politico
americano in Iraq, senza alcuna dignità, in una cultura, quella araba, dove la
dignità conta molto.
Per il segmento più
povero, sciita, della popolazione irachena, che ha vinto le elezioni, è stato
certo un piacere sottile vedere tutti i sunniti ridotti a cittadini di serie B.
I tentativi americani di evitare questa “settarizzazione” drammatica dello
stato iracheno sono falliti. Un esempio fra molti è quello di Tariq al-Hashimi,
vice presidente sunnita dell'Iraq per cinque anni, accusato di sovversione e
condannato a morte nel 2012 (in contumacia, nel frattempo è scappato), dal
governo sciita. Quello che è successo in Iraq fin da subito dopo l’invasione
americana è stata la crescita di una strisciante insurrezione sunnita contro il
nuovo stato. A lungo non è stato chiaro se un governo di unità fra il mondo
sciita e quello sunnita fosse possibile, ma con il passare del tempo lo scontro
si è radicalizzato. Le zone più radicali del mondo sunnita, come Fallujah,
hanno prima combattuto a fondo l’invasione americana, poi sono diventate il
cuore dell’insurrezione sunnita contro il governo Iracheno, sempre più
controllato dagli sciiti, e indirettamente dall’Iran. Che in Iraq ci sia una
guerra civile in atto fra le due componenti della popolazione non c’è dubbio, e
di per sé questo non c’entra niente con il radicalismo islamico. Anzi,
all’inizio sembrava che fossero gli sciiti più vicini al radicalismo, quando il
giovane governo iracheno pullulava di leader religiosi sciiti. Poi c’è stata la
svolta.
Curiosamente, una causa
occasionale indiretta della svolta è stata l’indignazione mondiale sollevata
dagli orrori della prigione di Abu Ghraib, nel 2003. La campagna di stampa
mondiale contro il trattamento dei detenuti in questa prigione ha messo in
forte imbarazzo il governo americano, che ha reagito aprendo un campo di
detenzione modello in Iraq: il Camp Bucca. Camp Bucca ha avuto un ruolo
centrale per la nascita del Stato Islamico. Camp Bucca è arrivato ad avere fino
a 24 mila prigionieri: praticamente una cittadina chiusa in prigione. I
prigionieri avevano notevole spazio di manovra e interazione fra loro.
Organizzavano essi stessi, e insegnavano in classi, su argomenti come
letteratura e religione. Organizzavano campionati di calcio interni e potevano
ascoltare radio e televisione insieme. Ricevevano visite esterne di familiari
con relativa facilità. Diversi dei responsabili del campo hanno lanciato
l’allarme che il risultato di tutto questo era una radicalizzazione politica
dei prigionieri su vasta scala. Oggi è ampiamente documentato il fatto che Camp
Bucca ha rappresentato il capitolo iniziale dello Stato Islamico. Molti dei
leader dello Stato Islamico, compreso il leader, Abu Bakr al-Baghdadi, il
numero due, Abu Muslim al-Turkmani, e il principale comandate militare, Haji
Bakr, erano prigionieri e si sono incontrati e organizzati durante la
prigionia. Ma soprattutto, Camp Bucca è stata l’occasione per la fusione di due
anime diversissime dell’insurrezione in Iraq: il radicalismo islamico
estremista e la vecchia struttura Baaht dello stato di Saddam Hussein,
emarginata dal potere. È all’interno di Camp Bucca che questi due mondi si sono
frequentati, conosciuti e alleati. Gli jihadisti hanno fornito la forza
ideologica, gli ex-Baathisti le capacità militari, organizzative, burocratiche
e soprattutto il sostegno della popolazione sunnita. La storia insegna che non
esiste insurrezione senza supporto popolare.
Qualche esempio: Fadhil
Ahmad al-Hayali, secondo in linea di comando nell'esercito ISIS era ufficiale
dell'esercito di Hussein. Izzat Ibrahim al-Douri, generale dell’esercito di
Saddam Hussein, vice presidente del consiglio di comando dell’Iraq di Hussein è
indicato come il responsabile per la presa di Mosul nel giugno 2014. Azhar
al-Obeidi e Ahmed Abdul Rashid, generali del partito Ba’ath, sono indicati come
governatori di Mosul and Tikrit. Una delle prime rivendicazioni dell’ISIS sui
social networks è stata la cattura e l’esecuzione (messa in dubbio) di Raouf
Abdul Rahman, il giudice che ha condannato a morte Saddam Hussein. La presenza
della classe dirigente irachena nello Stato Islamico rende comprensibile come
questo possa funzionare. La propaganda è dominata dal radicalismo, ma la
struttura ossea dello stato è la rete di relazioni tribali che domina la
politica della Mesopotamia: il mondo sunnita che rivendica potere. Mi sembra
che solo tenendo presente questo aspetto dello Stato Islamico si possa pensare
a una soluzione.
Il 17 Settembre 2009 Camp
Bucca è stato chiuso. La maggior parte dei prigionieri sono stati semplicemente
liberati. Un gruppo di questi si sono uniti per iniziare quello che sarà il
nucleo storico dello Stato Islamico. La presenza della vecchia classe dirigente
irachena nello Stato Islamico rende comprensibile come questo possa esistere e
funzionare. Si tratta di larga parte della struttura portante dell’esercito e
dell’amministrazione di Saddam Hussein. Gente che sa come organizzare un
esercito di molte decine di migliaia di combattenti, come fare fronte a una
guerra su più fronti. Sa dove il vecchio esercito di Saddam Hussein aveva
nascosto le armi quando diventava ovvio che non si sarebbe potuto resistere
all’armata americana. E più ancora, sa come organizzare e gestire uno Stato di
10 milioni di abitanti: raccogliere le tasse, fare funzionare le centrali
petrolifere, interagire con le banche internazionali, organizzare la posta, le
scuole, i trasporti, le assicurazioni, la salute pubblica, la ricostruzione
delle strade, degli ospedali eccetera: tutte cose di cui lo Stato Islamico
attualmente sembra occuparsi molto meglio delle precedenti forze in campo nelle
regioni della guerra civile irachena e siriana. Sa come combattere la
corruzione e organizzare la polizia. Senza questo apporto di conoscenza e di
saper fare, lo Stato Islamico sarebbe incomprensibile. Soprattutto, lo Stato
Islamico è incomprensibile senza l’evidente appoggio popolare che lo sorregge
in regioni di maggioranza sunnita come Fallujah, dove il risentimento per
l’emarginazione sociale operata dal settarismo del governo iracheno sciita ha
dato origine alla guerra civile irachena. Mentre la propaganda e il linguaggio
“ufficiale” dello Stato Islamico sono chiaramente dominati dalla componente
radicale islamista, la struttura ossea dell’insurrezione e dello stato è, molto
più semplicemente, la rete di relazioni tribali che da sempre domina la
politica della Mesopotamia: tradizionalmente al potere in Iraq,
tradizionalmente soggiogati dalla minoranza alawita in Siria, il mondo sunnita,
potente in Medio Oriente, si trova ora schiacciato da una nuova dominanza sciita
e si ribella, rivendicando potere.
Il terzo
elemento per comprendere lo Stato Islamico è considerare l’uso che fa
dell’orrore. Diverse decine di video di alta qualità e stile hollywoodiano sono
stati diffusi dallo Stato Islamico per mostrare macabre e repellenti immagini
di orrore. I proclami dell’Isis sono spesso roboanti e belligeranti al limite
del ridicolo. Per capire, credo un’osservazione sia cruciale: c’è una
sconcertante somiglianza fra i termini usati in Occidente per descrivere lo
Stato Islamico, e quelli usati dallo Stato Islamico per descrive l’Occidente: “abominio, perversione, delirante, demoniaco,
degenerato, scellerato, barbarico,
inumano...”. L’Occidente ha le sue pecche, ma certo non è così abominevole.
La domanda da porsi è se l’immagine dello Stato Islamico in Occidente non sia
altrettanto irrealistica. Basarla su video, proclami e numero di morti è come
giudicare l’Occidente unicamente dai droni che uccidono civili: l’Occidente è
ben altro. La combinazione di video di qualità, Internet e orrore è nuova,
ma l’uso dell’orrore non è certo appannaggio dello Stato Islamico. Le guerre
civili producono questi orrori, e alzare il tono per spaventare il nemico è una
tattica brutale ma purtroppo comune. Bruciare villaggi al Napalm in Vietnam non
era meno orripilante, e aveva lo stesso scopo: terrorizzare il nemico per
affermare la propria superiorità in termini di forza. A casa nostra molti
ricordano le file di impiccati che oscillavano al vento e marcivano appesi agli
alberi, lungo la strada per Bassano, durante la guerra civile italiana nel 1944-’45.
La differenza è che non c’era Internet. Lo scontro in atto ha gettato tutti noi
nella usuale allucinazione che purtroppo nasce in tutti i conflitti: il nemico
diventa d’un tratto una manifestazione del diavolo, dell’orrore, dell’abominio,
e continuiamo a ripeterci l’un l’altro e fare crescere nella nostra
immaginazione tutti i dettagli più orripilanti che ci confermano questo
percorso di diabolizzazione. Per i
giovani mussulmani che si fanno affascinare dalla propaganda dello Stato
Islamico, succede la stessa cosa, simmetrica: l’Occidente diventa diabolico,
diventa l’espressione stessa del male. Questo è solo il percorso psicologico
simmetrico, usuale di ogni conflitto, sia fra individui sia fra popoli. Se
vogliamo cercare di mantenere la testa fredda e capire, non dobbiamo cadere in
questa trappola.
Questo ovviamente non
significa mettere l’Occidente e lo Stato Islamico sullo stesso piano.
Ovviamente non lo sono rispetto al nostro giudizio, per ovvi motivi. Ma fra il
dissentire anche molto a fondo, e la diabolizzazione
e la guerra, passa una distinzione che è tutt’altro che marginale: io
dissento profondamente dalle idee che guidano l’Arabia Saudita, dove le persone
vengono messe a morte, prese a frustate per comportamenti che in occidente sono
leciti, dove le donne non possono neppure guidare l’automobile, il potere è
nelle mani di un monarca perché è discendente di Maometto, la legge ufficiale è
la Sharia, e l’ateismo è punito con la morte. Dissento profondamente da tutto
ciò, e approvo chi combatte queste cose con la parola lo scritto, l’esempio e
la politica, ma non per questo penso che dovremmo bombardare l’Arabia Saudita e
ammazzare tutti i Sauditi. Una cosa è il dissenso ideologico, una cosa molto diversa
è la guerra. Per capire cosa succede in Mesopotamia, e cercare soluzioni, la
questione non è il giudizio politico: è capire cosa sta succedendo senza farsi
accecare dai meccanismi fuori controllo della diabolizzazione. O dal terrore sciocco. Resta infinitamente più
facile in Occidente morire di incidente stradale che per attentato
terroristico. Lo Stato Islamico è un problema perché produce terrorismo e
destabilizza la regione, non certo per la sua pericolosità militare: non è
riuscito a tenere Kobane davanti ai Curdi, figuriamoci se impensierisce
militarmente la NATO! Sono pochissime le testimonianze dirette sul vasto
territorio controllato dall’ISIS. Gli straordinari reportage di Francesca Borri
ci danno qualche elemento per capire, poco altro. La realtà di dieci milioni di
persone potrebbe essere molto meno diabolica dell‘immagine mediatica. Nelle
zone dove si combatte e per le minoranze opposte ai Sunniti, la situazione deve
essere durissima, ma nelle vaste zone sunnite che hanno appoggiato lo Stato Islamico,
siamo sicuri che ci sia l’orrore dipinto, senza saperne niente, dai nostri
media? Credo sia facile invece immaginare quello che la gente vuole, perché è
la stessa cosa che tutti vogliono: pace. La fine della guerra. La pace che
Saddam Hussein, sunnita, garantiva.
Se questo
quadro che ho delineato è anche solo in piccola parte ragionevole, a me sembra
che esista una possibile direzione per risolvere il problema dello Stato
Islamico: normalizzarlo.
Cercare di toglierlo dalle
mani più estremiste e fanatiche e favorire la normale evoluzione dei movimenti
insurrezionali. I movimenti insurrezionali più diversi, dal risorgimento
italiano al sionismo, dall’insurrezione araba contro i turchi a quella
vietnamita contro Francia e poi America, sono tutti nati mettendo bombe, e sono
stati inizialmente considerati terroristici. A insorgere sono gli scalmanati, i
Garibaldi e i Lawrence d’Arabia. Poi arrivano le teste fredde e la situazione
si normalizza: Garibaldi a Caprera, Lawrence in Inghilterra, arrivano Cavour o
re Hussein, i vecchi, che lasciano da parte i sogni di insurrezione globale, e
riportano tutto a una relativa ragionevolezza. La guerra del Vietnam era
combattuta dall’America perché se il Vietnam fosse caduto in mani comuniste
l’intero Occidente sarebbe stato certo annientato. All’interno dello Stato
Islamico esiste una essenziale componente ex-Ba’ath che è quella che ha il
supporto della popolazione sunnita. Il punto di arrivo del doloroso processo in
corso in Mesopotamia mi sembra non possa che essere uno stato Sunnita che
erediti l’attuale Stato Islamico. Affiancato da uno stato Curdo filo
occidentale al Nord, che di fatto già esiste anche se nessuno lo dice
esplicitamente, uno Stato Sciita all’Est che già esiste, e una Siria ridotta,
difesa dalla Russia, che già esiste. Ciascuno dei contendenti in gioco rinuncia
a qualcosa, ma la gente vive in pace. La soluzione della frantumazione
dell’Iraq in tre stati, d’altra parte, è una soluzione che da anni molti
preconizzano, considerano come l’unica possibile, e auspicano. I confini
attuali sono artificiali e non rispettano il sentimento popolare. Esiste un
ottimo motivo generale per non modificare i confini presenti: evitare guerre e
conflitti; ma quando si è in guerra da anni, questo motivo perde ogni senso.
L’unità dell’Iraq non ha alcuna ragione di esistere, visto che la larga
maggioranza dei suoi abitanti non la vuole. Molti pensano che comunque si arriverà
a questo. Perché arrivarci dopo molti altri anni di guerra?
Parlare con i nemici è
sempre la cosa più difficile. Ma è la cosa giusta. Lo Stato Islamico è più
debole di come lo si dipinge, la sua forza è solo la poca voglia degli altri di
andarlo ad abbattere. Nonostante la retorica, non è fatto di cretini: non si
tiene una regione di dieci milioni di abitanti senza intelligenza. Dipingerli
come mostri irrazionali è solo miope. Se si sono proclamati “Stato” è perché la
loro aspirazione è uno stato. Nel momento in cui intravedessero la possibilità
di realizzarlo la carica eversiva si affievolirebbe e i deliri millenaristici
perderebbero peso. Anche la rivolta araba contro l’impero turco ambiva a
ricostruire un Califfato che unisse tutti gli arabi, e i Vietnamiti volevano un
pianeta comunista libero dall’Occidente. L’ISIS non può espandersi
ulteriormente: a Nordest ci sono i Curdi, a Est gli Sciiti, a Sud la Giordania
e l’Arabia Saudita, a Nordovest la Siria, difesa militarmente dalla Russia. Lo
Stato Islamico è condannato ad accettare gli attuali confini. Più che mettere
qualche bomba non può fare, ma le bombe non portano a nulla. L’Occidente può
continuare a bombardare, ma i bombardamenti, come ripetono i vertici militari,
non portano a nulla. Nessuno ha voglia di invadere di nuovo la Mesopotamia, per
riaprire il problema. Penso sia necessario parlare con lo Stato Islamico.
L’alternativa è la guerra senza fine. Dolore e destabilizzazione, nessuna
visione per il futuro.
Certo, non sono partner
simpatici per una discussione. Anzi, sono disgustosi. Ma i nemici sono sempre disgustosi. O li
ammazziamo tutti, e poi ci troviamo di nuovo con il problema dell’insurrezione
sunnita, oppure parliamo con loro. Ci sono due comportamenti da evitare in un
conflitto. La sterile discussione sulle colpe, perché la realtà è complessa e
le accuse non forniscono soluzioni. E la spirale psicologica che porta alla diabolizzazione del nemico, compromette
la lucidità e ci spinge a urlare “guerra! guerra!”. L’attuale situazione di
conflitto con lo Stato Islamico sta generando una reazione emotiva collettiva
che mi sembra rischi di offuscare lucidità e razionalità, e rischia di portare
disastri. In questa situazione, come è già successo nel passato, mi sembra un
dovere per gli intellettuali di provare a fare sentire una voce di razionalità
e di ragionevolezza, per cercare di limitare i danni della isteria collettiva. La
prima cosa da fare in un conflitto, è sempre la stessa: deporre le armi e
parlare. Vale per tutti. Per fermare la violenza bisogna cominciare con
smettere di praticarla.
La mia proposta per la
Mesopotamia è normalizzare lo Stato Islamico. Parlare con i Sunniti, fare
emerge la componente ex Ba’ath, quella che pensava di potersi servire degli
islamisti radicali come strumento per tornare al potere, e spingere lo Stato
Islamico alla normalizzazione. Il suo fascino sui fanatici di tutto il mondo
svanirebbe rapidamente. Avremmo molte meno bombe in Occidente. Qualcuno vede
una strada migliore?
*(Una versione molto
condensata di questo testo è apparso sull’Internazionale)
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